“Non stiamo vivendo soltanto la crisi di una sinistra in rovina, la crisi della democrazia nel mondo intero, la crisi di uno Stato sempre più burocratizzato, la crisi di una società dominata dal denaro, la crisi di un Umanesimo sopraffatto da odio e violenza, la crisi di un pianeta devastato dall’onnipotenza del profitto, la crisi sanitaria scatenata dalle epidemie. Stiamo vivendo, soprattutto, una crisi più insidiosa, invisibile e radicale: la crisi del pensiero.” (Edgar Morin “Svegliamoci!” 2022, edizioni Mimesis)
Stiamo vivendo anni difficili. L’accelerazione dei processi di trasformazione mettono in discussione le stesse forme della convivenza. La democrazia, come l’abbiamo consolidata nella Costituzione, è lesionata e la fiducia nei partiti politici è al minimo storico come dimostra la diserzione dalle urne della metà dei cittadini italiani.
L’Europa assiste inerte all’insorgenza dei nazionalismi. E deve fronteggiare la sporca guerra “zarista”. Territorio e ambiente tornano in agenda con emergenze inedite che richiedono un ripensamento dello stesso “fare umano” e modelli di vita e di consumo. Lo sviluppo delle tecnologie digitali, l’intelligenza artificiale, la robotica, la Blockchain, il metaverso cambiano linguaggi e produzione, lavoro e poteri.
L’ideologia liberistica si è dimostrata incapace di affrontare quanto di nuovo emergeva in Occidente: superare il rallentamento del commercio mondiale, prevenire e affrontare l’emergenza sanitaria e la crisi climatica, trovare accordi condivisi per una immigrazione che non finirà, dare soluzione alla questione femminile che ha connotati di inciviltà nell’occidente e di barbarie in tanti paesi. A tutto ciò si è aggiunta l’onda lunga della crisi finanziaria del 2008, a cui sono succedute crisi pandemica e guerra Russia-Ucraina, oltre al conflitto/competizione USA-Cina che hanno determinato la fine del processo di globalizzazione.
Siamo nel pieno di una fase di Transizione.
Fenomeni nuovi e complessi hanno investito la nostra società: invecchiamento della popolazione, immigrazione incontrollata, finanziarizzazione dell’impresa e nuovi colonialismi, ed infine la “rivoluzione” digitale che ha dato accesso a nuove opportunità, ma ha anche rotto i sistemi di mediazione culturale e politica.
Stiamo affrontando una sfida che è riduttivo chiamare economica, sanitaria o climatica perché è anche una sfida filosofica nel senso che il modo di pensare deve guidare e precedere le scelte, la cultura è il farmaco idoneo alla cura, è quello che a noi manca, è la causa prima della crisi, ma è ciò che è necessario e indispensabile per affrontare le incognite di un mondo che cambia e nel quale dovremo costruire una “nuova stagione”.
Il crollo dei partiti che hanno fondato la Repubblica e la polverizzazione delle culture del ‘900 è stato guidato, in nome di una falsa rivoluzione etico-sociale, da una crisi indotta che ha avuto i caratteri di un colpo di stato alimentato, nel mondo irreversibilmente multipolare, da congregazioni di interessi interni ed esterni, sostanzialmente ostili alla democrazia rappresentativa e tendenti a sostanziare nel tempo una ridotta capacità dei partiti a creare stabili identità collettive.
I tentativi di far rivivere i partiti annientati dalla crisi del 1993 sono falliti.
Anche il modello europeo del welfare-state è entrato in crisi quando è prevalso negli anni ’90 il capitalismo finanziario rispetto all’economia reale, favorito da un liberismo divenuto ideologia della sopraggiunta “fine della politica”.
“Ricostruzione” significherebbe cercare di riportare le cose a come erano prima. Ma questo è proprio quello che occorre evitare di fare. La “resilienza” è come il colesterolo, c’è quello buono e quello cattivo. Le potenzialità delle tecnologie digitali di usare i dati per compiere delle scelte devono passare dalle mere applicazioni di marketing alla politica, alle decisioni dei e sui beni comuni e ribaltare la logica centralistica che porta le decisioni in aree di vertice sempre più ristrette, lontane dalle città e dai suoi abitanti.
Siamo al guado, viviamo in un mondo a due facce, il mondo vecchio e il mondo nuovo.
Il mondo vecchio era fatto di persone che producevano manufatti: si investiva il capitale per produrre merci che sul mercato generavano nuovi capitali. Nella seconda metà del Settecento in Gran Bretagna nasce la “rivoluzione industriale” grazie ad una serie di fattori di diversa natura: la disponibilità di capitali; la presenza di una classe di imprenditori, l’abbondanza di manodopera, di risorse energetiche e di materie prime; l’invenzione di macchinari in grado di aumentare la produttività (come la macchina a vapore) e di sfruttare nuove fonti di energia (come il carbone). L’introduzione e l’uso sistematico delle macchine comportarono la concentrazione della manodopera salariata in un unico luogo, la fabbrica. Il nuovo sistema di lavoro, detto factory system, si affermò rapidamente perché permetteva forti riduzioni dei costi di produzione ed elevatissimi profitti.
Poi il vecchio mondo ha inventato un altro modo per generare profitti, trasformare i capitali in “pezzi di carta” capaci di trasformarsi in nuovi capitali. E poi è andato in pensione lasciando campo libero a giovani di talento che si sono inventati il lavoro implicito, quello che facciamo ogni giorno cliccando sulla tastiera del nostro smartphone.
Il mondo nuovo cambia sotto i nostri occhi e l’innovazione è più veloce di un programma scolastico. L’innovazione corre e le competenze diventano obsolete senza l’opportuna manutenzione, quindi serve formarsi per tutta la vita, e serve sapere come fare. Il lavoro non è più un posto ma un percorso. Le potenzialità delle nuove logiche tecnologiche (il 5G, l’Edge Computing, le Blockchain, gli NFT) aprono alla possibilità di riorganizzare relazioni, decisioni, affidabilità come non era mai stato possibile ipotizzare, utilizzando fino in fondo il loro potenziale di funzionamento decentrato e garantito. È importante ripartire dalle comunità locali e da nuove interazioni, più partecipate, con i cittadini. Le comunità energetiche sono forme iniziali di un cambiamento che potrà ripartire da un livello comunitario più cosciente, come immaginato e realizzato da Adriano Olivetti.
Si deve smettere di cedere alle logiche finanziare e riaffermare il senso sociale del lavoro collettivo.
Viviamo in una società in cui c’è chi sta sopra e chi sta sotto. Quelli che stanno sotto oggi stavano sotto anche prima, ecco perchè non è una buona idea tornare a “come eravamo”: dalla fase attuale di transizione dobbiamo uscire con la prospettiva di un possibile rovesciamento delle posizioni.
Viviamo in una società a piramide: basata su una scala dei redditi da quelli più bassi a quelli più elevati. A ciò corrisponde una graduazione del potere fondata, pur nel rispetto dei diritti individuali, sul principio del più forte. Abbiamo sperato che le crisi che abbiamo attraversato (pandemica, energetica, climatica), e che ancora attraversiamo, ci facessero cambiare rotta, ma ormai siamo consapevoli che, al contrario, ci hanno fatto regredire.
Liquidato l’intervento diretto dello Stato nell’economia, abbandonato nei fatti il welfare-state e decretata la “morte delle ideologie” si è dissolta la sinistra, quell’area politica e culturale animata per mezzo secolo da partiti di massa, sindacati, correnti culturali e movimenti, che oggi è un deserto in cui i superstiti cercano rifugio nel miraggio di un’oasi, di un “luogo” spesso abitato da comici e politici inventati, un pericoloso palcoscenico in cui si rappresenta la crisi della democrazia che è crisi del pensiero, come ha scritto Edgar Morin.
In questo scenario la destra, come un virus, è stata capace di mutare: entrata nel corpo della società è stata postfascista e secessionista, fino alle stanze di Palazzo Ghigi dove è mutata in partito conservatore e atlantista.
Manca una visione del mondo da tradurre in paradigma.
E da articolare in politica, organizzazione, economia. La crisi del pensiero è crisi della cultura politica, crisi di classe dirigente. Se la crisi della politica è anche crisi culturale, per rinnovare la democrazia c’è bisogno di più cultura e più idee. E soprattutto della partecipazione dei cittadini, ma il 60% degli elettori si è rifiutato di recarsi alle urne. E’ evidente che ciò è la conseguenza di un elevatissimo livello di disomogeneità sociale, è l’assenza di coesione nella società che porta alla polverizzazione delle opinioni sulla gestione della cosa pubblica e al disinteresse nella convinzione della inutilità della partecipazione alla competizione elettorale. Dal 1994 in poi il fenomeno è progressivamente cresciuto ma il sistema dei partiti lo ha ignorato, inquanto l’astensione è di fatto una delegittimazione della loro funzione di proposta politica e di aggregazione su di essa.
La risposta all’astensionismo non può essere certamente la riproposizione delle ideologie che hanno animato il secolo scorso: sconfitte dalla storia, non sono utilizzabili per il presente e tanto meno per costruire il futuro. Ma la risposta non può nemmeno essere il ribellismo delle “monetine” da cui è nato quel populismo di destra e di sinistra che ha solo imbarbarito il dibattito pubblico e le relazioni sociali.
Quale strada intraprendere per ridare rappresentanza alle diverse forze sociali?
Come riattivare la partecipazione dei cittadini all’ interesse per la “cosa pubblica”? Le risposte venute dal basso sono state le liste e le associazioni civiche che, nelle competizioni elettorali amministrative, sono cresciute progressivamente nel tentativo di colmare il vuoto che si è creato tra cittadini e istituzioni. L’astensionismo si batte ampliando l’area di autogoverno dei poteri locali e da lì è necessario ripartire sviluppando la cultura politica e ampliando le occasioni di dibattito pubblico. Ma non basta. È necessario affermare una concezione moderna della Politica, frutto delle esperienze storiche più significative, a partire da quel nesso profondo che intercorre tra cultura socialista, liberal democratica e pensiero cristiano.
In definitiva ritessere la tela di una concezione delle culture politiche (che non sono ideologie) come qualcosa di non immutabile nel tempo ma di cui va favorita l’evoluzione e l’incontro. Penso al dialogo tra cattolici democratici e socialisti che nel secolo scorso, con la formula di governo del centro-sinistra, hanno assicurato al nostro Paese mezzo secolo di sviluppo. Ma oggi non è più tempo di vecchi steccati tipo Democrazia Cristiana o Partito Socialista. Sarebbe uno stupido errore riproporre sic et simpliciter lo schema del “mondo vecchio”.
“Il nostro spaesamento è figlio della perdita di radici. Ma è anche vero che ci siamo autoconvinti di poterne fare a meno, immaginando che diventare moderni implicasse la disdetta di ogni tradizione, l’avvento di un tempo del disincanto nel quale la debolezza del pensiero ci avrebbe protetto dall’eterno ritorno delle ideologie. Mentre facciamo tutti grande uso delle parole “nuovo” e “futuro”, il passato è ancora inesorabilmente l’unico termometro dei nostri pensieri. Il ritardo è la nostra attualità. Naturalmente l’inversione di questa rotta dipenderà soprattutto dalla capacità di accelerare la costruzione di nuove e convincenti identità culturali. Uscendo dalla transizione e dalla confusione.” (Ferdinando Adornato “La nuova strada”)
Nelle contraddizioni della lunga transizione che viviamo abbiamo necessità di ritrovare, con umiltà, il filo della ricerca, la forza di riaffermare i valori, la capacità di interpretare la voce di chi non ha la forza di farsi ascoltare.
E’ questo il senso dell’impegno, oggi.
Si ha il dovere di dare risposte diverse da quelle tradizionali ad una società diversa, anzi a mille società in cui si scompone quella maggiore, nel rispetto della specificità delle comunità e delle persone. Anche per questo è indispensabile un lavoro di costante rinnovamento, nei contenuti, nelle forme a cui la Federazione dei Civici Europei, un soggetto politico nuovo fondato lo scorso giugno, potrebbe dare un contributo se sarà capace di una più grande fantasia creativa.
In un paese moderno non basta governare. In un paese di democrazia matura è sempre necessario costruire il consenso dei cittadini, un giorno dopo l’altro, attraverso il confronto delle idee, di tutte le idee, e mantenerlo favorendo la partecipazione dei cittadini. Interpretando i bisogni, le necessità, le speranze, i sogni.
Se non è una buona idea tornare a “come eravamo”, non è altrettanto accettabile la condizione attuale. Dalla transizione dobbiamo uscire nella prospettiva di una diversa configurazione della società e del potere politico e istituzionale. Serve un movimento riformatore capace di dare rappresentanza alle imprese e ai lavoratori che dalle grandi città, dai mille borghi del bel Paese, dalle aree industriali e dalle università vogliono un generale rinnovamento sulla base di un assunto tanto utopistico quanto politico:
tutto, ma proprio tutto, deve cambiare.
“La nuova politica umanista di salute pubblica è il grande progetto che può risvegliare le menti prostrate o rassegnate. Non è più la speranza apocalittica della lotta finale. E la speranza coraggiosa della lotta iniziale: necessita che si restaurino una concezione, una visione del mondo, un sapere articolato, un’etica, una politica. Essa deve animare non soltanto una resistenza preliminare contro le gigantesche forze della barbarie che si scatenano ma anche un progetto di salute terrestre. Coloro che raccoglieranno, la sfida verranno da orizzonti diversi poco importa sotto quale etichetta. Saranno i restauratori della speranza.” (Edgar Morin “Svegliamoci!” 2022, edizioni Mimesis)
SEGNALIAMO
https://en.unesco.org/courier/janvier-2004/talking-edgar-morin-dialogue-assumes-equality
Commenti
3 risposte a “LA CRISI DEL PENSIERO”
da sottoscrivere dalla prima all’ultima parola.
che dire, caro direttore? hai riassunto e chiarito la mia confusione politica e ideologica. Mio nonno Umberto era segretario del PSI in un piccolo paese dell’Umbria, io sono medico grazie alle borse di studio del primo governo DC-PSI con Nenni vice-presidente. Dal liceo alla laurea ho potuto studiare grazie a quelle. La delusione della politica negli ultimi anni è stata assoluta. Sento il fascino del richiamo religioso e lotto con me stesso perchè non significhi astensione dall’impegno civile. E dunque le tue parole sono un faro di speranza.
Sono l’editor del giornale e la cosa che ho finalmente capito era una cosa che nella mia generazione, 1970, non c’era più: I PARTITI. adesso nello sprofondo dei bandi di 140 pagine scritti in inglese progettese astruso e kafkiano a cui sono oggettivamente sottoposto per vivere vi posso sottoscrivere che i PARTITI e la PARTITOCRAZIE erano sacrosante e sono state smantellate per azzerare o rendere machiavelliche le “opportunità” di crescita professionale.