di Mario Pacelli
La cucina romana, intendendo come tale l’insieme delle ricette di cucina proprie di Roma e del suo territorio, ha caratteristiche molto complesse.
E’ anzitutto da chiarire che essa non ha nulla a che vedere con quella dell’antica Roma, caratterizzata da sapori molto forti, da un grande uso della carne degli animali più diversi e di ingredienti, quali le interiora dei pesci, oggi completamente dimenticati. Alla radice di quella giunta fino a noi c’è la cucina dei tempi di Meo Patacca, personaggio derivante da una trasposizione seicentesca del Miles gloriosus (iI soldato spaccone) dello scrittore latino Plauto.
Era un mangiare povero in cui prevaleva il pane, le verdure (molto diffusi i broccoli), le uova e la carne, o meglio ciò che restava di vitelli ed agnelli dopo che la parte migliore era andata ad arricchire le mense dei nobili romani, proprietari di vastissime estensioni di terreno, ricche di armenti nelle campagne intorno a Roma. Ancora oggi si usa a Roma preparare cibi con le interiore di manzo e vitelli, come la trippa (ricavata dallo stomaco dei bovini e cucinata in modo diverso in altre zone d’Italia), la pajata (interiora dell’animale giovane che si è cibato del solo latte materno), la coratella di abbacchio (interiore dell’agnello tanto giovane da restare legato al bastone del pastore, cioè “ad baculum”, da cui abbacchio) e i fegatelli di maiale (pezzetti di fegato di maiale cotti avvolti nella rete peritoneale).
Tra le verdure usate il posto d’onore, oltre ai broccoli, spettava alla cicoria che cresceva spontanea tra le rovine dell’antica Roma, mentre tra la frutta primeggiavano i fichi, i cui alberi si sviluppavano rigogliosi nei terreni ricchi di calcio di cui la città abbonda. Tra i legumi il primato spettava ai ceci, di cui il baccalà era il cui quasi naturale compagno di piatto. La numerosa comunità ebraica che viveva in città dal II secolo a.C. aveva anch’esso una propria tradizione culinaria, rispettosa della sua fede religiosa (ad esempio niente molluschi, di cui i romani erano ghiotti).
Naturalmente con il trascorrere dei secoli le due cucine si integrarono a vicenda: i cristiani apprezzarono le alici al forno con la scarola ed i filetti di baccalà fritti della tradizione ebraica e gli ebrei presero a gustare la coda alla vaccinara, una coda di vitella cotta lungamente con pomodoro e molto sedano. Frequente era l’uso di aggiungere alla fine della cottura del cacao, nella convinzione che servisse a tenere lontano il tifo, una malattia che mieteva molte vittime causata dall’uso dall’acqua del Tevere inquinata dagli scarichi fognari.
L’uso del pomodoro, diffuso anche a Roma a partire alla fine del
XVIII sec. arricchì le antiche ricette diventando un ingrediente di molte di esse: nacque il sugo di pomodoro per condire le fettuccine fatte in casa la polenta e gli gnocchi di patate, ma non furono abbandonate
le antiche usanze, come quelle di cuocere cassettiere di carne di
bovino unite ad una fettina di prosciutto (i famosi saltimbocca), un sistema per cuocere molto carne dura, che era quella che costava di meno, utilizzando il grasso del prosciutto.
Protagonista della cucina romana furono anche i carciofi, di quella
particolare qualità che cresce nell’agro-romano, di forma rotonda e più grande di quelli provenienti da altre zone, condite con sale e mentuccia, una pianta aromatica di cui non mancava mai una pianta
nei balconi della vecchia Roma e cotti al tegame, secondo la ricetta ebraica, nell’olio scaldato a temperatura elevata, sono ancora oggi una delizia del palato dei romani.
La presenza sulle mense di oggi di cibi di antiche origini non deve tuttavia portare a conclusione che vi sia una stretta continuità tra la cucina romana di un tempo e quella attuale: la cesura tra questo e quella avvenne più o meno alla fine del XIX sec., in parallelo con quella
del dialetto, da romano che era quello usato dai sonetti da Gioacchino Belli, il grande poeta di Roma, al romanesco di Trilussa, altro grande poeta del secolo scorso.
Il linguaggio del popolo di Roma, non più “romano de Roma”, ma di
mille provenienze geografiche, così come la cucina, si arricchì di novità culinarie caratteristiche di altre zone dell’Italia attraverso i nuovi arrivati a popolare una città che era abitata nel 1871 da 100.000 abitanti per presto giungere a molte centinaia di migliaia.
Arrivò il maggior uso della polenta, del burro, (prima pressoché ignoto ai romani), del formaggio parmigiano, arrivarono gli spaghetti alla
matriciana ed i supplì di riso, arrivò la pizza napoletana che curiosamente a Roma vide l’aggiunta delle acciughe accompagnate da un minor spessore della pizza stessa.
Ultimi arrivati gli spaghetti alla carbonara.
Siamo oggi alla Roma moderna, quella dei cibi precotti, della
cucina anonima per turisti che desiderano sfamarsi con
improbabili spaghetti alla romana… Tutto cambia, anche quello che sembra non cambiare mai, una sorte che non può riguardare anche il cibo. Parafrasando l’Orson Welles di “Quarto potere”, “E’ la cucina, bellezza”.
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