di Beppe Attene
É in libreria il bel libro di Beppe Attene “Lei non sa chi ero io”
(edizioni Graphofeel pag,310, €18,00) in cui l’autore ricostruisce la storia e la situazione attuale del cinema italiano da un punto di vista inedito, quello del rapporto con lo spettatore.
Una testimonianza di vero amore per il cinema.
Diversi anni orsono un amico, figlio di un importante e nobilissimo dirigente del Partito Comunista Italiano, mi rivelò che la sigla PD era in realtà un acronimo non corrispondente alla sua apparente “natura”.
La detta sigla, preceduta dall’articolo, era in realtà l’acronimo di “il Peggio Di” e corrispondeva alla decisione politica di far confluire sotto essa il peggio della Democrazia Cristiana e del PCI per massimizzare la capacità attrattiva in caso di elezioni.
All’epoca mi limitai a sorridere per questa informazione che, del resto, corrispondeva in gran parte alle mie sensazioni.
Non colsi, però, il significato profondo di quanto iniziava ad avvenire in Italia.
Non mi resi conto che non avrebbe riguardato soltanto le due culture politiche maggioritarie e certamente non immaginai che la dissoluzione delle appartenenze culturali e politiche avrebbe ben presto caratterizzato tutta la nostra vita collettiva.
La storia italiana è caratterizzata, rispetto a quella di altre Nazioni democratiche, da una funzione affidata alle forze politiche di mediazione e riconoscimento nello Stato e nelle Istituzioni democratiche.
Il compito dei Partiti (di tutti i Partiti) è stato quello di raccogliere, far esprimere e rappresentare tutte le pulsioni presenti nella società civile garantendone poi il rapporto con le Istituzioni.
Con un percorso peculiare come quello della nostra Nazione questa funzione di appartenenza anche attraverso un diversificato sistema di Valori era assolutamente essenziale.
Molte cose assai brutte sono state evitate all’Italia grazie alla capacità della DC, del PCI e del MSI di contenere, rappresentare ed esprimere in forma democratica le aspettative e i punti di vista delle rispettive basi sociali.
Da qui la necessità e l’abitudine delle varie forze politiche di dotarsi di una organica e propria lettura del mondo che, per quanto potesse essere in apparenza conflittuale, era poi costretta dalla azione politica a confrontarsi con le altre, risultando così contenuta nell’alveo della vita democratica.
Da qui il prevalere di una forma – partito che comprendeva inevitabilmente identità, approfondimento, cultura, visione del mondo, e così via a seguire.
Di tutta evidenza stiamo ragionando di un modello culturale e politico che non soltanto non esiste più ma è anche definitivamente scomparso dall’orizzonte comune.
Il futuro ci dirà quali modalità di rapporto fra i cittadini e lo Stato si determineranno infine. Oggi, in un momento di passaggio e transizione, solo alcune cose appaiono chiare.
La prima, abbastanza negativa, è che la definizione delle forze politiche in competizione avviene e viene proposta agli elettori soltanto in chiave di contrapposizione e non di costruzione.
Private di una analisi di base e di una lettura del mondo corrispondente, le varie forze politiche (ammesso che si possa ancora fare riferimento alla polis) si auto – identificano soltanto con il “non essere” quell’altra cosa.
Invece di offrire ai cittadini una reale e sincera prospettiva di quel che si farebbe se si avesse il potere, ci si limita ad urlare che ci si comporterebbe in modo diverso.
Nella realtà delle cose del mondo ciò è palesemente falso.
Chiunque fosse stato al governo dell’Italia nelle scorse settimane avrebbe rimandato in Libia un peraltro noto torturatore. Punto e basta.
Questa deteriore pratica, condivisa da quasi tutte le forze in campo, tende a ridurre il rapporto con i cittadini considerandoli soltanto nella loro funzione di elettori che (fortunatamente) viene esplicata periodicamente e in tempi brevi.
Ciò spiega il frenetico ricorso alle finte elezioni, vale a dire i sondaggi elettorali.
Si ritiene che occorra verificare in continuazione se quell’insulto o quella feroce battuta abbiano determinato o no un immediato incremento di like.
Se sembra così si va avanti e se no si cerca qualcosa di più forte.
Un paradossale risultato della rinuncia all’identità per sostituirla con l’insulto è che spesso questa pratica finisce per regalare immeritate identità a coloro che si vuole colpire.
Sostenere, per esempio, che il tale avversario è un nemico dell’Europa, magari agli ordini del biondissimo Presidente USA, finisce per rafforzarlo su un tavolo al quale tendenzialmente non riuscirebbe mai a sedersi.
E non solo. Gli regala il consenso di quella parte di cittadini italiani che sull’Europa nutre (e non sempre con tutti i torti) una serie di profondi dubbi.
Nella stessa maniera agisce il rintracciare il complotto paleo – comunista in qualunque ostacolo si presenti alla azione del governo di centro – destra.
Ciò restituisce paradossalmente identità e coesione a forze e posizioni politiche che sarebbero da considerarsi estinte e senza rimpianto.
Ma gli italiani, in tutto questo?
Erano abituati a definirsi con orgoglio, fieri della appartenenza innalzata.
“Sono comunista!”, “sono democristiano!”, “sono missino!”, “sono liberale!” e adesso cosa sono?
Non basta essere contro qualcuno per esistere.
Quando ero bambino accompagnavo spesso mio padre a farsi radere la barba,
il suo barbiere, contrariamente a tanti altri, era rimasto fascista anche dopo la Liberazione. Attorno alla sua bottega si aggiravano distinti signori, che generalmente indossavano il doppiopetto (che mio padre detestava sostenendo che serviva ai gangster per nascondere un’arma).
Questi signori ci salutavano con aria grave, mormorando “addio, addio” invece del normale buongiorno.
Mio padre, che grazie a Dio fascista non era mai stato, si chinava verso di me e mi sussurrava “Quello è nostalgico…”
Mai avrei pensato che sarebbe stato mio destino apprestarmi a concludere l’esistenza finendo sotto quella stessa definizione.