Ci sono alcune immagini che rimangono fisse nella memoria collettiva di un paese. Una, quella di un signore di media statura, grassottello, leggermente strabico, stempiato che avanza verso la telecamera con la mano protesa come se tenesse in mano un vassoio, alla maniera dei cameriere. E canta, canta una canzone che tutti coloro che l’hanno ascoltata sono in grado di ripeterla, parola per parola, nota per nota, dopo oltre 60 anni. Una canzone che parla di campane romane che suonano per annunciare che domani sarà domenica. E che la domenica è sempre domenica. Quell’uomo si chiamava, anzi si chiama ancora, perché la morte prematura lo ha fissato nel tempo, Mario Riva. E la trasmissione che lo rese popolare era il Musichiere, uno dei programmi storici dei primi anni che fecero scoprire la televisione agli italiani.
Nella storia dei cambiamenti sociali e di costume del secolo scorso, Mario Riva conserva un posto speciale. Perché – insieme con Mike Bongiorno e il suo Lascia o raddoppia – fu tra i primi a rendere così popolare una trasmissione televisiva da indurre gli italiani, prima a riunirsi con la famiglia davanti al televisore il sabato sera, poi ad acquistare finalmente un apparecchio. La trasmissione si intitolava IL MUSICHIERE, era scritta da Garinei e Giovannini e iniziò ad andare in onda nel 1957.
Consisteva nel sottoporre una serie di personaggi presi dalla strada ad un gioco semplice ma in qualche modo crudele: si trattava cioè di far suonare all’orchestra alcune note di una canzone e di chiedere a quei personaggi – che nel linguaggio televisivo vennero battezzati “concorrenti” – qual era il titolo. Cosa che si fa ancora oggi, ma allora con una differenza. Che i partecipanti al gioco erano seduti su una scomodissima sedia a dondolo e quando credevano di aver riconosciuto la canzone dovevano alzarsi, correre verso una campana, suonarla e dire il titolo. Per far ciò venivano anche muniti di scarpe da ginnastica, in modo da non scivolare. Il più delle volte, essi non ricordavano il titolo, ma partivano come razzi e poi, dopo aver suonato la campana, restavano muti. Alcuni di questi personaggi diventarono invece dei divi, restarono in carica per settimane e settimane, indussero gli italiani a fare il tifo per loro, lasciando – alla loro caduta – rimpianti e delusioni di massa.
Ma il Musichiere non era solo questo: era soprattutto portare ai telespettatori personaggi e volti che fino a quel momento si erano visti solo al cinema, o si erano sentiti alla radio, o dei quali si era letto sui giornali. Sul piccolo schermo, accolti da Mario Riva, si videro da Gary Cooper a Bartali e Coppi, da Domenico Modugno a Louis Armstrong, Jane Mansfield, Abbe Lane, Jane Russel, Claudio Villa, Josephine Baker, Primo Carnera, Jacques Tati e molti, molti altri. E tutti accolti da una una frase che diventò proverbiale e venne ripetuta in ogni bar, in ogni casa, per strada, fino alla nausea: «Ecco a voi NIENTEPOPODIMENOCHE…», alla quale veniva aggiunto il nome dell’ospite. Un successo incredibile, una trasmissione che doveva durare 12 settimane e invece andò avanti per 93 puntate, che ebbe fino a 12 milioni di spettatori, venne affiancata da un giornale settimanale dallo stesso titolo e che veniva aperta e chiusa da una sigla che diventò un grande successo discografico, cioè dalla canzone DOMENICA E’ SEMPRE DOMENICA.
Cantata da lui, cioè da Mario Riva.
Mario Riva, insomma, diversamente da Mike Bongiorno che aveva, nonostante tutto, l’aria compassata, diventò l’amico di tutti gli italiani. Grazie anche alla canzone DOMENICA E’ SEMPRE DOMENICA, Riva stabiliva un clima familiare, richiamandosi ai simboli di un paese in cui le campane davano ancora la sveglia della domenica mattina e tutti avrebbero speso «quattro soldi di felicità». Non era ancora l’Italia del boom economico, ma sarebbe arrivato presto. E Riva, con IL MUSICHIERE, annunciava un dì di festa in cui tutti avrebbero mangiato la loro pastasciutta e magari quel pollo a testa che le statistiche cominciavano ad attribuire ad ogni italiano, anche se c’era chi ne mangiava due e chi, ancora, non ne consumava nessuno.
In una lettera-confessione, scritta per l’ultima puntata del Musichiere, Mario Riva confessava: «Sapeste quante volte, mentre sorridevo dal video, pensavo ai drammi nascosti dietro al gioco. Parecchi furono i concorrenti che avrebbero voluto dire “sono un povero diavolo, non ho lavoro, non ho soldi, ho soltanto una bambina malata che non so come curare”.
Questo avrebbero voluto gridare all’Italia quei poveracci e non cantare BESAME MUCHO o correre con le scarpette di gomma. Ma era un gioco! Era il gioco del sabato sera. Voi, amici, stanchi della settimana lavorativa, oberati da altre miserie, da altre sofferenze, da altre desolazioni, non vi sedevate davanti al televisore per ascoltare i guai altrui, ma per ridere. Ed io, e loro, i concorrenti, eravamo lì per farvi sorridere. Ed era giusto. Niente da dire. Perciò, durante le prove, mi chiudevo in camerino con molti di quei concorrenti, e spiegavo loro che era crudele, ma che non potevano dire le loro infelicità. Quindi, insieme, tiravamo fuori l’intervista divertente. Era IL MUSICHIERE.
Era la vita».
Oggi, che si punta alle sofferenze, alle lacrime in diretta, alle infelicità della vita per fare audience, queste parole possono sembrare superate. Eppure hanno una loro ragione, che è quella di non trasformarci tutti in tanti voyeur che spiano dal buco della serratura la vita degli altri e i suoi aspetti più morbosi.
In fondo, Mario Riva era e resta il simbolo di una allegria rispettosa dei segreti di ciascuno di noi, dei diritti alla privacy. Per questo entrò nel cuore di milioni di italiani. E quanto lo amavano lo dimostrarono nei giorni della disgrazia, quando Riva concluse la propria esistenza proprio nel momento del massimo trionfo, in scena, come ogni attore dice di volere che accada. Anche in questo, Mario Riva fu un formidabile uomo di spettacolo. Doveva ancora una volta far ridere gli italiani, quella sera, e invece li fece piangere. A milioni.
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