Nel 1992 Bettino Craxi tenne due discorsi alla Camera per affrontare e cercare di superare democraticamente la questione dei finanziamenti illeciti ricevuti dai diversi Partiti che avevano costruito quella che sarebbe poi stata chiamata Prima Repubblica.
Sfidò tutti a smentirlo, ma nessuno raccolse la sfida.
Quei due interventi parlamentari segnano, in un solo passaggio, il punto più alto e insieme più tragico di un percorso collettivo dopo il quale nulla più è stato come prima.
I fatti di quegli anni ci apparvero allora come una indegna e ingiusta gazzarra in cui un Uomo e la tradizione politica che rappresentava venivano giustiziati per far sopravvivere comportamenti ed etiche ben peggiori e più corrotte.
Soltanto adesso, e con grande difficoltà, si inizia a percepire che in quei processi, urlati senza possibilità di difesa iniziava il sacrificio finale dei tre concetti che avevano sino ad allora costruito la nostra Democrazia.
Iniziavamo a perdere tre aree di valori e significati: la Nazione, il Popolo e lo Stato.
L’Italia (la nostra Nazione) è entrata nella cosiddetta Seconda Repubblica con un buon carico di debiti compensati e garantiti da una assai maggiore ricchezza nazionale, depositata nei bilanci delle Aziende Pubbliche e nel valore strategico di beni di carattere pubblico disseminati su tutto il territorio.
Lo sviluppo economico, infatti, aveva permesso la creazione di un modello che integrava il sistema pubblico con quello privato procedendo verso uno sviluppo equilibrato e un rafforzamento dei servizi collettivi.
Nel giro di pochissimi anni l’Italia si è risvegliata molto più indebitata di prima ma, soprattutto, molto più povera.
La ricchezza nazionale non era stata usata per pagare i debiti.
Il patrimonio pubblico (a cominciare dal comparto della telefonia) era stato venduto o abbandonato.
Bande di “capitani coraggiosi” (come vennero spudoratamente definiti) avevano convinto il nuovo potere politico che una gestione privata funziona sempre meglio di quella pubblica.
Poi avevano venduto le cose di valore e dimenticato il resto. Come si fa, insomma, con le cose ereditate dalla nonna.
Abbiamo sperato che il governo di centro destra avrebbe tentato di invertire la rotta ma la logica nonnista non sembra superata né estinta.
Non meglio è andata al concetto di Popolo.
Esso dovrebbe contenere in un unico e potentissimo recinto l’insieme di quelle molte migliaia di valori, sentimenti ed esperienze che si fondono a creare una identità che nasce dal passato e avanza verso il futuro.
Non si tratta di “appartenenza” ma bensì di qualcosa di assai più profondo, capace di essere sempre presente ma anche di emergere con chiarezza e forza nei momenti drammatici.
Configura dunque “l’Italianità”, vale a dire quel certo modo di essere che, nel bene come nel male, riconosciamo come nostro.
Ovviamente ciò non esiste per chi quando parla dell’Italia dice “questo Paese” (nemmeno il nostro Paese). Piuttosto che dire il Popolo Italiano preferisce sempre aggiungervi almeno un aggettivo: lavoratore, dei diseredati, femminile, e così via.
La cultura post comunista ha scambiato la globalizzazione con il Sol dell’Avvenire e ha allegramente rinunciato al bisogno di sentirsi parte di qualcosa.
Per quanto riguarda la distruzione del concetto di Stato, apriti cielo e spalancati terra!
La forma statuale è la manifestazione storicamente determinata dell’unione dei due concetti di cui sopra, vale a dire Nazione e Popolo.
Noi non siamo più la Repubblica Romana e non stiamo costruendo un Impero.
Ma siamo ancora anche quel Popolo e quella Nazione che si esprimono ed organizzano oggi in uno Stato democratico.
Ma come accettare e conciliare in questa prospettiva la vergogna di una Magistratura decisamente impegnata in trame politiche e di affari?
È difficile riconoscersi in uno Stato in cui altissimi funzionari indagano illegalmente, sfruttando i mezzi messi dal ruolo a loro disposizione, per poter poi vendere le informazioni scorrettamente acquisite.
Ma è difficile persino capire perché la Camera dei Deputati libera tutti dall’obbligo della cravatta trasformando il luogo che dovrebbe tutti rappresentarci in un simpatico (diciamo così) incontro di proprietari di cani.
Cosa dire, cosa fare, per cosa continuare a lottare e sperare?
In un film del 1996 intitolato “Dragonheart” si immagina una società fantastica, corrotta anche in seguito alla scomparsa dei Draghi e alla perdita dei valori dell’Antico Codice cavalleresco.
Sono sopravvissuti soltanto un dragone e un cavaliere che, per campare, si dedicano a una piccola truffa.
Il drago finge di attaccare un villaggio e il cavaliere finge di ucciderlo. Poi si spartiscono il bottino.
Una sera, davanti al fuoco, il cavaliere chiede a sé stesso e al drago per cosa valga ancora la pena di lottare di fronte a un mondo così lontano da quello in cui hanno creduto.
“Insomma, caro drago, cosa ci è rimasto da salvare?”
Il drago apre gli occhi in cui si riverberano le fiamme e, riflettendo su cosa rimanga ancora da salvare, risponde infine con chiarezza:
“La mia anima, cavaliere!”
NDT.: L’immagine di copertina è la Lancia Flaminia uno dei simboli di una Italia che con la morte della Prima Repubblica è svanita.
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Commenti
Una risposta a “LA MIA ANIMA, CAVALIERE!”
Ottimo pezzo!!!