“LA PAURA NON PUÒ ESSERE SENZA SPERANZA NÉ LA SPERANZA SENZA PAURA”

ONU, Russia, Ucraina, USA, Armenia, Sahel, Cina

Durante il dibattito, nella prima settimana, dell’Assemblea Generale dell’ONU – e dopo l’appello del Segretario Generale per un rapido compromesso globale allo scopo di salvare l’unica istituzione multilaterale che, riformata, può assicurare un compromesso globale tra le varie minacce, non ultime quelle climatiche e nucleari, che spaventano il pianeta – ho ricordato l’opera principale di Baruch Spinoza, Etica.

Nel suo saggio il filosofo olandese studiò il rapporto tra conoscenza del bene, la gioia, e questa con l’utilità che è conseguenza necessaria della mente che gode di idee adeguate. Più il Segretario sottolineava le urgenze e le necessità riformatrici delle Nazioni Unite, particolarmente del Consiglio di Sicurezza – incagliato ad oggi dal veto della Russia, riforme bloccate per tanti anni da esercitazioni di potere di alcuni Stati – più ricordavo a me stesso con Spinoza che: “La paura non può essere senza speranza né la speranza senza paura”.

Il pensiero mi ha facilmente trasportato su come agisca la paura nelle crisi e specialmente nelle guerre e m’è tornata alla mente un’altra frase pronunciata il 21 ottobre del 1940, in una trasmissione radio destinata al popolo francese, da Winston Churchill. Il premier britannico, con amara ironia, descrisse la consapevole preoccupazione della Gran Bretagna, ma anche la indomita volontà inglese a resistere alle forze armate tedesche. Pronunciò una semplice frase: ”Stiamo aspettando l’invasione da tanto tempo promessa. Aspettano anche i pesci.” Cioè cercheranno di invaderci, lo sappiamo, soffriremo, ma i nemici affogheranno nel mare.

La chiave di lettura di questa citazione, che prelude ad alcune osservazioni sulla grande guerra tra democrazia e autocrazia/autoritarismo, è il verbo “aspettare”, cioè la consapevolezza che, in un tempo non conosciuto esattamente ma certo, si realizzerà un avvenimento la cui portata storica coinvolgerà chi sa cosa attendere e chi non né è cosciente o completamente consapevole.

Il discorso di Churchill ha ancora una forte valore, con buona pace di chi pensa che nella Storia otto decadi siano un tempo così lungo da trasformare i fatti in mito (apro parentesi: quanti sottacciano le perversioni del fascismo, del nazismo, del comunismo giocando retoricamente con la barretta del tempo, “ma di che parlate, ma che mi chiedete, sono passati tanti anni, io non ero neanche nato e forse neppure i miei genitori”) cioè disconoscono i valori e misconoscono che certi avvenimenti segnano intere epoche, secoli addirittura. Ed il Novecento non si è per nulla concluso con l’implosione sovietica, il processo di Norimberga, la sconfitta della Repubblica Sociale di Salò e la barbara esecuzione di Benito Mussolini, Yalta e la Carta dei Diritti dell’Uomo e la fondazione delle Nazioni Unite, il – tutto compreso veloce – processo intergovernativo di allargamento degli spazi unitari degli Stati europei che oggi vantano, assieme alla tangibile moneta unica, l’euro, il nome, con qualche sostanza, di Unione. La fine del comunismo, oramai lo sanno anche i meno dotati, non è stata la fine della storia.

Oggi il mondo, ed è ben visibile nel corso dei lavori dell’attuale 78ª Assemblea Generale delle Nazioni Unite, aspetta ad assumere decisioni “forti”, non perché è in apnea, ma ha il respiro corto, affannato, subisce una inibente accelerazione dei battiti cardiaci suscitati dallo stress, dall’inquietudine generata dall’incertezza di un eventuale conflitto mondiale. Perché il mondo non sa se i pesci mangeranno il nemico, rappresentato dai sostenitori della guerra alla democrazia, anche soltanto nell’accezione intuitivamente più semplice rappresentata dal rispetto dei diritti, dei doveri, delle leggi attraverso l’equilibrato esercizio dei poteri esecutivi, legislativi e giudiziari. Perché il mondo sa che quando tutto va per lo meno benino può anche portare un consenso populista criticare in questa o quella parte la democrazia, ma sa anche che se questa è debole le vene ai polsi tremano.

Ora, il fiato sospeso, la paura del conosciuto, si appaia a quel che si sa. Gli autoritarismi appoggiano l’invasione russa dell’Ucraina ed i russi attendono l’esito delle elezioni statunitensi per partecipare attivamente ad un trattato di pace, occupando il tempo a spaventare, minacciare, gli stati che nel 1991, con lo scioglimento dell’URSS, trovarono indipendenza e riconoscimento internazionale. Dopo la Georgia, l’occupazione della Crimea ed i falsi referendum nei distretti orientali dell’Ucraina, è toccato all’Armenia subire l’aggressività di quel nano economico che è la Russia.

Questa volta senza l’uso del debole esercito tenuto in scacco dall’Ucraina, ma non esercitando i poteri di mediazione ed arbitraggio che nel 2020 permise alla Russia di insediarsi nella regione del Nagorno-Karabakh con almeno duemila peacekeepers. Questa volta Mosca ha permesso che l’Azerbaigian riprendesse il controllo dell’Artsakh, come gli armeni chiamano questa enclave la cui popolazione è- meglio dire era- all’80% armena. L’Artsakh non esiste più perché Mosca, dopo aver permesso il blocco, per dieci mesi, del corridoio di Lachin attraverso il quale passavano medicinali, cibo, il minimo necessario alla sopravvivenza degli abitanti armeni, lasciati stremati e senza difese dall’artiglieria azera, Mosca, dicevamo, ha voluto mandare un messaggio forte e chiaro a tutte le ex repubbliche sovietiche.

È finita l’epoca nella quale le ricche nazioni caucasiche “dovevano” considerarsi il giardino di casa del Cremlino. Quante volte abbiamo letto le ipocrite dichiarazioni moscovite sui rapporti fraterni che erano proclamati verso quei paesi che negli ultimi trent’anni, si sono enormemente arricchiti, ricostruiti, modernizzati, pur pagando un consistente “pizzo “al fraterno Caino dal viso benevolente. Hanno capito con l’aggressione all’Ucraina, questi stati molto più ricchi del popolo straccione che non vive a Mosca o a Pietroburgo, ed i cui figli muoiono a decine di migliaia in Ucraina perché, essendo anime morte, non fanno opinione, che era conclusa l’epoca post imperiale e hanno cercato, in maniera spesso non facilmente decifrabile, di cercare, se non alleanze, almeno rapporti economici più stabili (e quindi difensivi) con paesi euro occidentali e con la Cina.

Anche la Cina “fraternamente amica” è avvisata: il neoimperialismo russo è essenziale alla sopravvivenza, anche a costo di superare l’”orlo del baratro”, come ho titolato un mio libro recentemente pubblicato dalla casa editrice Heraion.

Il popolo russo non dà cenno di dissenso al sistema criminogeno, alla alterazione fattuale della democrazia, alle atrocità belliche, alle deportazioni di massa, ai rapimenti di un numero enorme di bambini, ad una ferocia che ha avuto rari esempi nella Seconda guerra mondiale e che fa apparire le guerre di trincea della Prima guerra mondiale un duello fra gentleman. D’altronde cosa aspettarsi da chi ha taciuto dinnanzi a tutti gli orrori commessi, parliamo soltanto dello scorso secolo, dal comunismo sovietico in genere e da quello staliniano in particolare? Pochi eroi finiti in terribili gulag, in oscene prigioni, assassinati in spettacolari operazioni a mo’di pubblico ammonimento, nella distrazione totale di chi già comincia a dimenticare, così per dire, il premio Nobel per la Pace Andrej Sacarov.

Siccome la pace, qualsiasi cosa si pensi delle qualità etiche o delle ineducazioni storiche del popolo russo, si deve trovare occorrerà non pensare ad improbabili sollevamenti popolari, ma a tavoli di trattativa su temi oltremodo concreti che non sacrifichino la già martoriata Ucraina e non rappresentino la vittoria guadagnata con la minaccia, la menzogna, e magari qualche, già sospettato, aiutino a forze politiche, influencer o altra mala genìa.

La questione dei tempi mette paura perché l’indifferenza per la vita umana di Putin tende a procrastinarli nella composizione dei diversi tavoli di pace che si riuniscono in diverse parti del mondo. Putin si allarga nel Caucaso ma aspetta l’elezione di un repubblicano, specialmente Trump per due motivi. Il primo è legato alla convinzione che il recupero di un ruolo mondiale protagonista che non ha saputo conquistare nel sistema economico industriale e finanziario possa passare dalla sconfitta degli USA come simbolo percepito della democrazia e la conseguente emersione delle autocrazie, facilmente corrompibili, dei gran parte del mondo.

Il secondo motivo che se non si realizza in questo drammatico gioco alla roulette l’en plein , almeno i repubblicani abbasseranno l’interesse statunitense al mantenimento operativo dell’Alleanza atlantica, costringendo l’Europa, priva di un esercito unico e sostanzialmente dipendente dalla difesa nucleare statunitense a ritirare l’appoggio all’Ucraina ed a lasciare più libertà di movimento al triplogiochista Erdogan nel Mediterraneo, il che offrirebbe un ulteriore allargamento della Russia nel Mare Bianco, il Mediterraneo.

Gli USA, e per questo serpeggiano preoccupazioni nelle cancellerie, attraversano una crisi inedita.

Più Trump si dimostra essere stato sobillatore di gravi attacchi alle istituzioni, alla costituzione, alle leggi fiscali oltre ad altre accuse delle quali è troppo lungo parlare, più (sembra) salga un consenso personale che annulla il patto federativo che sostiene la democrazia a sistema bipolare e maggioritario.

La non partecipazione al dibattito congressuale dimostra che oggi soltanto il partito personale di Trump si impone al di fuori dello spirito del sistema maggioritario. Se l’autoritarismo turco è scandaloso, quello statunitense è esiziale per le democrazie mondiali.

Un solo esempio per oggi in attesa di continuare a discutere sull’argomento. Un deputato della Florida, Matt Gaetz, legato a Donald Trump, ha presentato nella notte tra il 2 ed il 3 ottobre una mozione per destituire lo speaker (in Italia diremmo il Presidente) della Camera dei rappresentanti, il repubblicano Kevin McCarthy. Il motivo è che il parlamentare repubblicano della California e speaker della Camera ha evitato il blocco dei finanziamenti federali, quello che è definito «shutdown», fino al 17 novembre, permettendo temporaneamente il pagamento di stipendi etc. etc., pur evitando di includere i nuovi promessi aiuti all’Ucraina. Procrastinare alcune date di approvazione del bilancio federale è una pratica non sconosciuta nel sistema americano per un bipartisan interesse “nazionale”, che costringe entrambe le parti a contrattare il testo finale con reciproche concessioni.

Soltanto due speaker nella storia americana hanno affrontato una mozione di sfiducia, a partire dal 1910, e nessuno è mai stato destituito, anche se nel 2010 lo speaker, anch’esso repubblicano, John Boehner preferì dimettersi per evitare una spaccatura nel partito.

Trump non voleva McCarthy speaker della Camera e furono necessarie 15 votazioni per eleggerlo, perché 20 trumpiani lo osteggiavano pubblicamente.

Il regolamento impone che entro domani la Camera voti sulla destituzione ed a McCarthy è necessaria la maggioranza dei 435 parlamentari per restare in carica. Il destino del deputato californiano, ma in realtà della democrazia maggioritaria, dipende in realtà dai democratici che controllano 212 seggi contro i 221 dei repubblicani.

Se McCarthy convincerà un numero sufficiente di democratici a votare per lui, assentarsi o dichiararsi «presenti» vincerà e Trump perderà sul momento, perché da dopodomani sosterrà nelle televisioni amiche e sui social controllati da Musk che lo speaker lavora per i democratici ed occorre diffidare dagli eletti del partito che – a suo parere – deve comunque candidarlo al di fuori dei regolamenti, perché, novello (ed in versione antipatica) Marchese del Grillo :” Io so’ io e tu ‘nsei un…”con quel che segue.

Un’altra vittoria senza combattere dei russi, degli autocrati, sulla democrazia.

Ecco perché ha ragione il Segretario Generale dell’ONU a sollecitare riforme in tempi brevi basate su compromessi globali.


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