SCIENZE SOCIALI, SCIENZA POLITICA, FILOSOFIA POLITICA

La politica come scienza filosofico-sociologica, parte terza

Di seguito, alcune riflessioni sui rapporti tra scienza politica e filosofia politica, da una parte, e tra scienza politica e prassi politica, dall’altra.

Cominciamo con il secondo ordine di rapporti. Da Machiavelli in poi, la scienza politica ha inteso la sua funzione non solo come disinteressata, avalutativa (dal punto di vista etico-morale) dei comportamenti politici, ma, contestualmente e di fatto, come un magistero per l’azione politica. Da Machiavelli, appunto, fino a Max Weber e a oggi (si pensi all’odierna ingegneria politica – il sostantivo non è innocuo ma rivelatore, a sua volta, della sottesa antropologia politica corrente e diffusa nella nostra età, a opera dell’egemonia tecnico-scientifica o tecnologica ai vari livelli, da quello intellettuale a quello mass-mediale, egemonia che rimane figlia di una concezione neo-naturalistica come opposta a quella neo-umanistica della scienza) questo rappresenta il vero, persistente problema filosofico dell’età contemporanea.

Ciò non meraviglia per due motivi. Intanto, perché è intrinseco alla natura e alla funzione della scienza (pur nei suoi molteplici significati, dall’età moderna a oggi) l’aspetto previsionale che, comprensibilmente, trattandosi di comportamenti umani, si presta eo ipso a una utilizzazione non solo metodologica ma diretta nella pratica politica. Pur senza insistere sull’analogia tra scienza medica e arte medica (a proposito di queste: è nata prima l’arte o la scienza?…), è ben difficile che la conoscenza delle leggi e l’uniformità che caratterizzano l’azione politica non vengano poi utilizzate da chi mette in atto, indirizzandoli, o comunque influenzandoli, questi comportamenti e, soprattutto, dai soggetti che gestiscono attivamente il potere politico stesso (si consideri, per esempio, l’uso non solo elettorale del sondaggismo politico): ciò può verificarsi anche a livelli non consapevoli, se si pensa all’istinto del vero uomo politico (che, perciò, sa valutare le conseguenze delle sue scelte e in vista di queste mette in atto tali scelte e decisioni).

Ma c’è un secondo motivo interessante riguardo quel rapporto: nella misura in cui lo “scienziato” della politica è anche il soggetto che vive (partecipandovi a suo modo attivamente o passivamente) la prassi della politica, si può ben comprendere come la sua non sia una riflessione puramente, assolutamente, astrattamente neutrale, disinteressata e asettica; è lo stesso ragionamento che si può estendere agli studiosi delle altre scienze sociali, sociologia, psicologia, antropologia culturale, ecc.

Questo ci porta ad affrontare meglio il primo ordine di rapporti, quello tra scienza e filosofia politica.

Anche qui possiamo distinguere due motivi: non solo l’oggetto della scienza politica è l’esperienza politica e dal vivo di questa trae il suo impulso iniziale, ma progressivamente; dall’età moderna a quella contemporanea essa si è via via sentita investita della missione e del ruolo, se non proprio esclusivi, egemoni di riflessione sulla politica stessa: e questa esclusività/ egemonia è conseguenza intrinseca di quella che si può definire, più in generale, la filosofia appropriata della e nella contemporaneità, cioè la filosofia come epistemologia in senso stretto (nel nostro caso, dell’azione politica).

Per dirla in modo sbrigativo: l’uomo contemporaneo è lo scienziato nella misura in cui il suo modo di riconoscersi – e di conoscere – è (quanto meno di fatto, se non di principio) quello della scienza: della mentalità scientifica.

Significa, ciò, che la filosofia politica contemporanea si chiama (cioè si riduce a) scienza politica tout court o, in ogni caso, che questa, oggi, ha usurpato il posto di quella? Interrogativo non del tutto illegittimo, perché non si deve, comunque, dimenticare mai quel limite e quel rischio “naturalistico” della scienza contemporanea che viene a emergere in modo ineludibile quando si tenga presente che i comportamenti presi in esame sono quelli “umani” e cioè dell’“animale” uomo, dotato di razionalità e di libero arbitrio.

Ma, in ogni caso, va preso atto che la “scienza politica” presuppone e implica una filosofia politica, una concezione generale dell’uomo, anche senza ribadire che lo scienziato, per quanto si sforzi di rispettare l’“oggettività” scientifica – a sua volta vero e proprio ideale culturale, ma anche “ideologico” in senso non deteriore, pur col rischio di diventare “idolo”! – porta con sé e in sé una concezione antropologica – in questo senso filosofica e ideologica – da cui non riesce mai, si ribadisce, in modo assoluto a prescindere e a liberarsi.

Ma la stessa antropologia scientifico-epistemologica dell’uomo contemporaneo, come già quelle “metafisiche” delle precedenti tradizioni culturali accennate, non esonera dalla – anzi, esige la – delineazione delle specifiche caratteristiche dell’uomo politico e dunque della politica, pur essendo queste inevitabilmente in rapporto con le premesse antropologiche: della politica, si intende, e della società politica come distinta dalla società in genere (o società civile) e dalle rispettive scienze specifiche (sociologia, antropologia culturale, ecc.), che, quindi, viene a connotare i comportamenti politici e/o l’azione politica in senso ampio.


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