La natura asimmetrica della politica: il potere (politico)
L’esperienza politica, in quanto esperienza “sociale”, è un’esperienza relazionale ma si distingue e si caratterizza, rispetto alle altre forme ed esperienze relazionali, anzitutto per essere – come detto – una relazione asimmetrica, non egualitaria. Da una parte sta chi comanda, dall’altra chi obbedisce.
Da una parte chi esercita il potere, dall’altra chi vi è soggetto. Il “potere”, cioè, è il primo vistoso carattere della politica e lo è proprio in quanto tale, come invece non lo è il potere economico o, più in generale, quello culturale, quello religioso o quello militare (in quanto qui è l’aggettivo che li qualifica e li definisce, mentre quello politico non ha bisogno di aggettivi, si qualifica da sé come sostantivo, insomma è il potere e basta, è il potere per antonomasia): questi, a loro volta, si qualificano perché nelle relative sfere (economica, culturale, religiosa, ecc.) il potere è una conseguenza, rispettivamente, della proprietà (per esempio, fondiaria o aziendale e/o azionista) o invece del possesso del sapere (filosofico, scientifico, ecc.) o ancora del “sacro”, del “mistero” – cui è professionalmente addetto il sacerdozio – e così via.
In tutte queste situazioni, al possesso della proprietà economica, della conoscenza culturale, della fede religiosa e così via, corrisponde, come conseguenza, il potere; non a caso, il capitalista, l’intellettuale, il sacerdote, il capo dell’esercito, custodiscono gelosamente – e perciò tendono a non fare rispettivamente condividere – il capitale, la cultura, i misteri, il piano strategico, nei confronti del dipendente-lavoratore, dell’ignorante, del profano, del fedele o credente, del soldato.
La custodia del segreto economico, culturale, religioso, militare, costituisce una garanzia per il mantenimento e per l’esercizio del potere corrispondente. Nella sfera politica, invece, la risorsa è il puro potere in quanto tale e in questo senso il segreto fa tutt’uno col potere (politico): gli arcana imperii sono, cioè, parte integrante del potere politico: tale segretezza del potere non è contraddetta dalla “pubblicità” connessa con la democrazia, perché questa è, come si vedrà, una forma di governo, mentre la segretezza è intrinseca al potere in quanto tale e fa tutt’uno con la sua originaria assolutezza (il fatto che storicamente si sia verificato un transfert dall’assolutezza del potere all’assolutezza dello Stato può spiegare lo slittamento al “segreto di Stato”, ma si tratta di concetti teorici ben distinti). Che, poi, a esso si congiunga – e/o da esso consegua – il potere economico, culturale, religioso, militare (che più spesso lo precede), si tratta comunque di “accidenti” (anche se non… “purissimi accidenti”), nel senso, insomma, che, per un verso, non ne definiscono essenzialmente la natura, ma ne rappresentano un valore aggiunto e, per l’altro verso, ne accompagnano lo sviluppo, anzi, ancor prima stanno alle sue origini storiche (che sono origini sociali, sapienziali, economiche e militari).
Ora, il segreto – gli arcana imperii – del potere, conferma, anzi rafforza, la natura potestativa o essenza del potere politico stesso, cioè quale comando che richiede (e ottiene) obbedienza, perché esprime l’originaria irresponsabilità del potere stesso.
Nel senso che esso (stiamo parlando di titolarità del potere, non del suo esercizio) non è propriamente tenuto a rispondere dei propri comandi a chi obbedisce, il quale, altrimenti, rovesciando il rapporto, potrebbe rivendicare il contro-potere, cioè la capacità, anzi il titolo, di essere, a sua volta, obbedito da chi comanda. In altri termini, il potere politico, per sua natura o essenza, non ammette la condivisione con un altro potere: è tendenzialmente unico, esclusivo e assoluto.
Ciò non significa che chi comanda e chi obbedisce non lo faccia in base a una giustificazione comune a entrambi, rispetto alla quale si può certamente parlare di “responsabilità”, ma di tipo etico-morale (non di responsabilità politico-potestativa in senso stretto) – da cui poi deriva quella istituzionale – del soggetto potestativo, più in astratto del potere e, nel caso storico dello Stato di diritto, di tipo etico-giuridico e istituzionale, appunto.
Un approfondimento su questo tema: il segreto – che rivela strutturalmente una condivisione gelosamente ristretta e custodita – si esprime in forme più o meno chiuse anche quando, addirittura, come per analogia si verifica nella scienza moderna e contemporanea, viene a coincidere con il dibattito fra il “pubblico degli studiosi”, cioè degli specialisti e competenti che condividono un linguaggio preciso e, dunque, specialistico.
Pur tenuto distinto dalla competenza, si può dire, ancora per analogia, che il “segreto” rappresenta per costoro una specie di competenza intorno a ciò che ne è oggetto: si tratti dei misteri religiosi, delle tecniche magiche del medico-stregone e così via. Ma ciò che contraddistingue il segreto politico, anche in quelle forme di governo allargato (aristocratico-democratico) dove pare dissolversi, è la sua “intenzionalità” o “riservatezza” volontaria e voluta da parte della classe o élite politica, intenzionalità che lo sottrae sostanzialmente a qualunque controllo sia istituzionale che effettivo, finché esso rimane tale, cioè potere politico tout court (siamo sempre nella prospettiva della legittimazione e, quindi, della titolarità, non dell’esercizio).
Una osservazione prima di proseguire. Dai pochi e sommari cenni fin qui delineati si intravedono diverse concezioni del potere che ne confermano, peraltro, la centralità. Infatti, la presenza storica permanente del potere come fenomeno tipico della politica non significa permanenza della/e concezione/i rispettiva/e del potere. Questo può essere visto – e nei vari contesti storici è stato visto – dalla prospettiva della sua funzione razionale e/o unificatrice e/o mediatrice delle altre forme di potere (economico, militare, civile, morale e spirituale, culturale), ma anche – all’opposto – nella sua funzione “decisiva” (nel senso etimologico del decidere) o decisionale-decisoria in senso immediatistico-volontaristico: più precisamente, si tratta di accentuazioni della stessa prospettiva.
Insomma, ferma la centralità (concettuale e reale) del potere per la politica e nella politica, non è però la stessa cosa se l’accento della concezione potestativa cade sulla sua razionalità (anche e specialmente come recta ratio) o invece sulla sua volontarietà in senso volontaristico.
Proseguiamo sul carattere dell’asimmetria politica.
Dove è assente questo meccanismo del comando/obbedienza non si può parlare propriamente di relazione politica. Classico l’esempio, forse il più antico documentato storiograficamente, riportato da Erodoto (Storie, III, 80) dove Otane – propugnatore della specifica forma di governo democratica, poi scartata nella votazione da parte dei sette rappresentanti del popolo persiano che a maggioranza hanno deciso per quella monarchica – annunziando che “Per quanto mi riguarda, io non entrerò in competizione con voi” (cioè in competizione o lotta per il potere), così giustifica la sua scelta: “Non intendo né comandare né essere comandato”. Altrettanto interessante è la conclusione di Erodoto: da allora, “È questa la sola casa che in Persia continua a essere libera, non soggetta che fin dove essa consente, pur osservando le leggi persiane”. In breve, Otane si chiama fuori dalla politica (noi diremmo) attiva e/o professionale, ma possiamo assumere qui, simbolicamente, questo atteggiamento come l’opzione a favore dell’alternativa della vita privata – che non si fonda sul rapporto di dominio – rispetto a quella pubblico-politica, anche se, per la precisione, Erodoto in Otane intendeva simboleggiare la libertà democratica, come appare dalla conclusione: libertà democratica, infatti, che consiste nell’essere soggetti alle leggi comuni; soggezione alla legge con cui, perciò, Erodoto configura il regime democratico consistente nell’obbedire a sé stessi, concetto che noi moderni rendiamo con quello di “autodeterminazione” (di cui, però, chiariremo più avanti il diverso significato e che non va confuso di per sé con quello erodoteo di “isonomia”).
Quest’ultima, se assunta nella sua purezza ideale e alla lettera, starebbe a significare una vera e propria “relazione con se stessi” e, cioè, una pseudo-relazione perché pseudo-sociale (ossia, un atteggiamento di riserva che si potrebbe capire, se non giustificare, semmai nella concezione antica in cui politica in senso stretto e l’etica coincidono, si identificano, e che nell’età moderno-contemporanea trova una sua riedizione nella concezione rousseauiana della democrazia, la quale, per un verso, presuppone – erroneamente – l’identità di etica e politica, per l’altro verso, una configurazione della democrazia “diretta”, cioè non “rappresentativa” come la intendiamo oggi secondo la tradizione liberal-democratica).
E ciò, allora, viene a confermare il meccanismo della relazione politica (quale relazione sociale) nei termini, appunto, del comando/ obbedienza (e, quindi, nei termini di quel rapporto governanti/governati che l’utopia marxista-leninista, portatrice di una visione radicalmente economicista della politica, ha ritenuto di poter cancellare; concetto bene espresso dal nostro Antonio Gramsci: “Si vuole che ci siano sempre governati e governanti oppure si vogliono creare le condizioni in cui la necessità dell’esistenza di questa divisione sparisca?”, secondo e in rigorosa coerenza con l’insegnamento di Karl Marx che, combattendo l’organizzazione inegualitaria fra governanti e governati, aveva teorizzato la fine non del governo autoritario ma del governo politico, della politica tout court (dalla Miseria della filosofia alla Critica del programma di Gotha).
Al fondo di questa radicale polemica sta l’opposizione della libertà all’autorità e della libertà all’uguaglianza, termini non antitetici ma complementari: si ricordi Aristotele, a proposito della definizione di cittadino, che “deve sapere e poter obbedire e comandare ed è proprio questa la virtù del cittadino, conoscere il comando che conviene a uomini liberi sotto entrambi gli aspetti” (Politica, 1277b ss.). Rapporto di comando-obbedienza che contraddistingue sempre la politica, dall’antichità (si ricordi il Platone delle Leggi, 689: “Necessariamente negli Stati vi sono governanti e governati”, v. anche Repubblica, 436a ss.) alla modernità (“Et sempre fu chi serve et chi comanda” – così Machiavelli).
Colgo qui l’occasione per un breve approfondimento sulla democrazia, portando l’attenzione su quell’obiezione che sembra contraddire in pieno la tipica asimmetria del potere politico, offerta dalla legittimazione democratica, cioè dalla titolarità originaria (la “sovranità”) del potere stesso. Se per questa il governato e il governante si identificano, come sostenerne la genetica e fondamentale disuguaglianza potestativa?
Va subito precisato che l’obiezione semmai la conferma, nella misura in cui la legge che il cittadino si dà costituisce il comando a cui, in quanto a esso sottoposto, egli obbedisce. Lo sdoppiamento ribadisce, dunque, l’asimmetria tra il soggetto del comando e il soggetto dell’obbedienza (senza aggiungere che noi – eredi della tradizione costituzional-liberale – potremmo, attualizzando Erodoto, adombrare in questo testo l’ossequio alle “leggi generali di un paese”, ossequio che riguarda, per il vero, tutte le forme di governo, non solo quella democratica).
In analogia con la kantiana “legge morale dentro di me”, di fronte alla legge politica, in quanto “fuori di me”, il cittadino, sottoponendosi a questa e perciò riconoscendola, convalida, insomma, quella disuguaglianza e quella asimmetria, che non va confusa con l’uguaglianza di tutti gli uomini (principio/valore di remota origine cristiana), posta alla base “legittimatrice” della democrazia, concetto ben chiarito da Montesquieu: il “vero spirito di uguaglianza non consiste affatto nel fare in modo che tutti comandino e che nessuno venga comandato, ma nell’obbedire e comandare ai propri uguali” (Lo spirito delle leggi,I, l. VIII, c. III); concetto, per il vero, che è tributario della definizione aristotelica del “cittadino” richiamata poco fa (e opposto a quello gramsciano-marxiano) come di colui che “deve sapere e potere obbedire e comandare ed è proprio questa la virtù del cittadino, conoscere il comando che conviene a uomini liberi sotto entrambi gli aspetti” (Politica, 1277b ss.).In quanto specifica “forma di governo” e, dunque, di esercizio del potere, la democrazia non può non alludere e non rimandare alla titolarità e alla superiorità o sovranità del potere stesso. Insomma, la democrazia sta (o cade) se sta (o cade) il fondamento della sua legittimazione e questa, in quanto fondamento originario del potere politico, si qualifica e si istituisce in nome e alla luce dell’asimmetria potestativa.
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