La politica come scienza filosofico-sociologica, parte quinta
Il potere politico si caratterizza in ragione della sua “natura” asimmetrica o inegualitaria: la relazione politica è, per definizione, una relazione tra disuguali (per la posizione posta dal potere stesso) tra chi ha ed esercita il potere e chi lo subisce (sia pure volontariamente).
Di qui, il congenito carattere della politica come rapporto di comando/obbedienza. In questa prospettiva, il più prossimo al potere politico appare quello militare: non si dimentichi che, come dice Eraclito: “Polemos è padre di tutte le cose, di tutti i re”, e non a caso, dal punto di vista storico-genetico, spesso se non quasi sempre, all’origine storica del potere politico troviamo quello militare.
Qui va ricordata la nota tesi di Carl von Clausewitz, secondo cui “la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi”, a significare, insieme, il carattere intrinsecamente conflittuale della politica e non solo il carattere intrinsecamente politico della guerra (osservazione che, pur poggiante, come tutte le presenti riflessioni, sulla letteratura familiare a noi occidentali, riveste una portata universale: si pensi, per esempio, a uno dei testi più famosi della letteratura cinese, risalente a venticinque secoli fa, come quello di strategia militare scritto da Sun Tzu, L’arte della guerra).
Ma mentre quest’ultimo – il potere militare – si risolve nella pura forza di assoggettamento, per cui chi obbedisce è fisicamente costretto a obbedire, invece, nella relazione politica la forza si risolve nel potere: la forza del potere e la forza come potere non è fisicamente coercitiva, lo è piuttosto, e soprattutto spiritualmente, eticamente o “culturalmente”, e lo è per la sua stretta connessione con la legge.
In altre parole, la coercizione propria del potere politico viene accettata anche quando non c’è immediatamente la spada a costringere all’accettazione. Che poi la spada stia sempre a fianco del potere è innegabile; ma, ancora non a caso, questa spada, come appena detto, assume la veste specifica della legge con la sua intrinseca coercibilità (in concreto, nella veste del potere giudiziario che la applica e del potere della “polizia” che garantisce questo e quella).
La forza del potere politico, piuttosto che con la forza nuda, “cruda e verde” (tale quella militare), si identifica, infatti, tecnicamente con la “coercibilità” connaturata alla legge (munita di sanzione): e questa viene in quanto tale riconosciuta e accettata (e in tal senso va ribadita l’essenza anti-politica del totalitarismo, nella misura in cui questo tende alla pura costrizione-obbedienza, azzerando di fatto l’accettazione-adesione del governato; ciò vale ancor più se si condivide l’interpretazione di Hannah Arendt del totalitarismo come regime proteso all’annientamento dell’uomo).
In conclusione, viene riconosciuta e accettata la funzione “ordinatrice” della politica, cioè la sua finalità vòlta a regolare la relazione sociale. Il fine della politica è di portare l’ordine nella società, di garantire la relazione sociale.
Ma, allora, ecco il paradosso o l’altra faccia della medaglia: l’ineguaglianza tipica dell’asimmetria fra chi comanda e chi obbedisce presuppone l’uguaglianza e intende garantire (e promuovere) l’uguaglianza fra i due, nel senso non solo che il soggetto del comando e il soggetto al comando obbediscano entrambi alla legge, ma anche che il potere-legge (il potere-diritto) si pone a garanzia di tale uguaglianza.
Veniamo a qualche ulteriore approfondimento sull’asimmetria del potere politico, sfruttando questo confronto tra forza della legge e forza delle armi, cioè tra le due forme o, meglio, i due tipi di potere, politico e militare, il primo che agisce con la forza della legge, il secondo con quella delle armi (che, naturalmente, possono essere e, come accennato, sono per lo più, prima o poi, poste al servizio della politica, ma che di per sé si impongono con la paura).
Questo sentimento esclude la fiducia nel potere politico (che è la base e la condizione di qualunque relazione sociale), quando addirittura non esprima il sospetto e, dunque, la diffidenza verso di esso, comportando la perdita di legittimazione da parte di chi vi è soggetto e vi si assoggetta.
La paura, nelle sue varie modalità, è essenzialmente anti-politica (non solo in e per sé stessa, perché è anti-sociale, tipica dello “stato di natura” come stato di guerra di tutti contro tutti): l’ordine da essa garantito è artificiale e tale rimane anche quando assuma in concreto la forma puramente estrinseca della legge, cioè si risolva in puro formalismo giuridico-legale a copertura dell’arbitrio (l’arbitrio che si pone come legge è la configurazione, secondo Montesquieu, del dispotismo, fondato sul principio della paura: governo violento sotto la maschera della legge – tipico è il caso delle dittature militari al governo).
Infatti, queste e le altre specie pur variamente denominate (la più tristemente nota delle quali è il totalitarismo), proprio perché si reggono sulla pura forza (fisica) e, quindi, sulla paura (in senso stretto) da essa procurata, anziché garantire la relazione sociale e il suo ordine, li distruggono, perché isolano ciascun individuo-atomo dall’altro, quando addirittura non mettono, attraverso la “mobilitazione” sistematica e sistemica, l’uno contro l’altro (con un ritorno allo “stato di natura” che rappresenta l’esatto opposto dello stato civile-politico).
Questo spiega perché così spesso le varie forme (autoritarie e totalitarie) di dittatura militare sono portate a militarizzare la vita civile, espressione visibile, anzi arcinota, dell’ordine puramente artificiale (da assumere, qui, nel senso di artificioso) così instaurato. Un ordine, peraltro, che è sempre essenzialmente e costitutivamente instabile, nonostante la vistosa apparenza di una ferrea stabilità politica nel caso dei regimi autoritari e, ancor più, totalitari.
La società, quella politica in specie (non solo quella “civile” in senso stretto), non è un esercito o una caserma e perciò quando il dittatore crede di aver finalmente instaurato, e di poter mantenere, il potere politico, si ritrova costretto, per non perderlo, a proiettarlo verso l’esterno, dirottando la paura sul nemico esterno: lo Stato dittatoriale, nelle sue varie forme, sfocia inesorabilmente nella guerra esterna, nel conflitto con altre società politiche, con altri Stati. E qui cogliamo l’occasione per chiarire un interessante aspetto o carattere fisiologico della politica, sempre richiamandoci alla “asimmetria” da cui siamo partiti.
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