Negli ultimi vent’anni, le difficoltà della politica nel mediare i conflitti sociali hanno ridotto considerevolmente il ruolo della politica stessa nel farsi carico della mediazione tra i soggetti sociali. La voglia di democrazia diretta, di abbattimento delle mediazioni, di perdita del significato di rappresentanza è cresciuta in modo impetuoso. Si è avuta, dunque, una riduzione dell’importanza del ruolo del rappresentante, alla quale si è aggiunta una crescente indeterminatezza del ruolo del rappresentato, dovuta alla volatilità dei ruoli sociali e alla perdità di identità collettive.
Inoltre, come dice il politologo Gianfranco Pasquino, negli ultimi decenni, nelle democrazie occidentali, il ruolo dei partiti non è stato più in grado di rappresentare gli interessi degli elettori anche perché più forte si è fatta la presenza in Parlamento di gruppi di interesse (lobby), presenti sia all’interno degli stessi partiti che all’esterno. Soprattutto si sta sempre più rafforzando l’illusione che strumenti nuovi di partecipazione politica, che lo sviluppo del web 2.0 rende facilmente disponibili (consultazioni online, petizioni online, ecc) possa agevolmente sostituire la cultura della rappresentatività, incarnata, alla fine, nei partiti tradizionali. Anche se risulta assai difficile parlare ancora di partiti tradizionali, poiché le organizzazioni politiche maggiori del Paese difficilmente possono essere comprese in questa definizione.
Probabilmente il segno distintivo dei nostri tempi è rappresentato dall’odio anticasta che, nella forma che ha assunto negli ultimi anni, si manifesta come un sentimento sostanzialmente populista che si sostituisce alla riflessione ragionata sulle innegabili cause della degenerazione della politica, sulle molteplici forme del privilegio e, pertanto, sulle contromisure da prendere per favorire eguaglianza e partecipazione.
L’odio per gli eletti in quanto tali, finisce per rappresentare un potente diversivo rispetto alla presa di coscienza, da parte dei cittadini, dei loro autentici interessi, della natura del modello economico vigente e dei reali meccanismi alla base dell’esponenziale aumento delle diseguaglianze. Temi sui quali non si riflette più, né fuori né dentro i partiti e i movimenti politici. Rispetto a questo tipo di umori antipolitici, rimane valido l’argomento di Bertrand Russell, che diceva che l’argomento più forte a favore della democrazia è che, quando vige il suffragio universale, “un eletto non può essere più stupido dei suoi elettori: più è stupido (o corrotto) lui, più lo sono coloro che l’hanno eletto”. Non possiamo però non riflettere sul fatto che la politica non sembra più capace di rappresentare – appunto – quella scelta dei fini, in cui è sempre consistita, ma si riduce alla pura scelta dei mezzi più idonei per realizzare fini che sono determinati da altre istanze e che vengono percepiti come insindacabili e parte di uno scenario naturale che non può essere messo in discussione. Insomma, la totale abdicazione della politica rispetto all’economia finanziaria offre un corposo argomento al tradizionale pregiudizio popolare per cui “i politici sono tutti uguali”. Si tratta, si badi bene, di un problema che non riguarda solo l’Italia ma tutta la politica occidentale. «La ragione di questa crisi, che da almeno cinque anni coinvolge tutte le democrazie e le istituzioni e che non si capisce quando e come finirà, è il divorzio tra la politica e il potere». Lo sosteneva Zygmunt Bauman, scomparso alcuni anni fa. Il filosofo polacco, in una delle ultime interviste dichiarava: «Il guaio è che oggi la politica internazionale non è globale mentre lo è quella della finanza. E quindi tutto è più difficile rispetto ad alcuni anni fa. Per questo i governi e le istituzioni non riescono a imporre politiche efficaci. Ma è chiaro che non riusciremo a risolvere i problemi globali se non con mezzi globali, restituendo alle istituzioni la possibilità di interpretare la volontà e gli interessi delle popolazioni. Però, questi mezzi non sono stati ancora creati».
La soluzione, ovviamente, non può essere quella – facile – del ritorno al nazionalismo, al protezionismo, quello che oggi va di moda chiamare sovranismo. Le riflessioni sulle scelte dei fini, di cui abbiamo parlato poco fa, devono necessariamente tenere certamente conto dei fattori della finanziarizzazione dell’economia, della globalizzazione, sia di quelli negativi ma anche di quelli positivi, dello sviluppo di sistemi di comunicazione potentissimi e contemporaneamente privi di regole , come è il caso della Rete e più precisamente dei social network e, per finire, delle nuove disparità economiche nascenti all’interno delle nazioni più sviluppate. Si tratta, di cominciare a comprendere che, nel terzo millennio, la società evolve con tempi che non sono affatto conciliabili con le necessità di una politica abituata a ragionare in termini elettorali. I tempi delle elezioni non sono sovrapponibili alla modernità e il mondo non si ferma ogni quattro anni per aspettare di vedere chi ha vinto e chi ha perso.
Gli elettori, cioè i cittadini, sono ormai abituati ad essere connessi 24 ore su 24 ed a ricevere un enorme flusso di informazioni.
Tanto impetuoso da essere, spesso, persino troppo difficile da gestire. Tant’è che, nella società della comunicazione globale, i cittadini (gli elettori) qualche volta sono tentati dal distaccarsi da una mole di input tanto grande da risultare aliena e incombente per molti. Tanto grande e spaventosa da risultare disincentivante e foriera di confusione. Personalmente credo che non si possa elaborare una riflessione sulle modalità di governo dell’esistente, senza mettere in campo un reale cambiamento di paradigma che abbandoni metriche e modelli nati nel secolo scorso e persino nell’800, quando tutti questi fenomeni, che oggi regolano la nostra vita, non solo non esistevano ma non erano neppure prevedibili.
E in questa situazione, alla ricerca di questo indispensabile cambiamento, ci viene in soccorso la cultura classica e la citazione di Seneca: “Chi vuole cambiare il mondo, cambi prima se stesso “. Nel mondo del Management, ad esempio, si sta sviluppando una nuova modalità di esercizio delle attività manageriali che consiste nel liberare il potenziale dei propri collaboratori per massimizzare le loro prestazioni.
Il focus insomma è sul potenziale non sulle prestazioni e di questa nuova modalità l’elemento chiave è rappresentato dalla consapevolezza che, comprende anche l’autoconsapevolezza ed in particolare la capacità di riconoscere l’influenza delle distorsioni percettive della nostra realtà.
Si tratta, in sostanza, di un approccio globale che parta come prodotto dello sviluppo personale e che consenta di passare dal vecchio paradigma della paura (l’odio, il nemico, il conflitto…) ad un nuovo modello basato sulla fiducia e sul riconoscimento dell’evoluzione sociale e spirituale che, a ben vedere, è già iniziata nella specie umana. Mi sto riferendo a quel complesso di studi e di tecniche chiamato coaching, nato poco più di una decina d’anni grazie ad una intuizione di John Whitmore, che ha adattato al business, ma anche alla sfera personale, alcuni principi innovativi, introdotti da un professore di Harward, tennista esperto, Tim Gallwey, in un libro intitolato The Inner Game of Tennis.
Oggi, nel Mondo, migliaia di aziende hanno sposato questa cultura, ottenendo ovunque straordinari risultati sia in termini di produttività che di soddisfazione personale dei collaboratori, con percentuali di crescita che ovunque viaggiano in doppia cifra.
Adattare alla società ciò che funziona per le imprese richiede certamente impegno e studio ma questa idea funziona meglio quanto maggiore è l’ambito in cui viene adottata.
Uno dei risultati sperati di un percorso di coaching è quello di aiutare il cambiamento dell’esperienza che il cochee (cliente) ha del mondo. Sappiamo che le persone non agiscono direttamente sul mondo, ma vi agiscono necessariamente attraverso la loro percezione o modello del mondo. La loro mappa.
Pertanto, il coaching ha l’obiettivo di operare per cambiare proprio il modello che il cliente ha del mondo e di conseguenza il suo comportamento e le sue esperienze. Una persona reagisce agli stimoli esterni ed interagisce con quello che lo circonda, in funzione della sua “mappa “interiore. Una mappa diversa, ampliata ed arricchita, fornirà al suo possessore una quantità di strumenti in più per rapportarsi con la realtà circostante. Una mappa più ricca di particolari renderà il suo possessore più empatico, più sereno, più propenso ad approcciare il prossimo con disponibilità ed apertura.
In particolare, la consapevolezza che “la mappa non è il territorio “(Alfred Korzybski), cioè che ciascuno di noi ha una personale visione del mondo che non corrisponde alla realtà di tutti, una volta ottenuta, potrà fornire alle persone un accrescimento della tolleranza, del rispetto delle opinioni altrui, delle diversità e delle specificità di ciascuno.
Non è utopistico pensare che maggiore sia il numero di chi comprende profondamente ed appieno questo principio, maggiore sarà il tasso di coesione sociale della società. Una società basata sul rispetto delle diverse visioni del mondo è una società più pacifica ed empatica di quella attuale e probabilmente più stabile e più generosa.
Diventa, pertanto, necessario che la comunicazione politica e persino l’esercizio stesso della politica, sia nell’ottica delle scelte che in quella dell’amministrazione e del governo, si plasmi e si adatti alle mutate condizioni imposte dal presente.
Le persone si stanno abituando a ragionare per obiettivi, talvolta anche a breve termine, non essendo più possibile, per motivi che non staremo qui ad indagare, per la maggior parte di noi, progettare a lungo termine e pianificare il futuro. L’assenza di stabilità del lavoro, della famiglia, la mobilità geografica, quella che dai sociologi viene chiamata società liquida, ha bisogno di risposte adeguate alle sue necessità. Persino il business ha, da tempo, adeguato le sue modalità. I grandi obiettivi hanno lasciato il posto ad un goal setting, calibrato sulla performance e sulla necessità di impostare obiettivi SMART, che in inglese significa intelligente.
Si tratta di un acronimo in cui le lettere stanno per Specifici, Misurabili, Concordati (agreed in inglese), Realistici e Definiti nel tempo (time phased).
Appare evidente che si è in presenza di una logica piuttosto diversa sia dal vecchio capitalismo che dalla visione di business cui siamo abituati. La “smartness”, da parte di alcuni studiosi più avanzati, come il guru del coaching John Whitmore, non viene neanche più reputata sufficiente. E si inizia a parlare anche di altri due nuovi acronimi da applicare alla performance, con contenuti, secondo me, molto interessanti.
Secondo queste teorie gli obiettivi, oltre che SMART, devono essere PURE, in inglese puri e CLEAR (chiari). Questi due nuovi acronimi stanno per Espressi in positivo (positively stated), Compresi da tutti ( understood), Rilevanti ed Etici. Ed ancora: Stimolanti (challenging), Legali, Positivi per l’ambiente (environmentallyosound), Appropriati e Messi per iscritto ( recorded ).
Credo sia abbastanza superfluo, da parte mia, sottolineare gli aspetti etici (potremmo dire politici) di questa impostazione di management. Una azienda intelligente – smart – concreta ed agile, che sia anche pure e clear, cioè positiva, attenta alla legalità, all’ambiente ed alla vita delle persone, è certamente portatrice di input altamente positivi per la società. È davvero auspicabile che si assista ad un veloce sviluppo di un business orientato su questo modello. Un modello che potrebbe essere adattabile, con qualche indispensabile cambiamento, all’approccio della politica con le sfide della moderna società liquida. Un modello di questa natura potrebbe colmare il vuoto lasciato dalla fine delle ideologie. Da due decenni la politica cerca di trovare soluzioni a questo vuoto, con gli scarsi risultati. La soluzione potrebbe essere costruire una società smart, pure and clear?
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