Un giorno, gli storici ricorderanno il periodo nel quale viviamo come molto confuso, caotico e talmente ricolmo di informazioni da far perdere la strada persino agli stessi che la storia dovrebbero condurla. Dove alleati si scambiano per nemici e i nemici hanno le idee più chiare degli alleati stessi. Ecco una cosa del genere è il dibattito sulla transizione ecologica oggi.
Tra le tante informazioni scombussolanti ci sono quasi sicuramente tutta una serie di misure che la commissione europea ha varato nel tentativo di diminuire le emissioni di anidride carbonica entro in 2050, assodato, che ormai i piani per la riduzione entro il 2030 siano eccessivamente ambiziosi e a tratti utopistici. Parliamo per esempio del “green deal” o della “nature restoration law”, oppure venendo all’Italia, la possibile abolizione dei SAD (Sussidi Ambientalmente Dannosi). Insomma, qualcuno potrebbe dire “tante idee e perlopiù confuse” e non avrebbe nemmeno tutti i torti.
Ma cosa prevedono nel merito le misure? Nel caso del Green Deal, da come si legge sul sito della commissione europea, è un tipo di misura di medio-lungo periodo, volto a decarbonizzare completamente l’economia europea entro il 2050, non rientra quindi nei piani che potremmo definire “utopistici” ma più pragmatici anche se, come vedremo, sul breve periodo ha dei risvolti poco attuabili.
Uno tra tutti il taglio del 55% di emissioni entro il 2030, definito da JP Morgan eccessivamente ambizioso (chiaramente JP Morgan ha dietro di sé tutta una serie di interessi fossili da tutelare, ma essendo un importante polo di analisti finanziari, prendiamoli sulla buona fede almeno per questa volta). L’altro obbiettivo nel medio termine, anche se risulta un tantino velleitario, è la piantumazione di 3 miliardi di alberi. Piantare alberi, lì per li può essere anche una buona idea, del resto gli alberi sono degli eccezionali “carbon sink” pozzi di carbonio, che estraggono anidride carbonica dall’atmosfera e la infondono nelle fibre legnose di cui sono composti.
L’unico problema è che gli alberi nei primi anni di vita, 0-15 anni, assorbono veramente pochissimo, il loro massimo di assorbimento iniziano a darlo dopo i 40 anni. Quindi conviene decisamente di più concentrarsi sulla tutela del patrimonio arboreo già esistente e al massimo se proprio si vogliono piantare tutti questi alberelli prendere in prestito una frasetta di Buddha: “se non hai piantato un albero 10 anni fa, fallo adesso”, quasi sarcasticamente descrittiva delle politiche ambientali mai prese dai governi.
Tra le altre cose, il Green Deal prevede anche delle misure in materia di agricoltura e di efficientamento energetico. E proprio su queste due materie, il dibattito politico si è maggiormente incentrato in questi ultimi anni.
Partendo dall’ultimo punto, è notizia di pochi giorni fa l’approvazione da parte del parlamento europeo della normativa “case green” che si affianca proprio al Green Deal e al Fit for 55 (riduzione emissioni del 55% entro il 2030). La normativa prevede un miglioramento delle prestazioni energetiche degli edifici di tutti i paesi membri con annessa riqualificazione, laddove ci siano delle lacune negli edifici esistenti. Una misura valutata come necessaria dal momento che, secondo i dati della commissione, il 35% degli edifici di tutta l’UE ha più di 50 anni, e il 75% sono energeticamente inefficienti.
Uno sperpero di energia astronomico. Nel caso si concretizzasse davvero questa riqualificazione, vorrebbe dire un risparmio non indifferente sia per le famiglie che per le istituzioni e una sensibile riduzione dell’inquinamento e di conseguenza della CO2.
E qui arriva la nota per alcuni dolente. Secondo la commissione europea, per riqualificare il patrimonio immobiliare unitario bisognerà investire circa 275 miliardi di euro ogni anno fino al 2031. Praticamente il Superbonus ma per tutti i paesi europei. Del resto, l’allora ministro per la transizione ecologica Roberto Cingolani lo disse forte e chiaro “la transizione sarà un bagno di sangue”, una rivoluzione che, come da massima marxista, non sarà certo un pranzo di gala.
Ecco perché, negli ultimi mesi diversi think tank e agenzie che si occupano di energia hanno sottoscritto le critiche al bonus 110% come obbiettivamente immotivate (una tra tutte Nomisma). Tralasciando (si fa per dire) l’impatto sui conti pubblici, che su per giù si aggira sulla cifra menzionata sopra, è chiaro che se davvero si vuole raggiungere un obbiettivo così grande, ovvero la neutralità carbonica entro il 2050, da qualche parte bisognerà pur iniziare e i soldi qualcuno li dovrà pur mettere. E la questione edilizia non è di secondo piano, dal momento che è il terzo settore più emittente di anidride carbonica. Più che concentrarsi sui “danni” ai conti pubblici, bisognerebbe invece valutare i bonus edilizi come degli investimenti di lungo periodo ( sempre Nomisma), cosa che essi fondamentalmente sono. Perlomeno ci risparmieremmo un bel po’ di polemiche sterili e di cui non sentiamo il bisogno.
Ma torniamo sul punto, L’altra nota dolente era ed è l’agricoltura. Veniamo reduci, infatti, da un inverno molto caldo, scampati alle orde di agricoltori arrabbiati che con i loro trattori da 100 mila euro e più bloccavano le strade o rallentavano il traffico per mezzo di lunghi cortei. Si è molto discusso sulle cause che avessero portato così tanti lavoratori del comparto agricolo a protestare, le cause individuate sono principalmente tre; costo dell’energia aumentato (gasolio agricolo ecc), legge per limitare l’uso dei fertilizzanti e la concorrenza a detta loro sleale perpetrata dalla grande distribuzione ai danni dei piccoli produttori.
Il che rende gli agricoltori, una parte di loro almeno, una categoria molto ostica nei confronti della transizione ecologica. Questo perché il costo del diesel agricolo è tenuto basso proprio grazie all’intervento dello stato, che con i SAD (sussidi ambientalmente dannosi) elargisce lauti compensi ai distributori petrolchimici in modo da mantenere il prezzo del carburante accessibile, (questo avviene anche per l’autotrasporto tradizionale, ma ci arriviamo) chiaramente in un ottica di abbandono dei SAD, ormai necessario se si desidera davvero tagliare il cordone ombelicale con le multinazionali del fossile, bisognerà mettere in conto che molte aziende agricole sotto i 10 ettari chiuderanno, perché strutturalmente incapaci di reggersi con i propri profitti, e quindi inevitabilmente accorpate o comprate da organismi più grandi. Del resto negli ultimi anni, la dimensione media delle aziende agricole italiane è aumentata sensibilmente, dai 7 ettari di fine anni 80 agli attuali 11, il trend continuerà a salire.
Il problema dell’inefficienza delle piccole aziende agricole, infatti, si lega con il secondo tema sollevato dagli agricoltori, cioè la concorrenza “sleale” della grande distribuzione. Tralasciando il fatto che in realtà la grande distribuzione opera su margini di profitto estremamente risicati, parliamo di pochi centesimi per stock di prodotto, e questo capita perché i centri della GD sono sottoposti ad una estenuante competizione (si pensi a quanti supermercati sono presenti mediamente in una grande città), e a dire il vero il problema non è da ricercarsi nemmeno nella grande distribuzione, quanto a questo punto nel sistema capitalistico nel suo complesso. È qui infatti che casca l’asino, la grande distribuzione non è che un luogo dove domanda e offerta vengono incrociati e sono l’espressione di meccanismi ben più generali e complessi.
Uno tra tutti la competizione imposta dalla globalizzazione. Se davvero si desiderasse tutelare gli interessi degli agricoltori, allora tanto varrebbe imporre dazi doganali e inaugurare un nuovo periodo di protezionismo. Se non fosse che, come la storia ci insegna, il protezionismo di solito nuoce a chi lo applica, isolandolo a livello commerciale e preservando delle piccole élite privilegiate al suo interno (in questo caso gli agricoltori inefficienti), danneggiando per di più quelle categorie svantaggiate.
Faccio un esempio pratico, L’olio spagnolo prodotto in Andalusia costa tendenzialmente meno rispetto a un Evo italiano, ovviamente con tutte le differenze del caso. Il fattore da considerare è che banalmente non tutti possono permettersi un buon Evo italiano, per cui la scelta dell’olio andaluso risulta per alcuni quasi obbligata, e chiedere agli olivicoltori di vendere ad un prezzo più basso è fuori discussione, dal momento che erano tra coloro che in piazza denunciavano profitti scarsi.
Ma di nuovo, la colpa è della loro dimensione aziendale, il prezzo dell’olio almeno per il momento lo fa l’incrocio della domanda e dell’offerta, per cui salvo interventi statali/sussidi (pagati con i soldi dei contribuenti) il prezzo standard non può e non dovrebbe essere modificato artificialmente.
Sulla questione dei fertilizzanti/pesticidi invece, la questione è da rimandarsi esclusivamente al green deal e alle politiche ambientali, che sono state proprio per questo il centro delle proteste, tanto degli agricoltori italiani quanto di quelli europei nel loro complesso (penso agli olandesi).
Altro pilastro del Green Deal è la mobilità sostenibile, ovvero la famigerata auto elettrica, che non viene risparmiata da critiche da nessuno, né dal governo né da buona parte dell’opinione pubblica che anzi la vede come una costrizione inaccettabile. Venendo ai dati, il settore della mobilità è il secondo per emissioni climalteranti (il primo è l’energia), nella mobilità è compresa sia quella aerea che navale, ma nel complesso il 70% delle emissioni di questo settore è dominato dal trasporto privato e quindi dalle automobili.
Un primo metodo per ovviare al problema sarebbe quello di incentivare il TPL (Trasporto Pubblico Locale) e perseguire il “modello Amsterdam”, che si può applicare principalmente nelle grandi e medie aree urbane e prevede di sostituire completamente la mobilità privata con quella pubblica, lavorando sul lato dell’offerta, offrire in primis mezzi pubblici (efficienti), così che sia possibile rimuovere macchine dalla strada.
In effetti tutta la questione dell’auto elettrica vista come una imposizione dall’alto è abbastanza velleitaria, e rientra in quel macro-gruppo di argomenti fantoccio (strawmen argument) utilizzati da certi politichetti (di solito di destra ma non solo loro) per mendicare qualche voto. L’obbiettivo finale del modello Amsterdam sarebbe quindi, quello di trasformare le città in grandi aree pedonali, offrendo una qualità della vita nettamente migliore a chi vive le aree urbane, risparmiandosi inquinamento, rumore del traffico e il rischio di essere investiti. Direi tanta roba.
Quanto al trasporto elettrico privato, principalmente sarà utilizzato da chi vive in zone extra urbane o mal servite dai mezzi pubblici, rimarrà comunque sempre facoltà del singolo, nessuno costringerà nessuno a comprarsela. saranno direttamente le case delle automotive a smettere di produrre macchine con motori a combustione interna, il che sarà una mano santa per quanto riguarda il prezzo, che seguendo la solita legge della domanda e dell’offerta (in secula secolorum amen) si dovrebbe abbassare sensibilmente, e sbaglia chi come prezzo standard prende in riferimento la Tesla che è una macchina di lusso. Sarebbe come prendere a modello il prezzo di una Lamborghini ultimo modello e generalizzarlo a tutte le auto a combustione, insomma a quel punto non si potrebbe certo dire che siano convenienti.
Un’altra grande protagonista di questa storia e la Nature Restoration Law (NRL).
A differenza del Green Deal+Fit For 55, la NRL non è ancora stata approvata, ed è se così possiamo dire alle battute finali di un lungo iter burocratico che nel peggiore dei casi potrebbe bloccarla o emendarla con punti volti a indebolirne la sua struttura. Questo potrebbe avvenire perché buona parte dei paesi europei con governi di destra si sono impuntati ad affossarla, più per questioni ideologiche che nel merito.
La NRL prevede di tutelare il 20% della superfice terrestre e marittima in territorio Ue entro il 2030 e nell’ambito di questo obiettivo più ampio, i paesi devono ripristinare entro il 2030 il 30% degli habitat coperti dalla nuova legge (comprese foreste, fiumi e zone umide) che sono già degradati. Questa percentuale aumenterà al 60% entro il 2040 e almeno al 90% entro il 2050. Un piano importantissimo e che a quanto pare nuoce l’interessi di alcuni gruppi molto potenti, che si ritroverebbero senza nuovi territori da sfruttare.
Come dicevamo, c’è stato un “tentativo disperato da parte dei partiti di destra” di respingere la legge in questo voto, ha riferito il Guardian . Il Partito popolare europeo ( PPE ), di centrodestra , il più grande gruppo politico del parlamento, ha votato contro la legge insieme a “legislatori di estrema destra”, scrive il giornale.
La destra quindi rimane imperterrita il più grande nemico della transizione ecologica attualmente.
E poi ci sono i nemici che non ti aspetti, quelli che danneggiano la reputazione della transizione ecologica e per via di una certa irrazionalità rischiano di danneggiarne anche gli esiti. È il caso di Ultima Generazione.
In un primo momento, ammetto di aver visto con simpatia e un certo apprezzamento questo gruppo di giovani ecologisti, così appassionati e coraggiosi nel difendere la causa, anche assumendosi il rischio di venire investiti in qualche loro dimostrazione. ma approfondendo un po’ nelle loro proposte, rimangono zone d’ombra per quanto riguarda la loro ostinata posizione contraria all’energia nucleare (essenziale nel mix energetico del futuro), e certe loro posizioni dubbie e contraddittorie circa l’abolizione dei SAD.
In effetti chiedere di abbassare il prezzo del carburante, ed essere a favore dell’abolizione dei SAD sono due cose agli antipodi, o sostieni la fine dei sussidi ai fossili (ben sapendo che si tratta di una misura impopolare), oppure sostieni i fossili non scontentando nessuno, né grandi lobby del fossile, né la signora di Voghera con la fiat Panda diesel euro 4 che non ne vuole sapere di comprarsi qualcosina di meno puzzolente.
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