Nel nostro tempo alla scienza è affidato il grande onere di porsi come unico faro della conoscenza umana. Frasi come: «è scientificamente provato», oppure « lo dice la scienza» assurgono oggi la valenza di messaggi profetici attorniati da un’aura di sacralità.
È proprio questa sacralità, che per lo meno in questi termini così radicali, non appartiene difatti alla scienza (ad essa appartiene un altro tipo di sacralità, alla quale farò riferimento in seguito) a dover essere oggi di nuovo in discussione. Per farlo sarebbe utile che la popolazione, che nella maggior parte dei casi non è particolarmente addentro a specifiche questioni metodologiche ed epistemologiche, conoscesse un po’ meglio i limiti del metodo sperimentale che, fin dalla prima rivoluzione scientifica, costituisce il cuore pulsante dell’attività scientifica.
Ebbene, a questo punto – onde evitare complesse ricostruzioni storiche e difficili analisi epistemologiche – vorrei limitarmi ad un solo esempio, spesso citato in letteratura come modello utile per comprendere cosa davvero vuol dire realizzare un esperimento scientifico.
L’esperimento del piano inclinato è un esempio particolarmente efficace per comprendere il senso del metodo sperimentale, che si configura sempre – ecco il punto da mettere a fuoco – come una semplificazione della realtà. Galileo descrive l’esperimento in questione specificando di aver utilizzato un piano di forma triangolare (un triangolo rettangolo, per l’esattezza) di legno, del quale l’ipotenuta costituiva appunto il piano «liscissimo» sul quale far scorrere le sferette di bronzo, anch’esse molto levigate.
Lo scienziato pisano, in altri termini, grazie ad un lavoro tecnico ha riprodotto un fenomeno naturale (la caduta dei corpi) in un contesto controllato, nel quale cioè tutte le variabili complesse erano difatti ridotte al minimo. Molto raramente, per non dire mai, in natura accade che un corpo estremamente levigato scorra su di un corpo liscio, dritto e inclinato. Queste condizioni, che in modo molto più complicato ed elaborato, anche oggi vengono riprodotte in laboratorio (si pensi agli acceleratori di particelle) sono le condizioni sperimentali ideali per poter isolare alcuni fenomeni e studiarli in modo controllato e non confuso. La confusione, lungi dall’avere una connotazione negativa, è invece il modo in cui, in natura, tutti i fenomeni si presentano agli occhi degli osservatori.
Quando noi facciamo esperienza della realtà, non facciamo esperienza di una collezione sconnessa di fatti, ma di un tutto che armoniosamente – in modo per l’appunto complesso – continuamente si evolve e si rimescola. Perturbazioni reciproche e continue sovrapposizioni sono le caratteristiche del moto evolutivo della natura che è come una tela dipinta, sulla quale sarebbe impossibile discernere le successive stratificazioni delle pennellate e le innumerevoli contaminazioni dei colori. Le scienze della natura, pertanto, per poter studiare e interrogare la realtà devono necessariamente sacrificare – in ottemperanza fedele ai principi del loro metodo – la dimensione fenomenologica della natura, vale a dire la dimensione in cui la natura si manifesta ai nostri sensi.
La scienza, quindi, deve creare delle condizioni ideali per separare, analizzare e dividere ciò che in natura si presenta unito, confuso e sovrapposto. Come ha giustamente scritto Lorella Congiunti, l’esperimento non coincide con l’esperienza del mondo. Tutto ciò non significa rigettare tutto il dignitoso lavoro delle scienze naturali. Al contrario, la consapevolezza di questa procedura è volta a dare maggiore consapevolezza alle persone comuni su quelli che sono i limiti del sapere scientifico che, in quanto tale, se non deve essere totalmente delegittimato, allo stesso tempo non può ergersi nemmeno come unica, univoca e assoluta fonte di conoscenza.
Nella trasformazione della natura in modello astratto – che è la trasformazione ‘alchemica’ che le scienze realizzano costantemente – la conoscenza ci guadagna in esattezza ma ci perde in completezza. La maggiore esattezza è data dal fatto che l’isolamento del fenomeno da indagare consente un’interrogazione di esso scevra da ogni dettaglio considerato inutile per gli scopi di quella ricerca. Tuttavia è proprio la riduzione della natura a modello astratto a creare la dispercezione, che risulta nefasta in taluni scienziati, di poter governare il creato e di conoscerne in modo definitivo ogni singolo segreto.
In verità ogni esperimento scientifico, come è stato giustamente messo in luce da Karl Popper (1902-1904) può, al massimo, chiarire la falsità di una certa teoria, ma non è sufficiente – e non lo sarà mai, almeno non per il noto epistemologo – a confermarne in modo definitivo la veridicità. Alla luce di tutto ciò è giusto, quindi, ridimensionare il peso che la scienza può avere nella costruzione della conoscenza del mondo e dell’uomo, ma ciò, sia chiaro, senza diminuirne l’intrinseca dignità e la notevole importanza. Ciò che le scienze realizzano in termini di comprensione del mondo naturale va quindi necessariamente integrato da un contributo che alla scienza può venire soltanto dalla filosofia. Essa è l’unica disciplina capace di coniugare la sua apertura all’universalità senza negare quella dimensione fenomenologica, che le scienze continuamente rifuggono ma che la filosofia considera da sempre il punto d’inizio e il punto d’arrivo della sua speculazione.
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