LA SFIDA CIVICA RADICALE DI MARIO DRAGHI ALL’EUROPA

C’è un merito del “Rapporto sul futuro della competitività europea” presentato a Bruxelles da Mario Draghi lo scorso 9 settembre che mi pare non emerga nemmeno nei commenti più attenti. È qualcosa di implicito, un messaggio certamente non voluto, ma mi pare evincibile in modo non arbitrario. È il fatto che il taglio di verità e di sfida che Draghi ha scelto, mentre mette oggettivamente a nudo i limiti delle classi dirigenti europee e la distanza tra élites e popolo, soprattutto di quella parte di popolo che si sente messa ai margini dei processi di riconoscimento sociale oltre che dei benefici delle politiche praticate, esalta anche altrettanto oggettivamente la natura trasversale, non ideologica, della proposta.

È esagerato dire una sfida civica radicale?

Già Enrico Letta, nello scorso mese di aprile, con il suo “Rapporto sul futuro del Mercato unico europeo”, aveva chiaramente evidenziato la natura eminentemente politica del progetto di mercato interno dell’UE in quanto collegato agli obiettivi strategici dell’Unione. Così, prendendo atto delle mutate condizioni storiche e del nuovo contesto geo-politico, aveva invitato le istituzioni europee ad agire rapidamente per completare un disegno che Jacques Delors aveva iniziato a realizzare quarant’anni prima. Anche in questo caso una sfida trasversale, istituzionale, rivolta a tutti, non così radicale però come quella che sarebbe venuta poco dopo da Draghi.

C’è da chiedersi perché questa accentuazione, al di là delle differenze di personalità, pure importanti, com’è naturale. Forse si tratta di responsabilità esercitate in punti chiave del potere mondiale, e magari anche di coraggio supportato da cultura politica liberaldemocratica.

Il dato di fatto comunque è che il Rapporto Draghi sulla competitività europea è oggettivamente un brusco richiamo al mondo politico e in generale alle classi dirigenti dell’Europa ad esercitare le dovute responsabilità di fronte al destino dei popoli dell’Unione.

Il punto chiave a me pare questo passo della prefazione: “Si tratta di una sfida esistenziale. I valori fondamentali dell’Europa sono la prosperità, l’equità, la libertà, la pace e la democrazia in un ambiente sostenibile. L’UE esiste per garantire che gli europei possano sempre beneficiare di questi diritti fondamentali. Se l’Europa non è più in grado di fornirli ai suoi cittadini – o se deve scambiare l’uno con l’altro – avrà perso la sua ragione d’essere. L’unico modo per affrontare questa sfida è crescere e diventare più produttivi, preservando i nostri valori di equità e inclusione sociale. E l’unico modo per diventare più produttivi è che l’Europa cambi radicalmente”. Una sintesi perfetta dello stato attuale e della missione storica dell’Unione.

Si tratta dunque di rilanciare la crescita e assicurare che questa si concili con la giustizia sociale. Perciò occorre reagire collettivamente in tre aree di azione prioritarie: innovazione, per colmare il divario con gli Stati Uniti e la Cina, soprattutto nelle tecnologie avanzate; decarbonizzazione e competitività, perché siano un’opportunità per l’Europa e non confliggano con competitività e crescita; aumento della sicurezza e riduzione delle dipendenze, perché la sicurezza è un prerequisito per la crescita sostenibile e l’insicurezza crescente una minaccia per la crescita e la libertà.

Così tutto si tiene perché siamo arrivati al punto “in cui, se non agiamo, saremo costretti a compromettere il nostro benessere, il nostro ambiente o la nostra libertà”. Da qui due conseguenze congiunte: il finanziamento comune dei provvedimenti per la poderosa cifra di 800 miliardi all’anno per cinque anni e la fine delle decisioni all’unanimità. Come dire: è ora di decidersi, o declino o unione, o fine dell’Europa o Stati Uniti d’Europa. Dunque la partita è aperta, si può giocare, perciò si deve giocare.

Questa infatti la conclusione: “Ci sono diverse costellazioni in cui possiamo avanzare. Ma ciò che non possiamo fare è non avanzare affatto. La nostra fiducia nel fatto che riusciremo ad andare avanti deve essere forte. Mai in passato la scala dei nostri Paesi è apparsa così piccola e inadeguata rispetto alle dimensioni delle sfide. Ed è da molto tempo che l’autoconservazione è una preoccupazione così comune. Le ragioni per una risposta unitaria non sono mai state così convincenti – e nella nostra unità troveremo la forza di riformare”.

Un invito pressante alle forze politiche e ai soggetti che hanno ruolo nei singoli stati ad accelerare i processi di unione, perché la situazione è gravida di pericoli, i ritardi sono enormi e le sfide né risparmiano risorse e opportunità né sopportano titubanze e fughe dalle responsabilità. Non si può dunque non concordare con Claudio Cerasa: “La nuova agenda Draghi è un bazooka puntato contro i populisti di destra, i populisti di sinistra, i populismi rigoristi, i populismi antirigoristi”.

Insomma, si può anche dire un bazooka civico.

Torno per un attimo all’inizio. Dicevo che il taglio di verità e di sfida che Draghi ha scelto è spiazzante, nel senso che contemporaneamente e contestualmente mette a nudo i limiti delle classi dirigenti europee e la distanza tra élites e popolo. Non c’è da meravigliarsi dunque se il Rapporto, pur commissionato dalla Presidente della Commissione UE, sia stato accolto con una certa freddezza dalla stessa UvdL e da gran parte del mondo politico europeo, compresi molti dei conclamantesi europeisti. Né sorprende che non sia stato neanche semplicemente preso in considerazione in ambienti politici che fanno riferimento al mondo della cultura e dell’agitazione sociale di orientamento wokista che odia le élites e tutto ciò che sa di capitalismo e di Occidente.

Accade in Europa. Ma in Italia questa condizione di sorda ostilità e insieme di voluta ignoranza è particolarmente evidente, essendo tutti, chi più chi meno, impegnatissimi ad occuparsi delle tristi vicende in stile sudamericano della nostra classe dirigente, da Toti e Boccia-Sangiuliano alla lite Conte-Grillo fino alle misteriose vacanze di Elly Schlein, a Renzi che bussa a porte che non si aprono e al campo largo che diventa stretto, miserie di un bipopulismo senza anima, senza idee e senza prospettiva.

Non resta dunque che sperare che il sasso lanciato nello stagno dell’Europa da Draghi con il suo Rapporto allarmato, e anche per questo positivamente sfidante, venga raccolto da chi in Europa e in Italia è pronto da tempo ad uscire dalle gabbie ideologiche di un falso bipolarismo che trasforma la politica in un ring inconcludente con conseguente inevitabile esclusione di masse di cittadini dalla partecipazione responsabile alla vita del Paese.

La sfida di Draghi dà tanto la sensazione di essere uno di quei frutti autunnali dal sapore duro e un po’ amaro, ma proprio per questo gustoso e pieno di sostanze tonificanti. Un po’ come il civismo autentico. Chissà che non ne nasca qualcosa che anche in una politica da basso impero possa avere quel sapore di cose buone che sentiamo mancarci da troppo tempo.


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