IL CNEL SUL SALARIO MINIMO TRA CONTABILITÀ CONTRATTUALISTICA E OMISSIONI ECO-TECNO-SOCIALI
Il Cnel si è espresso sul salario minimo “confermando” gli orientamenti del Governo e adottando i dati già noti dell’INPS riguardanti la copertura dei CCNL ( che peraltro non considerano il “lavoro nero” e poco quello “grigio”). Ma su che base allora? Il Cnel ritiene che essendo i potenziali interessati una ridotta schiera di lavoratori non coperti da contratti nazionali che ammettono salari inferiori a 9 euro/ora, il salario minimo (spesso riferibile a giovani, donne o immigrati) non meriti di essere elevato a una priorità del Governo.
Infatti si sostiene che essendo i “contratti coperti” al 96% da CCNL ossia firmati da CGIL,CISL ,UIL si rispetterebbe la direttiva europea che ne fissa la sussistenza all’80%, per una platea di 13,2 su 13,8 milioni di lavoratori che hanno un contratto e dunque il “salario minimo” sarebbe di fatto già realizzato. Ma era questo il solo obiettivo del CNEL, ossia valutare statisticamente i potenziali interessati e la sostenibilità di quella soglia e che siccome riguardante il 3-4% della popolazione occupata di scarso interesse?
Noi pensavamo che obiettivo del CNEL fosse anche (e forse soprattutto) valutare gli impatti di una certa soglia di “salario minimo” per es. su aumento di gettito (stimabile pari a 3 miliardi con soglia a 9 euro) oltre che su aumento della spesa pubblica, considerare i suoi effetti sulla crescita del sistema economico, sullo stimolo ai processi di innovazione, sull’attrattività di una soglia superiore di salario per giovani lavoratori in particolare in settori poco “protetti” dalla contrattazione collettiva (agricoltura, turismo, servizi domestici) e sulla effettiva rappresentatività di quei contratti.
Insomma ci si aspettava dal Cnel una analisi con una proposta a partire da una valutazione d’insieme sulle compatibilità di un “salario minimo” con le condizioni del sistema economico-industriale e con una società italiana che segnala poveri per circa 6 milioni di persone (secondo dati BdI e ISTAT) e “lavoratori poveri” per 4,2 milioni anche tra coloro che sono “coperti” da un contratto, ma sempre meno capaci di soddisfare al proprio mantenimento e della propria famiglia pari a circa 2,6 milioni di lavoratori (secondo Eurostat) ossia il 12% degli occupati. Con L’ISTAT a dimostrare che i rapporti di lavoro con salari inferiori a 9 euro sono 1/5 del totale (18,2%) per circa 3 milioni di lavoratori (2022). Gli interrogativi che ne seguono sono molteplici.
Perché non è sufficiente affidare tutto il processo regolatorio alla CCNL (e dunque al potere-capacità relativa di contrattazione tra le parti come avvenuto per tutto il ‘900 e che imporrebbe almeno una estensione erga omnes) sapendo che questo è altamente fragile e fortemente frammentato e che soffre la concorrenza di contratti pirata (circa 900mila) per quanto ritenuti marginali, incuneando dunque tra le proprie pieghe il “lavoro povero”.
Ci attendevamo dunque qualche proposta su come superare i “contratti pirata” o come ridurre i “lavoratori poveri” (contrattualizzati e non), o sullo stato della rappresentanza di quei CCNL che però non è arrivata. Perché non darsi una rete protettiva dal basso che ponga tutti i settori sullo stesso piano di opportunità da differenziare poi in base a diversi livelli di produttività da negoziare con la contrattazione collettiva definendo una “soglia di dignità” (minima) come impone la Costituzione?
Sapendo che 9 euro lordi sono poi 6 netti che significherebbe 960 euro mese con 8 ore lavoro/giorno per 4 settimane e ora “falciato” dall’inflazione sopra il 5%. Un salario sufficiente a pagare un affitto (basso) di 350 euro, una spesa alimentare di almeno 300 euro e tutte le utenze e i trasporti (non inferiori a 200 euro) come spese fisse (alle quali aggiungere quelle variabili come la sanità e/o la scuola) e presupponendo una famiglia individuale o monoreddito che già con due/tre componenti sfonderebbe largamente le disponibilità, oltre che con forti differenziazioni territoriali tra Nord e Sud.
Ma è peraltro evidente che quei livelli di salario si distribuisce su contratti part-time o di lavoro intermittente o trimestrale-stagionale riducendolo anche del 50% che spiega la larghissima platea di “lavoratori poveri” che alcune fonti istituzionali reputate stimano anche attorno ai 3 milioni perché – non serve ripeterlo – questi lavoratori non sono solo quelli che hanno stipulato un contratto “giallo”.
È chiaro allora il significato di una sentenza recente della Cassazione che definisce che un salario netto di 650 euro non sia rispettoso dell’ art. 36 della Costituzione dando ragione ad alcuni lavoratori ricorrenti impegnati nei servizi di sicurezza e segnalando peraltro “l’irrilevanza” del fatto che quel livello fosse definito da un contratto collettivo di lavoro, dato che una impresa può dichiarare all’INPS un definito CCNL e applicarne un altro. Dovendo peraltro considerare anche una ragione strutturale che attiene alla natura della tecnologia (sostitutiva di lavoro e non) i cui sviluppi sono sempre più esterni alla “contrattazione negoziata” tra le parti distorcendo il rapporto tra produttività (marginale) e salario.
Come in tutti i casi di “lavoro povero” a bassissima intensità tecnologica (tra lavori della filiera logistica e /o di piattaforma come per l’”economia dei lavoretti” o dei “nuovi schiavi”). Mentre nel ‘900 la variabile tecnologica era da definirsi sostanzialmente “interna” e a somma zero tra dinamica salariale e dinamica tecnologica. Anche nelle ipotesi “sindacaliste” degli anni ’70 del salario come variabile indipendente. Quindi compito del CNEL pensavamo fosse anche quello di definire un perimetro ampio di compatibilità economiche, sociali, tecnologiche, ambientali e di politica industriale coerenti con una data soglia di “salario minimo”.
Mentre ci si è limitati ad un “conteggio ragionieristico” della platea coinvolta sulla base di variabili occupazionali-contrattuali del tutto note trascurando le diseguaglianze emergenti, insufficienti ad allinearci a quei tanti paesi europei che hanno già definito il loro salario minimo tra 5 e 12 euro dal Portogallo alla Spagna alla Francia, dall’Olanda alla Germania.
Tutti paesi che sono cresciuti più di noi negli ultimi 30 anni e soprattutto con minori diseguaglianze. Trascurando inoltre che i nostri salari solo calanti da tempo e invece salari crescenti aiutano la crescita economica e gli stimoli all’innovazione agganciando produttività e salari come si fece con le politiche di “concertazione” di Carlo Azelio Ciampi e che diedero buoni frutti in senso keynesiano legando crescita e benessere dei lavoratori magari oggi supportati da un welfare aziendale più generoso che aiuti anche i territori a crescere nelle diverse filiere locali del Made in Italy.
A questo serve dichiarare per legge che ogni lavoratore ha diritto ad un contratto e che il minimo accettabile di salario orario non può essere inferiore a 9 euro(lordi) come principio di civiltà oltre che di buon senso come peraltro riconosciuto dal 70% degli italiani in modo trasversale da elettori di sinistra, centro o di destra.
Ma se il Cnel si limita a una pura descrizione dei fenomeni (peraltro parziale e lacunosa come anche rilevato da diverse analisi di alta reputazione scientifica) e di “sostegno” al Governo di turno mancando di analisi e proposte originali su questo tema strategico del lavoro – affidandone peraltro la responsabilità di analisi ad ex-politici/ex-sindacalisti a basso grado di indipendenza e autonomia di pensiero e teorico-metodologica – a cosa ci serve?
SEGNALIAMO