Oggi, tra globalizzazione e nichilismo
Il 2 aprile 2025, nel Rose Garden della Casa Bianca, Donald Trump ha proclamato il “Liberation Day”, annunciando un dazio universale del 10% su tutte le importazioni statunitensi, con aliquote punitive fino al 25% per 60 Paesi accusati di pratiche commerciali sleali. Le misure, entrate in vigore il 5 aprile (e il 9 per le tariffe più aggressive), segnano una radicale inversione nella politica commerciale americana. La presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha reagito prevedendo “conseguenze terribili per milioni di persone”, ricadendo ancora una volta nella visione da shock economy di Naomi Klein.
Certamente queste misure influiranno sulle esportazioni europee verso gli Stati Uniti, non c’è alcun dubbio al riguardo, sebbene sia ancora difficile valutarne con precisione l’impatto complessivo. Alcuni settori risulteranno più colpiti rispetto ad altri, ma appare evidente che un incremento così consistente e repentino dei dazi non consentirà alle imprese di adattarsi tempestivamente, causando inevitabilmente ripercussioni negative. D’altra parte, è necessario ammettere che sull’argomento abbiamo tutti peccato di superficialità: una reazione americana era prevedibile, considerato il deficit commerciale e le fragilità economiche, strutturali e produttive degli Stati Uniti, che da tempo manifestano il proprio malcontento soprattutto verso le economie orientali. Non a caso, queste ultime sono state colpite dai dazi in modo molto più significativo rispetto a quelle europee.
Un colpo all’Europa, ma il bersaglio è la Cina
L’impatto sulle esportazioni europee – l’Europa ha 240 miliardi di dollari di suprplus commerciale con gli USA- è inevitabile, ma la vera posta in gioco è il confronto con l’Asia. Le economie orientali, dalla Cina al Vietnam, crescono a ritmi del 7-8% annuo, combinando produzione low-cost e innovazione high-tech. Trump punta a riportare in patria le filiere industriali, ma il prezzo sarà un’impennata dell’inflazione negli USA. Tuttavia, la mossa era plausibile: il deficit commerciale e il declino produttivo americano rendevano pensabile una svolta protezionista.
La resa dei conti del capitalismo globale
Questa vicenda è il frutto di una trasformazione generale del capitalismo mondiale e della sua relazione con la politica: l’ascesa di un capitalismo oligopolistico, insofferente verso ogni controllo politico, ha generato una simbiosi tra personaggi politici come Trump e grandi capitalisti come Musk, Bezos e altri. La recente rivoluzione economico-tecnologica ha trasformato radicalmente il capitalismo. L’antefatto risale al 1989, con la caduta del Muro di Berlino, l’affermazione del capitalismo finanziario come unica ideologia dominante, e soprattutto l’avvento di Internet, che ha reso possibile la globalizzazione, definitivamente consacrata dalla diffusione degli smartphone. Così si è realizzato un mondo privo di vincoli, barriere e frontiere.
In questo scenario, ci si potrebbe chiedere quale sia stato il ruolo della sinistra progressista di fronte alla rivoluzione hi-tech. È stato forse inesistente? In Italia, Domenico De Masi aveva intuito chiaramente questi sviluppi, grazie anche ai suoi studi sociologici, che si avvalevano del metodo Delphi e della futurabilità, nella grande tradizione di Aurelio Peccei e del Club di Roma; tuttavia, sembrerebbe che nessuno dei leader dell’Ulivo-Margherita-PD lo abbia realmente ascoltato. La sinistra potrebbe non essere stata capace di interpretare le nuove sfide del XXI secolo. Sorge spontanea la domanda: è forse ovvio che, per ritornare a definirsi sinistra, essa debba ricominciare a occuparsi seriamente di Stato, beni comuni, strategie nazionali e macroregionali, diplomazia e programmi economici, industriali e di sviluppo. Attualmente sembra dominare invece un progressismo incapace di guardare oltre sé stesso.
Il compito di ripensare profondamente le politiche economiche, sociali e fiscali, e di operare un grande riassetto istituzionale era sicuramente immane, ma era necessario per contrastare l’attacco del nuovo capitalismo globale. Nessuno però lo ha fatto realmente. Un esempio possibile è Massimo Cacciari, intellettuale raffinato e figura influente del mondo democratico, che durante i suoi tre mandati da Sindaco di Venezia ha di fatto avviato il processo che ha reso la città simbolo negativo di un capitalismo globalista, schiacciata dal turismo di massa e dalle grandi fondazioni del mercato culturale e del lusso. Si potrebbe ipotizzare che Cacciari non abbia distrutto Venezia intenzionalmente, ma che ciò sia avvenuto per ignavia, mancanza di radicalità e, difficile da pensare e ancor più da scrivere, per una carente visione politica. È possibile che, dal 1989 in poi, molti si siano lasciati abbagliare da denaro e potere, trascurando così le sfide poste dal nuovo capitalismo globale.
Oggi, con l’avvento di Trump, forse qualcosa o qualcuno potrebbe risvegliarsi. Tuttavia, c’è un ché di comico nel pensare che la risposta a questo passaggio storico possa essere affidata esclusivamente alla von der Leyen. Alcune questioni sono palesi: come può la sinistra considerarsi tale se sostiene una politica di riarmo e spendendo miliardi in spese militari? E soprattutto, per quale obiettivo? Per armare la Germania?
L’Unione Europea oggi appare priva di una reale identità politica: siamo certamente europei, accomunati da una storia complessa e condivisa di rapporti fra grandi famiglie, sebbene costellata anche da conflitti interni. Ma l’Europa come entità politica, al momento, semplicemente non esiste.
L’Europa come tradizione millenaria
L’idea che l’Europa esista solo se unita politicamente è una semplificazione storicamente insostenibile. L’Europa, prima di essere un’entità politica, è stata ed è tuttora una matrice culturale, fondata su una complessa stratificazione di elementi greco-cristiani, giuridici, filosofici e artistici. La sua esistenza non dipende dall’unità politica, ma dalla continuità e dalla vitalità di questa tradizione millenaria.
Già nell’antichità, il pensiero greco ha definito le basi del razionalismo occidentale, con Platone e Aristotele, i cui scritti hanno influenzato la filosofia medievale e moderna (Dodds, The Greeks and the Irrational, 1951; Jaeger, Paideia, 1934). La tradizione giuridica romana ha poi fornito il modello legislativo per gran parte degli ordinamenti europei (Mommsen, Römisches Staatsrecht, 1871). È su queste fondamenta che si è sviluppato il cristianesimo, non solo come religione, ma come struttura culturale e politica dell’Europa medievale e moderna (Dawson, The Making of Europe, 1932).
La letteratura dimostra che l’Europa esiste come spazio culturale anche al di là delle sue configurazioni politiche. Non solo la tradizione occidentale, ma anche la russa e balcanica, hanno prodotto opere fondamentali per il canone europeo: Dostoevskij, Tolstoj, Gogol’, ma anche Ivo Andrić e Miroslav Krleža, hanno arricchito la coscienza europea (Berlin, The Hedgehog and the Fox, 1953). L’opera di Dante, Shakespeare e Goethe mostra una continuità di pensiero che supera i confini politici (Auerbach, Mimesis, 1946).
L’Europa è anche una costruzione istituzionale che precede qualsiasi forma di unità politica contemporanea. La Magna Charta (1215) ha introdotto il principio della limitazione del potere sovrano, l’habeas corpus (la radice di ogni diritto laico), il Sacro Romano Impero ha rappresentato un modello di governance sovranazionale per secoli (Kantorowicz, The King’s Two Bodies, 1957), i monasteri benedettini hanno preservato e trasmesso il sapere antico (Le Goff, Les Intellectuels au Moyen Âge, 1957).
Le federazioni galliche e l’esperienza normanna hanno dimostrato che l’Europa è stata spesso più un mosaico di identità piuttosto che un blocco monolitico (Bloch, Feudal Society, 1939). La grande scienza, da Copernico a Newton fino a Einstein, non è mai stata vincolata a un’unica identità nazionale o politica, ma è espressione di una civiltà comune (Koyré, From the Closed World to the Infinite Universe, 1957).
L’Europa esiste soprattutto al di là dell’unità politica perché è una civiltà, un grande laboratorio di idee, arte e istituzioni che ha influenzato e continua a influenzare il mondo globale. La sua storia dimostra che può vivere in molte forme, senza per questo perdere la sua identità. L’unità può essere un progetto politico contingente, ma non è la condizione necessaria per la sua esistenza e anzi se fatta senza una visione temporale ma solo secolare, son mille anni che dimostra che non funziona.
Da Platone a Dostoevskij, dalla Magna Charta alle cattedrali gotiche, questa costellazione di simboli e istituzioni ha resistito a imperi e guerre mondiali senza bisogno di burocrazie bruxellesi.
Eppure, proprio mentre Trump lancia il suo attacco protezionista, l’UE ha dimostrato tutta la sua fragilità esistenziale. Non è un caso che Venezia – città simbolo di questa Europa colta e mercantile – sia oggi ridotta a parco tematico per turisti, con l’autorevole Cacciari come valente archeologo del disastro. Il problema non è l’assenza di Europa, ma l’averne tradito l’essenza.
La caccia al nemico
E così come sempre nei momenti di panico e disperazione cosa si scatena? La caccia al nemico, infatti qualsiasi persona sana di mente deve porsi la domanda: c’è la minima possibilità che Putin possa invadere l’Europa?
Ma la figura dell’antagonista è essenziale per entità politiche fragili, è una costante storica, sia per regimi autoritari che per politiche deboli. In tali casi si ricorre al meccanismo dell’avversario, o perché si è fragili e si cerca di mascherare le proprie insufficienze focalizzando l’attenzione dell’opinione pubblica sull’antagonista, che può essere l’immigrato, un virus estremamente pericoloso, Putin, o l’invasore extraterrestre, quello verde con i tentacoli…
Hanno creato un avversario per cercare di mantenere unita la struttura: è caratteristico di contesti di questa natura, la formulazione dell’antagonista. Se è indubbio che Putin non sia affatto un alleato, sostenere che egli possa rappresentare un nemico al pari di Hitler significa avanzare affermazioni che, per il solo fatto di essere pronunciate, si delegittimano da sé.
La questione si impone spontanea: perché non individuare il nuovo nemico in Netanyahu?
Un uomo che si sta rendendo responsabile di crimini di una gravità paragonabile a quella dell’Olocausto? Eppure, mentre Netanyahu rappresenta senza dubbio il nemico mortale del popolo palestinese, non può certo essere considerato una minaccia per noi europei. Tanto è vero che nessuno, nel nostro continente, si sognerebbe di definirlo tale.
Che egli sia per i palestinesi ciò che Hitler fu per gli ebrei è detto da molti. Ma siamo in presenza di un conflitto bellico, e in guerra le parti si affrontano, è inevitabile. Così come Putin è, giustamente, il nemico di Zelensky: questa è la natura della guerra, che presuppone avversari contrapposti.
Il punto cruciale, tuttavia, è un altro: Netanyahu è irrilevante in questo discorso. La vera questione è l’incapacità europea di pensare se stessa come soggetto autonomo di diplomazia, anziché limitarsi a seguire pedissequamente logiche di contrapposizione che non le appartengono.
La doppia elica del DNA europeo
Si potrebbe immaginare un DNA europeo con due eliche: una ricompila incessantemente una conflittualità guerrafondaia, l’altra è fondata sulla pace e la pratica diplomatica. Essere europei dovrebbe allora significare temere la propria aggressività e quindi ricercare una politica estera di pace. Essere europei consapevoli della propria storia e del ruolo storico dovrebbe significare intervenire con una politica di mediazione, di compromesso in tutti i conflitti che si sono accesi. E la pace prima facie deve essere sociale all’interno dei singoli stati, quindi essere europei significa fare una politica di convergenza sul piano sociale e fiscale, che però dal 1989 non c’è stata. Da Carlo Magno a Jean Monnet, la nostra storia oscilla tra due poli: la conflittualità guerrafondaia e il genio diplomatico. Essere europei significherebbe oggi mediare tra USA e Cina, inventare un nuovo sistema di sicurezza collettiva, riconciliare crescita e welfare. Invece, abbiamo preferito il vassallaggio atlantico e l’austerità neoliberista.
Il tradimento del 1989
Con la caduta del Muro, l’Europa aveva una chance unica: integrare l’Est senza annientarne l’industria, regolare la finanza invece di idolatrarla. Invece, gli amati e prodi draghi del governo hanno scelto la via più miope: allargamento senza profondità, moneta unica senza fiscalità comune, mercato unico senza strategia tecnologica.
Il Nichilismo
Che cosa rimane dunque? Rimane il nichilismo, introdotto da Turgenev in “Padri e figli” e reso celebre da Nietzsche, figura cruciale del nostro tempo perché le sue profezie si stanno avverando, benché con circa un secolo di ritardo sono arrivati l’antropocene, l’accelerazionismo, e via di seguito. Non c’è un futuro, non c’è un perché, manca lo scopo. Il convitato di pietra è già qui, ed è il capitalismo neoliberista, con la sua inevitabile e necessaria trasvalutazione di tutti i valori.
L’illusione dell’unità senza cultura
I monasteri benedettini salvarono la civiltà europea dopo Roma. Oggi, le nostre “élite” hanno smantellato scuole pubbliche e la ricerca per inseguire i parametri di Maastricht (Washington Consensus). Il risultato? Un continente che importa algoritmi dalla California e batterie dalla Cina, mentre lascia morire i suoi giovani cervelli.
La resa al capitalismo turistico
Venezia non è un caso isolato, da Barcellona, Parigi, Praga e Napoli, abbiamo venduto i centri storici alla rendita parassitaria del turismo mordi-e-fuggi. Mentre il Vietnam costruiva cluster high-tech, noi trasformavamo le capitali della filosofia in bed & breakfast a cielo aperto.
Quindi si giunge a una possibile conclusione, riprendersi l’Europa non significa firmare nuovi trattati, ma ritrovare la sua anima, che può rinascere solo come rivoluzione conservatrice.
Pace come progetto attivo, non neutralità velleitaria. Questo concetto, merita una profonda riflessione, e vale la pena esplorare il concetto di “Pace preventiva” proposto da Michelangelo Pistoletto, artista italiano di fama internazionale e candidato 2025 al Nobel per la Pace, con cui ho l’onore di collaborare in qualità di consulente artistico e culturale. Questa idea rappresenta una vera e propria rivoluzione copernicana nel pensiero politico contemporaneo. Sono attivamente impegnato in questo progetto che trasforma l’arte in uno strumento per la prevenzione dei conflitti. La “Pace preventiva” si basa sull’anticipazione piuttosto che sulla reazione. Ovvero non aspettare lo scoppio delle guerre per parlare di pace, ma creare “zone culturali franche” in aree a rischio e, soprattutto, promuovere l’arte, che è un bene di cui l’Europa è ricca – e l’Italia ne è la più ricca-, come un vaccino sociale. Ma perché l’Europa ha bisogno della Pace preventiva? A causa della memoria tradita: i nostri musei sono pieni di capolavori, ma abbiamo dimenticato che l’arte è uno strumento di convivenza. Esiste un’urgenza educativa: dobbiamo insegnare la creatività relazionale nelle scuole, ancor prima del corso di addestramento militare. Abbiamo bisogno di una nuova diplomazia che preveda l’invio di artisti insieme ai soldati nelle missioni di pace.
Industria come bene comune, non outsourcing selvaggio. È fondamentale riconsiderare il ruolo dell’industria nel tessuto sociale ed economico, non come mera fonte di profitto, ma come patrimonio collettivo che contribuisce al benessere della comunità. Questa visione promuoverebbe un’industrializzazione responsabile e sostenibile, che valorizza le risorse locali e tutela i lavoratori, opponendosi alla delocalizzazione indiscriminata che spesso trascura i diritti umani e l’ambiente. L’industria come bene comune è una chiamata all’azione per un’economia più equa e inclusiva, dove le decisioni produttive sono guidate non solo dall’efficienza economica, ma anche dal rispetto per le persone e per il pianeta. Limitare la nostra dipendenza dalle esportazioni intercontinentali potrebbe essere cruciale per riequilibrare l’economia. Un orientamento verso la produzione a filiera media e corta non solo potrebbe attenuare significativamente l’impronta ecologica, ma credo permetterebbe anche una ridefinizione delle politiche di economia sostenibile. Questa trasformazione potrebbe migliorare la stabilità economica interna, promuovendo un modello di sviluppo che valorizza le risorse e le capacità produttive locali, favorendo l’autonomia e un maggiore controllo delle dinamiche economiche. Potenziare le industrie interne e diversificare i mercati di esportazione potrebbe diventare quindi una strategia essenziale per un futuro economico più sicuro e rispettoso dell’ambiente.
E infine la cultura deve essere vista come un’infrastruttura vitale per l’Europa, non come un mero folklore da museo o un segmento dell’industria culturale. È fondamentale riconoscerne il ruolo come fondamento e collante del tessuto sociale ed economico europeo, non come una merce da commercializzare. Integrare attivamente la cultura nelle politiche di sviluppo del continente implicherebbe di promuoverla in tutte le sue forme, evitando di ridurla a un prodotto industriale. Investire nella cultura come bene comune e infrastruttura essenziale significherebbe sostenerla come un motore di innovazione e coesione sociale, essenziale per l’educazione continua e lo sviluppo di una società europea più informata, critica e coesa.
Trump ci ha svegliati di soprassalto. Ma il vero pericolo forse non sono solo i suoi dazi: è aver dimenticato che l’Europa – da Omero a Hegel – è sempre stata un’idea prima che un territorio. Un’idea che oggi rischia di morire, non per mano di Putin o dei populisti, ma per il suicidio di chi l’ha ridotta a un fantasma senza orgoglio e senza progetto.