GIAN STEFANO SPOTO
Luglio 2014, guerra di Gaza, parto per Gerusalemme, la racconterò come (unico) corrispondente Rai.
Testate, reti, mi chiedono, logicamente, centinaia di servizi, speciali, dirette sulla guerra. E solo dopo la tregua (la parola pace non è mai stata pronunciata in passato e difficilmente lo sarà in futuro) tento di proporre servizi sulla vita in Israele, in Palestina, a Gaza.
Non cercai nulla, bastò un po’ di attenzione per collegare me e la mia eccellente redazione con tanta, inimmaginabile umanità.
Giravamo servizi di cronaca, poi, a camere spente, ci raccontavano storie straordinarie, per reti e testate. Ma le vicende erano tante, e mi appassionarono al punti di indurmi a scrivere un libro, approfondendo quello che lo spazio televisivo non poteva contenere. La vita fuori dagli schemi conosciuti, le paure, le piccole gioie, i problemi che appaiono insolubili, e soprattutto vicende sussurrate e soffocate da quelle urlate.
Il titolo, “Deserto Bianco”, è ispirato alla neve surreale che, in pochi mesi, ricoprì due volte Gerusalemme e parte della Palestina. Ma produsse effetti molto diversi, a seconda di dove cadeva. Bambini felici, increduli e giocosi nelle zone ricche, bambini morti di freddo dove mancava l’elettricità.
Deserto Bianco racconta una stupefacente quotidianità, la vita e le regole-non regole dentro un quadrante del mondo in cui spesso si danno per scontati concetti confusi.
Uno psicologo palestinese e una psicologa israeliana svolgevano lo stesso lavoro, cercavano di far tornare un minimo di pace nel cuore di chi aveva subito tragedie familiari in seguito alla guerra. Al palestinese, mentre lavorava, annunciarono la distruzione di tutta la sua famiglia rimasta sotto le macerie della casa bombardata. E lui andò, assistette ai funerali e poi tornò a svolgere il proprio lavoro: sono convinto che la collega israeliana, se l’avesse conosciuto, gli sarebbe stata vicina. Ma c’era un muro, c’era una guerra.
Un avvocato di Gerusalemme, per il terrore degli attentati, iniziò a mandare su tre autobus diversi i tre figli che frequentavano la stessa scuola. E tanti lo imiteranno.
Una storia d’amore fra due ragazzi di famiglie palestinesi rivali, la vita nei kibbutz e nelle zone del Negev dove la gente trascorreva gran parte del tempo nei rifugi sotto terra. Mamme di soldati israeliani al fronte che vivevano giorno e notte su una poltrona circondate da televisori nel terrore di ricevere la notizia più tragica.
La morte e la vita, ma anche l’arte, la scienza che, durante le guerre, le sommosse, gli attentati, sembrano svilupparsi ancora di più che in tempo di pace.
Un terrorista si racconta alla mia telecamera come un servo di dio e della ragione, l’uomo più ricco di Palestina è un gentleman che ha ricostruito una villa palladiana in cui vive a pochi metri da Nablus, città spesso teatro di attentati e sommosse.
E ora che scoppia un’altra guerra, più cruenta, più terribile di quella che vissi nove anni fa, penso a quel papà che riuscì a salvare da un missile solo uno dei suoi figli, a un genietto che voleva far suonare insieme il mondo intero, alla donna che sconfisse i nazisti, alla violinista che suonava mentre la operavano alla testa, al bambino che non aveva nulla, ma mi offrì le sue noccioline
E mi chiedo perché, parlando di loro, dovrei passare attraverso il filtro dell’etnia.
E non solo da quello dell’umanità.
SEGNALIAMO