LAVORO, INTELLIGENZA ARTIFICIALE E SVILUPPO UMANO

I grandi cambiamenti in atto attraversano ogni aspetto della vita umana e stanno ridisegnando l’aspetto della stessa società. Dalla conoscenza, alle relazioni, dalla scienza alla convivenza, dalla creatività alla produzione, nulla resterà com’era.

Siamo in una piena Transizione.

Le trasformazioni in atto stanno trasformando non solo le mansioni, i lavori, le professioni, ma stanno producendo cambiamenti di fondo sul “senso” stesso del concetto di lavoro. Da oltre due secoli, infatti, il lavoro è diventato sinonimo di “lavoro salariato” ma, in realtà, questa forma del fare umano è stata “inventata” con la nascita della società industriale e della forma socioeconomica del Capitalismo. La storia del lavoro dovrebbe insegnarci che la stessa “natura” del lavoro dipende dalle condizioni sociali, politiche, economiche, tecnologiche e delle relative forme di “relazione sociale” che, ad esse, sono connesse.

La nascita del “lavoratore salariato”, del “proletariato”, dell’individuo sociale che aveva solo la sua “forza-lavoro” da “vendere sul mercato” in cambio di un po’ di denaro fu uno stravolgimento totale anche di quella condizione precaria e subalterna che era la condizione contadina e bracciantile. Un passaggio d’epoca che, però, fece parlare di un vero e proprio processo di estraniazione dalla propria capacitò di produzione autonoma della propria esistenza che fu chiamata da molti “alienazione” dalla propria vita. Il “lavoro salariato”, quindi, è un lavoro alienato dal quale “fuggire” anche quando è “riempito” di tutele e conquiste che ne hanno trasformato la sua forma più estrema.

È il Marx di Salario, Prezzo e Profitto che ci ricorda che, per quanto importante sia lavorare politicamente e socialmente per “aumentare la paga e ridurre l’orario”, la lotta del mondo del lavoro salariato sarà sempre quella del suo superamento della condizione salariata e subalterna, per “riprendere nelle proprie mani il proprio destino individuale”.

Il lavoro umano ha vissuto, nella sua storia, enormi cambiamenti. Dai tempi dei raccoglitori-cacciatori, al lavoro degli schiavi in Grecia, a Roma per passare ai servi medioevali e giungere fino al lavoro salariato dell’otto-novecento. L’organizzazione sociale intorno alle forme del lavoro si è plasmata in forme istituzionali e in vere e proprie concezioni di vita, nell’idea stessa del sé di intere generazioni.

Le evoluzioni da una forma ad un’altra hanno segnato dei passaggi d’epoca e, talvolta, sono stati segnati da salti nelle capacità del fare umano che derivavano dalle tecnologie e dalle conoscenze che si erano accumulate nella società. Questo è sicuramente il caso del passaggio dal lavoro servile di matrice medioevale al lavoro salariato della società industriale.

Il passaggio è rappresentato da una mutazione profonda degli oggetti usabili e necessari per produrre le “cose” necessarie. L’avvento della produzione industriale fu generato dalla capacità tecnologica di mutare natura agli oggetti usabili per la produzione. L’industria, infatti, nasce quando lo “strumento” (il manufatto usato dalla coppia “mano-cervello”) si trasforma in “macchina” (un artefatto capace di inglobare pezzi di “lavoro umano” al proprio interno e usare la ripetizione di tale capacità per aumentare a dismisura la capacità produttiva). Ancora oggi non è chiaro, socialmente, il significato profondo di tale passaggio. Si confonde spesso l’idea che si ha dello strumento con la realtà dei sistemi macchinici.
Troppi millenni si sono accumulati sulle spalle dell’umanità per modificare la visione che abbiamo delle stesse cose che creiamo per produrre il soddisfacimento dei nostri bisogni. Questo “ritardo” nel comprendere questo passaggio oscura i rapporti sociali che ad esso sono connessi e rende “oggettivo e naturale” ogni aumento della capacità di innovazione tecnologica, celando il senso profondo degli interessi sociali connessi che non sono mai “generali” o “generici” ma poggiano su interessi differenziati tra le classi sociali esistenti.

Dovremmo comprendere fino in fondo il significato del salto qualitativo di tale passaggio che poi è il passaggio che fa nascere le società industriali e che hanno nei rapporti sociali capitalistici la loro strutturazione. È qui, in questo angusto passaggio che si fonda l’antagonismo tra Capitale Lavoro. Certo, ci sono le dimensioni sociali di tale antagonismo, il “riverbero umano” del processo di sfruttamento e di annichilimento del lavoro umano nella macchina. Per dirla semplicemente, c’è chi ci guadagna (e molto) a far lavorare una macchina (con il lavoro umano necessario a farla funzionare), mentre c’è chi deve sottostare ai ritmi della macchina stessa (intesa come processo produttivo in generale e non solo per la “produzione industriale” nella linea di montaggio) e guadagna ciò che serve alla sua sussistenza (una sussistenza che deve corrispondere non alla propria soggettiva idea di vita ma alla quantità di consumo necessario al sostentamento del ciclo economico). Gli squilibri tra i vari soggetti si sono talmente accresciuti che un manipolo di persone nel mondo posseggono la stessa ricchezza di miliardi di persone e il processo di concentrazione non sembra arrestarsi.

L’antagonismo vero, in realtà, non è tra le “persone” ma insito nel “meccanismo” socioeconomico sottostante. L’incompatibilità tra i due “mondi”, tra il Capitale e il Lavoro, è racchiuso nelle due divergenti necessità del loro sviluppo, tra l’obbligatorietà del Capitale di aumentare i processi di automazione della macchina produttiva (per garantirsi l’aumento della riproduzione del capitale impiegato nell’investimento) e la conseguente riduzione progressiva dell’apporto di lavoro vivo nel processo produttivo. Capitale e Lavoro sono storicamente divergenti e lo sviluppo progressivo della potenza della tecnologia sta rendendo sempre più evidente tale divergenza storica e sociale.

Tale meccanismo di fondo fu mascherato, nei primi 15/20 decenni di società industriale, da un aumento spasmodico della produzione di nuove merci, molte delle quali, prima, non esistevano e non avevano creato, quindi, il corrispettivo “bisogno” da soddisfare. Si diceva: “il lavoro che si perde da una parte, genera nuovi lavori da un’altra”. Questa divergenza, infatti, fu mascherata da un aumento imperioso delle attività umane tale da oscurare le tendenze sociali sottostanti. Oggi sappiamo (in realtà lo sapevamo anche prima ma facevamo tutti finta di nulla) che il mondo, la Terra, non sono strutture infinite, esistono dei limiti all’aumento esponenziale delle attività umane.

Le materie hanno una disponibilità finita, i cicli di rinnovo delle acque, delle terre, della biosfera, hanno dei tempi che non sono “alterabili” e l’aumento della quantità dei beni utilizzati e della velocità con la quale li consumiamo, non consente il recupero necessario alla natura per rimanere in equilibrio.
Ogni anno ci diciamo che consumiamo più materie prime rinnovabili di quello che il pianeta ci mette a disposizione ma resta solo una delle tante “notizie” nei TG della sera oscurate, spesso, dall’importanza che diamo alla “mancata crescita economica”.

E talmente imperioso l’aumento della produzione di merci che ha generato quel collasso sistemico degli equilibri naturali e un consumo di materie prime non rinnovabili senza precedenti. Ma il bisogno del capitale di aumentare progressivamente e senza sosta la quantità delle merci non si è fermata né si accenna a fermarsi.

Non c’è dubbio che un salto in avanti gigantesco nella capacità produttiva si è concretizzato con l’avvento delle tecnologie digitali. Dagli anni ‘80, con l’introduzione delle prime “macchine a controllo numerico” (così venivano chiamati i primi rudimentali robot inseriti nelle linee produttive della produzione automobilistica), si è innescato un processo esponenziale di utilizzo di strumentazioni digitali di cui i computer rappresentano la forma più evidente. Pensare che solo 3 decenni fa, praticamente, non esistevano computer negli uffici, sembra un racconto di fantascienza.

Le società contemporanee hanno portato tale capacità a processi di automazione che hanno fatto parlare, negli anni, della possibilità di costruire quelle che sono state chiamate le “fabbriche buie”, luoghi di produzione che non avrebbero avuto più bisogno di un apporto di “lavoro vivo” per la creazione di merci.

Il precario equilibrio tra la capacità del sistema socioeconomico di produrre un progressivo aumento dei processi di automazione e la distribuzione sia del lavoro vivo rimanente sia di un livello adeguato di salari in grado di soddisfare l’offerta delle merci prodotte è stato il leitmotiv dell’intero ‘900. Ogni volta che si pensava fosse possibile ritrovare un equilibrio tra questi due fattori, attraverso la generazione della moneta necessaria al nuovo punto di incontro tra domanda e offerta (il famoso debito pubblico), nuovi squilibri emergevano dirompenti.

Il salto tecnologico legato all’introduzione delle tecnologie digitali, in atto da alcuni decenni, sta accelerando l’emersione di processi di disequilibrio, ogni volta in settori diversi ma in maniera progressiva. L’avvento delle Intelligenze Artificiali Generative dei modelli LLM rappresenta un nuovo e dirompente salto di qualità. Gli impatti si misurano sulle singole professioni, sulle scelte aziendali e sugli equilibri macroeconomici dei sistemi sociali a partire da quelli maggiormente industrializzati. Il passaggio che le nuove tecnologie ci mettono davanti agli occhi riguarda non la singola professione (e molti studi ci dicono che potrebbe impattare per oltre il 90% dei lavori oggi esistenti) ma gli aspetti sistemici legati al funzionamento delle nostre società democratiche.
Un aumento della capacità produttiva (i tecnici parlano di un incremento del 40% della produttività con le Intelligenze Artificiali Generative) non solo aumenterebbe il consumo energetico e di materie prime, aumentando i problemi legati agli impatti ambientali globali dell’agire umano ma porrebbe il tema di una rapida diminuzione dell’occupazione con conseguente riduzione delle coperture fiscali che consentono la sostenibilità del welfare state. Questo processo, già in atto, comporterebbe una totale “disaffezione” verso il sistema istituzionale democratico e delle forti spinte verso una trasformazione dei sistemi parlamentari verso sistemi “con un uomo solo al comando”.

Non è un caso che, per la prima volta, anche i vertici delle aziende che sviluppano tali tecnologie invocano (più o meno in modo strumentale) “regole dall’alto”, che i vertici politici delle grandi nazioni si mobilitano per produrre “regolamentazioni preventive” e che le grandi religioni monoteiste del pianeta firmano impegni per le forme di sviluppo e di utilizzo di tecnologie.

Siamo, probabilmente, ad un punto di svolta della storia umana mai sperimentato.

Le implicazioni delle Intelligenze Artificiali Generative non tralasciano nulla. Dalla produzione, alle relazioni, dalla privacy alle forme di conoscenza per arrivare alle stesse strutture della scienza. Il rapporto tra il fare umano, la sua produzione, la redistribuzione sociale della ricchezza prodotta attraverso tali processi e le mutazioni a vari livelli che producono forme di automazione legate al linguaggio, sono giunte ad un livello capace di riscrivere l’intera forma delle nostre società. Ancora una volta, a nostro avviso, tale passaggio è generato dalla mutazione della capacità e della natura del lavoro.

Queste potenzialità aprono a nuove possibilità non solo del fare ma obbligano ad un passaggio di paradigma nella produzione, nella logica e nei rapporti sociali connessi. Se il lavoro salariato, dopo due secoli, incrina il proprio modello di distribuzione della ricchezza ciò comporta che i rapporti di produzione esistenti devono lasciare il posto a nuove economie. Oggi si dischiude la possibilità di fermare il processo di mercificazione del mondo e di imboccare la strada di una economia del valore d’uso. Una nuova forma sociale che necessita di una nuova politica, di istituzioni diverse e più avanzate che respingano i processi di centralizzazione, di concentrazione del comando e distribuiscano, decentrino le forme del potere. La Transizione in atto, se non avrà questo segno, rischia di far implodere la stessa civiltà raggiunta.

Serve, oggi, una capacità di rimettere in chiaro quali siano le finalità dell’umano, verso quali orizzonti vuole muoversi e per quale idea di sé stessi e della casa comune che l’umano condivide con tutte le forme viventi.


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