Non confondiamo le sbandate con i problemi essenziali. In questo mondo in subbuglio e in questa calda estate piena di sorprese il rischio di prendere una sbandata all’alba di ogni giorno incombe su ognuno di noi, esperti o dilettanti di cose politiche. Da tener presente che la preparazione culturale e la propensione personale di fondo, ottimista o pessimista, tendenzialmente utopica o distopica, fanno la differenza di orientamento ma non la protezione dal pericolo di sbandata, entusiasmo senza riflessione.
Intendo infatti per sbandata le nozze da improvviso innamoramento con chi propone o fa intuire soluzioni facili per problemi per quanto importanti pur sempre settoriali, difficili o incombenti o con drammi in atto, che si tratti di provinciali vicende italiane o di complesse questioni internazionali non fa alcuna differenza. Insomma, l’atteggiamento del tifoso che apprezza e difende il suo idolo o la sua squadra qualunque cosa dica, pensi o faccia, appare l’atteggiamento normale e vincente, per la voglia di esserci comunque, per la fretta, per l’irresistibile attrattività dei social o per la debolezza ormai cronica del pensiero. Però appare soltanto, perché mentre sfugge al bagno di realtà fa anche sfuggire la percezione di ciò che realmente conta.
Accade dunque che ci si entusiasmi senza andare troppo per il sottile per l’autonomia differenziata o per il referendum abrogativo del sindacato a trazione Landini e del campo largo, per la conferma dei domiciliari a Toti o per la richiesta delle sue dimissioni da parte del quadrunvirato Schlein-Conte-Bonelli-Fratoianni, perfino per l’ultima piroetta di Renzi per far diventare larghissimo il campo già largo o, ancora, per la ricostituzione di un partito dei cattolici sotto lo stimolo o addirittura la guida, più che di Francesco Rutelli, direttamente (sic!) del cardinale Matteo Zuppi.
Senza dimenticare poi gli entusiasmi cangianti per la grande catena dei temi internazionali, degli accadimenti che ne segnano l’interesse e dei personaggi che ne sono protagonisti: Trump, Biden e Kamala Harris, o Mélenchon, Bardella, Ursula von der Leyen, e naturalmente il neo arrivato Keir Starmer. Naturalmente tutto va bene, sbandata o sbandatella, purché non duri, questa la regola. Le sbandate più grosse sono sempre riservate a chi crede che l’erba voglio possa crescere non solo nel giardino del re ma anche nel giardino di casa. In questo i maggiori fornitori di semi sono i predicatori di “pace subito”, i cercatori dell’“arca perduta” e i “giustizieri della motte”.
A livello locale ci sono, è naturale, anche altre variabili, spesso succose, altre volte deprimenti. Ce n’è dunque per tutti i gusti. Il vantaggio è che vengono superate di slancio le gabbie ideologiche. Lo svantaggio (ma dovremmo aver imparato che ogni cosa ha almeno due facce) è la scomparsa della differenza tra verità e apparenza, di più: tra verità e menzogna. Ma che importa, è forse questo un tema da chat?
Ecco, insisto, in questo mondo in subbuglio e in questa calda estate molte sono le occasioni in cui all’alba di ogni giorno si presenta almeno un’occasione di sbandata. Chi non sbanda certo non è un eroe. Semmai al massimo può essere, a seconda dei casi, mosca bianca o bestia nera. Comunque c’è anche chi non sbanda. Non sbanda ad esempio chi vede nel caso Toti la metafora della crisi della cultura garantista della sinistra e più in generale della classe dirigente italiana. Non sbanda chi non condivide la “calderolata” dell’autonomia differenziata ma non vede nel referendum abrogativo parziale o totale una soluzione, perché sa che la soluzione deve essere ben più ambiziosa e coraggiosa, per esempio un macroregionalismo funzionale nel quadro di un’Europa federale delle macroregioni. Troppo? Forse, ma senza sogno si dorme e basta.
Non sbanda chi, convinto che contrastare gli estremismi sia compito essenziale ma non sufficiente e che per l’Italia serva non più la politica politicata (che stanchezza!) ma la “politica della visione o della grande riforma”, smette di affidare i destini della cultura riformatrice ai giochi di Renzi e non cade nella trappola autolesionista dei poli sbriciolati capaci provvisoriamente di stare insieme per vincere ma non per governare.
E così fa emergere il problema politico essenziale, che è chiedersi chi, con chi e come, si pone l’obiettivo di assumere come orientamento ideale e programmatico il “Discorso del Ventaglio” del Presidente Mattarella, quanto mai forte ed esplicito sulle questioni di fondo che una politica responsabile oggi deve con urgenza saper affrontare per garantire il futuro al nostro Paese. Ne coglierei l’essenza con la definizione di “Riformismo funzionale in un’epoca di transizione”. Questo il problema politico essenziale, interno ma di portata generale.
Non sbanda poi, ed è l’ultimo esempio, chi, pur consapevole dei limiti delle democrazie liberali e dell’affanno del complesso sistema occidentale nel fronteggiare l’aggressività delle autocrazie neoimperiali, non cede di un millimetro allo sconforto e alla rinuncia e prende decisa posizione rispetto alla battaglia che contrappone i due campi, quello liberale e quello illiberale, in una competizione dal cui esito sappiamo che dipenderà il destino di tutti noi, dei nostri principi ispiratori, dei nostri sistemi di vita, del nostro stesso senso di stare al mondo.
Che lo si voglia o no, da una parte c’è l’Occidente (anche se assunto come finzione) con tutte le sue pecche, i suoi limiti, i suoi errori e perfino le sue nefandezze, ma con il patrimonio di principi e regole faticosamente conquistate, che consentono libero confronto, e perciò correzioni e autocorrezioni. Dall’altra autocrazie e dittature che si costituiscono in catene di aggressione neoimperiale (alleanza Cina-Russia-Iran + + +) e attacchi all’Occidente contemporaneamente nei punti strategici: l’Europa, il Medio Oriente, il Pacifico.
La cultura democratica, e soprattutto quella variante che si è soliti indicare come liberaldemocratica, è messa perciò oggi alla sua più dura prova proprio perché in questo scenario è chiamata, essa soprattutto, a contrastare i tentativi di minare dall’interno le democrazie liberali. La battaglia culturale e politica di europeisti contro antieuropeisti precede tutte le altre. Ma ancor prima c’è quella a difesa dell’Occidente contro i disegni neoimperiali dei regimi autocratici e di teocrazia laica o religiosa dell’Oriente vicino e lontano.
Questo il problema politico essenziale esterno ma strettamente congiunto con quello interno fino a confondersi con esso. Anche su questo il Presidente Mattarella è stato chiarissimo: difende la democrazia e la pace non chi, definendosi pacifista perché non vuole dare le armi all’Ucraina, di fatto consegna quella nazione e quel popolo martoriato al suo persecutore Vladimir Putin, ma chi, difendendo l’Ucraina, di fatto difende contemporaneamente un popolo aggredito, l’Europa, la pace e il diritto dei popoli. Basta barare!
Le priorità sono cambiate, bisogna prenderne atto. E qui non si può sbandare. Dall’Europa è venuto un segnale importante, ma ancor più importante è quello venuto dagli USA, con il ritiro di Joe Biden dalla corsa alla presidenza e la candidatura ormai certa di Kamala Harris, che ha riaperto la corsa alla Casa bianca dimostrando quanto e come la democrazia americana, in crisi e in difficoltà, sia però capace di reagire e riacquistare vitalità con scelte individuali e collettive di rara forza e coraggio.
Le vicende del mondo ci dicono allora che l’imprevisto o l’imprevedibile è dietro l’angolo e che bisogna essere pronti ad affrontare le novità e ad orientarsi negli scenari che mutano. Ma ci dice anche che proprio per questo le sbandate non sono tutte uguali: alcune appartengono all’ordinarietà della dialettica politica, altre non ce le possiamo proprio permettere.
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