Democrazia futura apre un Focus di approfondimento su quelle che a nostro parere rimangono “verità ancora da svelare sulla strage alla stazione di Bologna 43 anni dopo”.
Il dossier contiene critiche molto precise nei confronti delle motivazioni dell’ultima Sentenza processuale emessa nell’aprile 2023 e verso una verità processuale che sarebbe stata fortemente condizionata dai desiderata dell’Associazione dei parenti delle vittime e dal suo Presidente Paolo Bolognesi.
La rivista sarà naturalmente disponibile ad aprire le proprie colonne a pareri in dissenso con le tesi qui espresse da Lorenza Cavallo, Vladimiro Satta e Salvatore Sechi, convinta della necessità di proseguire l’analisi dei documenti secretati sulla materia ma anche di acquisire nuove testimonianze da alcuni sopravvissuti, il tutto senza entrare in polemiche politiche sterili come quelle prodottesi sui giornali nel corso dell’estate dopo l’anniversario della strage.
Introduzione al Focus di approfondimento
Salvatore Sechi
Docente universitario di storia contemporanea
1.Sulla strage di Bologna ha prevalso una (brutta) verità politica
La sentenza con la quale il Tribunale di Bologna, in diversi gradi e con diversi imputati, ha condannato come autori della strage del 2 agosto 1980 un gruppo di killer (confessi) neo-fascisti non è espressione dell’antifascismo.
Questo è il belletto con cui la vorrebbero incipriare giudici giornalisti orgogliosamente conformisti associazioni dei parenti delle vittime.
La cultura politica dell’antifascismo quando non si ispira al diritto penale sovietico e nazista, ha carattere liberale. Il suo principio si fonda sulla prevalenza della verità storica rispetto a quella politica. Non importa se l’avversario (definito “nemico”) sia di destra o di sinistra, ideologicamente vicino o lontano.
Per l’antifascismo non si può prescindere dall’esigenza fondamentale che per condannare ci siano delle prove, e che queste non siano idee diverse ed opposte.
E’ proprio questa distanza, per non dire avversione, che si può leggere nelle motivazioni (semplicemente allucinanti e da un punto di vista storiografico indecenti) delle condanne emesse.
Per la prima volta nella storia della nostra repubblica si dice, anzi si scrive, che a fare saltare la sala d’aspetto della stazione ferroviaria di Bologna il 2 agosto 1980 siano state persone che si rifacevano alle nostre alleanze militari (la Nato) e al sistema delle nostre alleanze politiche (il patto atlantico).
Si tratta delle scelte di politica internazionale che dal 1945 ad oggi hanno garantito, anche se non perfettamente, le nostre libertà, la nostra vita quotidiana segnando una differenza invalicabile col mondo del comunismo sovietico e di altri dispotismi. Vi si parla di un “grande disegno stragista atlantico” alimentato dal terrorismo nero e “rosso” (tra virgolette nella sentenza).
Dunque, il principio di legalità, da oggi in poi, come nella Germania nazista e nell’Urss staliniana, si fonda nel trovare, come che sia, un avversario bollandolo come nemico.
L’Italia presentata dai giudici come terreno di sperimentazione di una cospirazione globale guidata dall’alleanza atlantica
Sulla base di questo approccio l’Italia è descritta dai giudici di Bologna come il capolavoro del cosiddetto atlantismo. Si intende, cioè, dire che al posto degli elettori (sempre ostili, con un libero voto espresso e confermato in circa settanta anni, a questa soluzione) gli Stati Uniti e gli alleati occidentali avrebbero impedito “l’accesso dei comunisti al potere”.
Per accreditare questo becera falsità, i giudici hanno perlustrato una saggistica, e convocato come testimoni, tutti i giornalisti e i giudici in pensione che nei loro scritti hanno evocato categorie magico-esplicative come “golpe”, “stragismo atlantico”, “sovranità limitata”, “Yalta”, “guerra rivoluzionaria”, Gladio eccetera.
Pertanto l’Italia, a leggere la prosa dei giudici di Bologna, è diventata, il terreno di sperimentazione di una cospirazione globale guidata dall’alleanza atlantica.
Questo non è un linguaggio giuridico, ma un linguaggio politico, anzi di un partito di estrema sinistra, quello con cui questa sentenza è stata redatta.
Di storiografico ha solo la vernice con cui si racconta un misterioso e interamente infondato complotto contro il nostro Paese. Di probatorio, come prescrivono le regole dello Stato di diritto, queste opinioni non hanno niente.
Da oggi, se questa sentenza farà giurisprudenza, ognuno di noi è in pericolo, ognuno di noi è meno libero. Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, non farebbe male a stimolare l’attenzione del Consiglio Superiore della Magistratura su questo episodio inquietante di una corte di giustizia che alla verità storica preferisca una verità politica, neanche di grande rango.
Santa Teresa di Gallura, 1° agosto 2023
2.Gli Stati Uniti e la Nato non c’entrano niente
La mancata condivisione della sentenza sulla strage di Bologna del 2 agosto 1980 non deve indurre a pensare che i giudici non si siano attivamente impegnati nelle motivazioni. Hanno perlustrato altri processi, i lavori delle diverse commissioni parlamentari d’inchiesta, gli archivi dei servizi segreti e una selezione (altamente opinabile) della saggistica.
Con una certa spudoratezza hanno considerato opere scientifiche quelle di giornalisti, magistrati e sconosciuti avvocati afferenti all’associazione dei parenti delle vittime. C’è da recarne scandalo?
Avendo fatto proprie in una misura inconcepibile le richieste, le proposte e le narrazioni di quest’ultima (che era una parte in causa) nel motivare le conclusioni giudiziarie, coerentemente hanno nobilitato operette da storiografia cominternista (in stile putiniano) e da giornalismo di partito (o se si preferisce di setta) come eccellenze o apporti apicali.
Ovviamente le ragioni della ricerca di esecutori e mandanti e gli interessi al risarcimento dei parenti delle vittime, se la si intende come compensazione delle sofferenze inenarrabili subite, non saranno mai adeguate. Ma dai magistrati si pretende che la loro verità non sia una verità politica, e non sia possibilmente diversa dalla verità storica.
Pertanto altamente controvertibili sono gli argomenti addotti e i modi con cui sono stati fatti valere. Bisogna, però, dire che probabilmente la responsabilità maggiore risiede nella subcultura con cui i media hanno seguito il processo.
Orientare l’opinione pubblica, non informarla
Si è vista all’opera una leva di giornalisti, non solo locali ma anche nazionali, che ha avuto come stella polare non quella di informare, ma quella di orientare l’opinione pubblica.
Lo hanno fatto in questi quaranta anni, e continuano a farlo oggi, schierandosi sempre ed esclusivamente dalla parte dei difensori legali delle vittime, qualunque siano i loro argomenti.
Dalla più scollacciata (La Repubblica e Il Fatto Quotidiano) alla più sobria (Il Corriere del la Sera e La Stampa) si è tenuto l’atteggiamento seguente: dare il massimo rilievo a quanto diceva l’avvocato Paolo Bolognesi in quanto espressione dell’antifascismo unito e tacere o citare ogni morte di papa chi (come Gian Paolo Pelizzaro, Gabriele Paradisi, Andrea Colombo, Stelio Marchese, Luigi Cavall,o Mauro Del Bue, Fabrizio Cicchitto, Luigi Manconi, e altri) sosteneva tesi diverse in quanto rubricate come argomentazioni di fascisti o di loro amici in quanto anticomunisti.
La faziosità presupposta di direttori di quotidiani è di esecrare come antidemocratici, nemici del popolo eccetera, non intervistandoli o non dando spazio alle loro analisi, quanti hanno prospettato interpretazioni diverse dell’orrenda carneficina del 2 agosto 1980 nella stazione di Bologna.
Fontana, Molinari, Travaglio e Giannini fanno finta di non leggere le menzogne più oscene che rischiano di fare giurisprudenza.
Al fondo nella strage di Bologna ci sarebbe stato il disegno politico, i soldi e le armi degli Stati Uniti e della Nato. In altre parole lo stragismo che ha tenuto unita la mafia e il terrorismo nero era volto a impedire l’accesso al governo del Pci.
Non si chiedono che senso (a parte le piacevolezze del libero sbracarsi da bar) abbia questo argomento-accusa. Esso è l’asse portante delle motivazioni dei giudici bolognesi. Si sarebbe fatta saltare la stazione di Bologna, massacrandone la popolazione in attesa di prendere un treno per le vacanze, al fine di determinare una reazione popolare e dare vita ad un governo militare alleato ai fascisti in grado di garantire l’ordine.
Dunque, i nostri principali alleati avrebbero trescato con settori golpisti dei servizi e delle forze armate, in combutta con la massoneria deviata di Licio Gelli e avvalendosi delle risorse finanziarie di una banca in liquidazione come l’Ambrosiano, per far intendere ai comunisti che la ricreazione era finita?
Ai magistrati (ai quali si deve ogni merito per l’intenso e improbo lavoro svolto) non mi pare sia venuto il dubbio che non avesse il minimo senso questo rovistare la storia d’Italia con in mente il cruccio che a Washington i comunisti non erano amati. Non hanno tenuto presente un piccolo dato statistico: il Pci non ha mai ottenuto la maggioranza dei voti per governare. Detto diversamente, l’elettorato italiano non ha mai mostrato interesse a munire i comunisti del consenso perché conquistassero Camera e Senato, e ricevessero dal capo dello Stato l’incarico a formare un governo, da soli o di coalizione.
Dunque non c’era nessun bisogno che la Cia, il Pentagono, i marines, le centrali atomiche eccetera degli Stati Uniti e dei Paesi aderenti alla Nato si mobilitassero.
I comunisti italiani non sono mai piaciuti alla maggioranza degli italiani. Essi sono, a modo loro, antifascisti, ma sono anche (fortunatamente) anti-comunisti.
Ernesto Galli della Loggia ha spiegato questo stato di cose sul Corriere della Sera e un liberalsocialista come Mauro Del Bue ha più ampiamente argomentato su La Giustizia.
Galli della Loggia è stato oggetto insulti e di ignobili reazioni viscerali da parte di Fausto Anderlini e del suo blog. Vi trovano una rassicurante siesta quanti a Bologna e in Emilia Romagna non si sono ancora resi conto che il comunismo è stato, sempre e ovunque, un fallimento, ha dato vita a regimi nemici degli operai e dei contadini.
Da Lenin in poi hanno provveduto sistematicamente a sterminarli. In Russia come in Ucraina.
C’è da stupirsi se la storiografia da tempo si è chiesta se tra comunismo e fascismo ci siano, dal punto di vista dei diritti, cioè delle libertà dei cittadini, grandi differenze?
Uno dei fondatori del Pci, Antonio Gramsci, dall’inizio degli anni Trenta cessa di chiamare l’Unione sovietica “Stato operaio” e la descrive come un esempio di neo-bonapartismo. Ma da Togliatti a Berlinguer hanno aspettato la caduta del muro di Berlino per rendersene conto.
Gramsci, sulla base dell’esperienza storica dell’Unione Sovietica, morirà avendo gettato le basi di un anticomunismo, inteso come una domanda del popolo di sinistra.
3. Una sentenza senza le carte del Sismi da luglio a novembre 1980
Magistrati e quanti esercitano funzioni pubbliche sono tutti tenuti a rispettare le sentenze emesse dai tribunali della repubblica, compresa quella sulla strage terroristica del 2 agosto 1980 presso la stazione di Bologna.
Studiosi e ricercatori possono discuterla e anche non condividerla. Nelle sedi e nelle sfere di loro competenza e responsabilità godono della libertà e dell’indipendenza che la costituzione, fin quando l’Italia resta un regime liberaldemocratico, ha riconosciuto a chi svolge attività di ricerca.
E’ importante che la verità giudiziaria non si discosti dalla verità storica.
Giudici e ricercatori debbono poter marciare uniti per fronteggiare l’incombente (e fino ad oggi vittorio sa) verità politica. Lo stesso interesse non si vede perché non debba averlo l’associazione dei parenti delle vittime.
Nel processo di cui sto parlando ha avuto un ruolo preponderante rispetto ad altri parti, e alla fine decisivo. La narrazione storico – politica di cui i giudici hanno ampiamente intessuto le motivazioni della sentenza è per lo più modellata sulle analisi di questo organo privato di cittadini colpiti negli affetti. Nessun risarcimento potrà farne scemare l’inaudita sofferenza.
Dall’impostazione del processo e dall’esito finale sulla strage del 2 agosto a dissentire sono stati diversi giornalisti, saggisti e storici. Provo a citarli precisando che non solo lavorano in autonomia l’uno dall’altro, ma non sono rubricabili come membri di una sorta di collettivo di storici: Lorenza Cavallo, Valerio Cutonilli, Luigi Manconi, Gabriele Paradisi, Gian Paolo Pelizzaro, Paolo Persichetti, Rosario Priore, Andrea Romano, Vladimiro Satta, Vincenzo Vinciguerra, eccetera.
Non hanno taciuto differenze, anche molto sensibili, di opinioni e di valutazione sia delle indagini sia sull’approccio storiografico.
Agli inquirenti non ne è mai importato nulla.
Chi studia e scrive fa parte di un microcosmo della cui esistenza i giudici togati, salvo qualche eccezione, non si accorgono, anche se hanno in comune di avvalersi degli stessi metodi e fonti.
Penso che tutti abbiano cercato di rendere pubbliche le proprie opinioni, salvo renderai conto che i giornalini e i giornaloni (da Il Fatto Quotidiano a La Stampa e da Il Corriere della Sera e a La Repubblica) hanno preferito assegnarsi un ruolo di spettatori plaudenti, a volte mesto o solo semplicemente ipocrita. Non diversamente dalla stampa di destra che, però, non vedeva l’ora di porre fine al rito funebre, cioè di liberarsi del disagio di avere avuto più di un legame con gli imputati condannati a Bologna.
Il processo ha avuto fin dall’inizio un andamento e un’evoluzione finale in cui la mole degli indizi non ha mai lasciato scaturire la pistola fumante di prove indiscutibili. Ciò vale per chi ha privilegiato la pista neo-fascista come per chi ha indicato l’eventuale responsabilità di libici e palestinesi.
Il dibattito tra gli esponenti dell’una e dell’altra tesi invece di essere di carattere reciprocamente esecratorio dovrebbe essere volto a capire anzitutto se la documentazione di cui i gli inquirenti si sono avvalsi è completa, esaustiva.
Espongo di seguito qualche dubbio nella speranza che sia meritevole di qualche considerazione.
Nella grande quantità di carte del Sismi (il nostro servizio segreto militare) desecretate per il venir meno o l’accorciarsi (come ha deciso saggiamente la premier Giorgia Meloni) dei vincoli temporali del segreto di Stato si può rilevare un vuoto rilevante: dal 2 luglio al 23 settembre 1980.
Questo squarcio è altamente significativo.
Concerne un periodo drammatico, il peggiore del Novecento italiano, in cui hanno avuto luogo episodi gravissimi. Avrebbero potuto incrinare la stessa tenuta del regime repubblicano.
Mi riferisco all’inabissamento-con un’ecatombe di morti – nel mare di Ustica – del DC 9 partito da Bologna e diretto a Palermo; all’azione dell’Italia (tramite il sottosegretario agli Esteri Giuseppe Zamberletti) per riscattare Malta strappandola al controllo avvolgente, di tipo imperiale, della Libia; alla crisi della Fiat salvata dall’immissione di cospicue risorse operata dal Colonnello Gheddafi; alle allucinanti stragi di Bologna e di Brescia, fino al novembre 1979 con l’incrinarsi – mediante minacce, purtroppo andate a segno, da parte di George Habbash volte a colpire vittime innocenti, cioè la stessa popolazione civile – dei rapporti col terrorismo del FPLP (una cellula dell’Olp di Arafat), da parte dei nostri servizi segreti (Sismi) e dello stesso governo.
Su questo periodo infernale disponiamo purtroppo di una documentazione parziale, inadeguata. Intendo dire che le carte disponibili sono vistosamente insufficienti a produrre – a parte proclami, collegamenti spericolati e irrefrenabili fantasie – pronunciamenti giudiziari che non siano folate di indizi e sacchi di dossier trasbordanti di congetture.
Anche grazie alla disorganicità con cui è stata gestita, una studiosa indipendente come la Dott.sa Giordana Terracina in questo agosto 2023 ha potuto rilevare su Start Magazine quanto segue: cioè che
“oggi in ACS (Archivio Centrale dello Stato) non ci sono documenti sull’attività del Sismi tra il 2 luglio e il 23 settembre 1980, accomunati dal fatto di essere stati coperti dal segreto di Stato fino al 28 agosto 2014 e custoditi fuori dall’ACS, dove probabilmente il resto dei fascicoli è rimasto”.
Chi è responsabile della selezione dei documenti che sono stati in così malo modo versati?
E’ opera della totale autonomia nella gestione, selezione e conservazione della documentazione di cui hanno fruito, e si sono avvalsi, non saprei dire quanti ministeri (Interni, Difesa, Esteri, Giustizia eccetera) di concerto col Comando generale dei Carabinieri.
Hanno voluto fare di testa loro, grazie all’incapacità della politica di esercitare una guida e un controllo. Pertanto hanno proceduto a delle de-classifiche per nulla concordate.
Con chi, domine Dio, se non con le istituzioni che hanno una competenza specifica, come la Commissione di sorveglianza sugli archivi e la Direzione generale degli archivi che normalmente ha titolo per approvarle.
Giordana Terracina ne trae l’unica conclusione possibile:
“Nella declassifica gli Archivi di Stato, non sono entrati in nessun modo nell’individuazione della documentazione oggetto delle Direttive (dei governi Renzi, Draghi e Meloni). Di conseguenza, non avendo accesso diretto ai titolari, ai repertori dei fascicoli e ai registri di protocollo, oggi è impossibile verificare l’integrità delle unità archivistiche”.
Dunque, i magistrati – e gli stessi ricercatori soi-disant reclutati dalle parti in causa nei processi -hanno lavorato, prendendoli per buoni (cioè convincenti), su materiali non integri, parziali.
Che cosa cambia, e accade, con la legge 124/07 – che riforma la precedente 801/77 – varata dal governo Prodi?
Diciamo in estrema sintesi le seguenti cose: muoiono SISDE e SISMI e prendono vita al loro posto, per assicurare il sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica, AISE (per i servizi esterni)e AISI (per quelli interni) posti sotto l’alta Direzione del Presidente del Consiglio (il DIS), che nel 2007 era Romano Prodi; le 195 informative entrano a far parte di un unico elenco; le agenzie di sicurezza versano le proprie carte direttamente all’Archivio Centrale dello Stato; viene preservata l’integrità del fascicolo con l’obbligo della conservazione permanente della documentazione dei Servizi e l’obbligo di renderla consultabile, presso l’ACS, ai ricercatori di storia.
Che cosa farne derivare per le vicende prima descritte del nostro paese?
La Terracina è esplicita:
“In questo quadro dai contorni così sfumati, di fronte all’evidenza di una difficile (se non impossibile…) certezza circa il contenuto dei faldoni e i ruoli dei protagonisti, bisogna chiedersi come sia possibile proclamare con assoluta certezza che nelle carte non c’è nulla da scoprire”.
Si possono fare i nomi dei magistrati e degli avvocati che hanno ripetutamente fatto ascoltare questo vecchio refrain. Mi pare preferibile insistere chiedendo quel che la sentenza della Corte di Bologna non ha ancora spiegato: perché il generale Carlo Alberto Della Chiesa, occupandosi del terrorismo internazionale e del traffico di armi, si era intestardito a seguire ogni passo di Abu Saleh Anzeh, cioè un esponente delle cellule armate del FPLP che abitava Bologna, era legato a Carlos e al colonnello Stefano Giovannone?
Gli studiosi del caso Moro immagino vorranno sapere, e capire, di più sul manoscritto trovato addosso al brigatista rosso Giovanni Senzani al suo arresto. Al pari della Dott.sa Terracina, vorranno chiedere ai giudici di spiegare il significato di quel che si leggeva in tale appunto, cioè che Arafat, leader indiscusso dell’OLP, riferendosi «agli ultimi attentati gravi in Europa (Sinagoga, Bologna e Trieste)», aveva detto che andavano letti in chiave internazionale, come tentativo dell’URSS «di far saltare questa politica europea».
Tutti, invece, si chiedono che cosa contengano le informative sul rapporto SISMI-OLP inviate a Roma dal colonnello Stefano Giovannone riguardanti la strage del 2 agosto 1980 a Bologna. Poiché le carte relative non ci sono (ancora) pervenute, dobbiamo davvero dedurne che non ha senso discutere della pista palestinese e del “lodo Moro”, cioè dei rapporti dell’Italia col terrorismo e il traffico di armi di cui per molti anni il nostro paese è stato teatro?
Non posso credere che i magistrati di Bologna non sentano stringente la responsabilità di indagare ancora, e che il capo dello Stato Sergio Mattarella non intenda sollecitarli in qualche modo a riaprirle.
Non si deve avere timore, se si è di cultura liberale e non fascista o comunista, di riformare eventualmente una sentenza fondata su troppi indizi e poche prove a carico di una manica di killer fascisti (rei confessi spesso) dediti alla più efferata e ripugnante criminalità politica.
Un quadro giudiziario ancora in movimento 43 anni dopo la strage
“Processo-mandanti”: la storia non si fa con le bolle
Vladimiro Satta
Storico contemporaneista e documentarista del Servizio Studi del Senato della Repubblica
Attualmente (estate 2023) il quadro delle conoscenze sulla strage alla stazione ferroviaria di Bologna del 2 agosto 1980 è in movimento, sia sotto il profilo giudiziario che sotto il profilo storico.
A livello giudiziario sono in corso due distinti procedimenti giunti entrambi alle soglie della fase di secondo grado:
l’uno contro il neofascista Gilberto Cavallini il quale trascorse insieme ai condannati Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini le giornate tra fine luglio e primi di agosto del 1980,
l’altro formalmente contro il vivente Paolo Bellini, all’epoca dei fatti giovane latitante sotto falsa identità e asseritamente in stazione a Bologna la mattina della strage, ma sostanzialmente mirato contro i suoi presunti mandanti.
A livello di ricostruzione storica, intanto, ci sono sviluppi in due direzioni diverse:
l’una portata avanti in tribunale, la quale inserisce la strage del 2 agosto 1980 nel contesto della cosiddetta “strategia della tensione” e assegna un ruolo da principale protagonista al capo della loggia massonica P2, Licio Gelli,
l’altra invece orientata verso la crisi del “lodo Moro” iniziata nell’autunno 1979 e verso le conseguenti minacce indirizzate dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) contro l’Italia nei mesi del 1980 che precedettero l’eccidio, suggerita da evidenze che finora hanno trovato poco o nullo spazio in sede processuale.
Essendo impossibile esaminare in maniera approfondita nello spazio di un articolo l’insieme delle questioni aperte -e rimandando il tentativo a future occasioni- qui mi limiterò a scrivere del singolare rapporto tra inchiesta giudiziaria e ricerca storica che si va delineando a Bologna.
Come si può immaginare, in quest’ottica fisserò l’attenzione soprattutto sul “processo-mandanti”, che più del processo Cavallini si richiama alla storia, senza peraltro perdere di vista quest’ultimo.
Adotto la denominazione “processo-mandanti” anziché “processo Bellini” non soltanto perché la prima è diventata presto di uso comune, ma anche perché è la sentenza di primo grado, redatta dai giudici Cenni e Caruso, ad affermare la priorità della ricerca dei mandanti: senza
Gelli, Ortolani, D’Amato, Tedeschi come mandanti-organizzatori-finanziatori dell’azione specificamente contestata al Bellini e agli altri imputati e condannati (…) la strage, alla cui esecuzione Bellini ha partecipato, non ci sarebbe stata o non si sarebbe realizzata nei tempi, nei modi e nei luoghi in cui ebbe effettivamente corso; diventa quindi essenziale ricostruire il contesto in cui l’imputato ha agito e cosa emerge a carico dei “mandanti”
si legge a pagina 97.
Addirittura, ne va della solidità di tutto l’impianto accusatorio in base al quale nel corso del tempo, a partire da metà anni Novanta, sono stati condannati con sentenza definitiva i neofascisti dei NAR Fioravanti, Mambro e Ciavardini nonché in primo grado Cavallini, perché il loro movente finora è apparso estremamente debole. Sebbene “molti osservatori (…) si acquiet[i]no all’idea dell’assenza di certezza sui mandanti e sul movente, dell’inspiegabilità della strage in un panorama internazionale nel 1980 diverso da quello del 1969 e del 1974” e ci si rifugi nella tesi della
“azione autoreferenziale: il terrorismo indiscriminato come forma di propaganda e di mobilitazione (…) Anche questo movente non [è] convincente, al limite [dello] irrazionalismo puro”1
Il “processo-mandanti”, in fondo, nasce da qui: è “comprensibile” che
“anzitutto le vittime e le loro associazioni ma anche espressioni di società civile, operatori dell’informazione, studiosi e ricercatori in questi quaranta anni si siano fatti carico di indagini e ricerche private, portandole poi al vaglio dell’unica istanza tenuta a dare risposte convincenti e soddisfacenti, l’autorità giudiziaria”2 .
Ricostruire oggi il contesto di una vicenda del 1980 di grande rilievo, che ha dolorosamente segnato la vita pubblica e la memoria collettiva oltre che le vittime e i loro congiunti, richiede conoscenze storiche e relativi apporti da parte di esperti. Dunque, occorre disegnare un quadro che, per grandi linee, rispecchi lo stato attuale degli studi storici, ivi compresa la pluralità di interpretazioni. Bisogna individuare con criterio una rosa di studiosi e di opere di cui tenere conto. Se ci si confina in una bolla, dove circolano testi e studiosi tutti (o quasi) appartenenti al medesimo indirizzo storiografico, la pluralità manca e il quadro è arbitrario, nonché probabilmente alterato dalla scelta non ponderata dei contributi da acquisire. La sentenza di primo grado del “processo-mandanti” ha saputo tenere conto adeguatamente del panorama degli studi nonché della varietà degli orientamenti in materia, oppure ha nettamente privilegiato uno solo di questi ultimi a scapito degli altri, chiudendosi in tal modo in una bolla? I metodi seguiti nell’introdurre le scienze storiche nel “processo-mandanti” hanno influito sul giudizio? Se sì, in quale maniera? Questi sono gli interrogativi, che ritengo di importanza determinante, cui tenterò di dare risposta analizzando la sentenza stessa.
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I presenti e gli assenti
Come è stato affrontato il compito di acquisire competenze storiche da riversare nel giudizio? I giudici si sono astenuti dal disporre ufficialmente alcuna perizia. A pagina 100, spiegano di avere agito
“nella consapevolezza che la letteratura storico-scientifica” sui temi in questione “è ormai di tale ampiezza ed è giunta a conclusioni convergenti (…) da potersi sostituire la perizia con l’acquisizione di pubblicazioni di carattere storico”.
E’ una motivazione che stupisce, non soltanto in quanto l’ampia letteratura storico-scientifica preesistente non era affatto focalizzata sull’imputato, il vivente Bellini, e nemmeno sull’ipotesi che i mandanti si identifichino nel perimetro Gelli-Ortolani-D’Amato-Tedeschi, ma anche e soprattutto per l’asserzione che essa sarebbe “giunta a conclusioni convergenti”. Tale asserzione, peraltro, viene contraddetta dalla sentenza stessa, poche pagine più avanti.
A pagina 106, infatti, i giudici si mostrano edotti dell’esistenza di rilevanti differenze interpretative tra gli studiosi e affermano perciò che “in un certo senso il giudice (…) è chiamato a prendere posizione anche nel dibattito fra gli storici”. In nota, sempre a pagina 106, si richiama “come esempio noto a questa Corte” di visioni differenti concernenti “i fatti i cui dobbiamo occuparci (…) la diversa opinione del consulente tecnico della Procura generale, prof. Giannuli (autore di molteplici testi tra cui “La strategia della tensione“, 2018, e “Bombe a inchiostro”, 2008) e quella del prof. Vladimiro Satta (“I nemici della Repubblica“, 2016) anch’egli consulente della Commissione parlamentare sulle stragi”.
A parte la sciatteria denotata dalle imprecisioni nelle due righe che mi riguardano3, il punto è che il lettore si aspetterebbe allora che Giannuli e io -e i nostri rispettivi lavori- ricevessimo spazio più o meno equivalente nel prosieguo delle motivazioni della sentenza, fatta salva la piena libertà del giudice di aderire all’una o all’altra impostazione (o magari a nessuna delle due). Invece no. Giannuli, che era stato citato già cinque volte nelle pagine precedenti, viene menzionato altre centoquattro volte e alle sue tesi sono dedicate pagine e pagine: io e I nemici della Repubblica,zero. Sia ben chiaro che non è un problema personale né tanto meno un’auto-candidatura per i futuri sviluppi del processo: i giudici avrebbero potuto benissimo rivolgersi ad altri studiosi e valutare altre opere vicini alle tesi mie piuttosto che a quelle di Giannuli.
Non avrebbero avuto che l’imbarazzo della scelta.
Per fare solo un minimo di esempi (e sperando che non si offendano coloro che non citerò per evitare di appesantire troppo l’esposizione), in tema di strategia della tensione avrebbero potuto interessarsi alle riflessioni di Giovanni Sabbatucci nel volume Miti e storia dell’Italia unita (Il Mulino, 1999) o alla monografia di Massimiliano Griner Piazza Fontana e il mito della strategia della tensione (Lindau, Torino 2011), o a quella di Gianni Oliva Anni di piombo e di tritolo 1969-1980 (Mondadori, Milano 2019), oppure ancora a quella di Juan Avilés Farré La estrategia de la tensión: terrorismo neofascista y tramas golpistas en Italia, 1969-1980, edita in lingua spagnola nel 2021 e in lingua inglese (prossimamente anche in lingua italiana). Tutti totalmente assenti dall’orizzonte della Corte, invece.
Giannuli è indubbiamente uno degli storici cui rivolgersi in tema di stragismo, di golpismo dei cosiddetti “anni di piombo e di tritolo”, di cosiddetta “strategia della tensione”, di servizi segreti. Tuttavia non va perso di vista che i “fatti di cui dobbiamo occuparci” consistono innanzi tutto nell’esplosione del 2 agosto 1980, la quale non è oggetto dei volumi La strategia della tensione e Bombe a inchiostro e neppure di altri dello stesso Giannuli. Inoltre, poiché si punta il dito contro Licio Gelli e la loggia P2, va attenzionata anche quest’ultima specifica tematica, rispetto alla quale Giannuli ha una certa competenza ma non è esattamente uno specialista. Di fatto, la Corte non si è fermata a Giannuli, giustamente. Chi sono dunque gli altri studiosi consultati e/o ascoltati, in quale misura ci si è avvalsi di loro, come e da chi sono stati selezionati?
Un altro storico chiamato in causa dalla sentenza Cenni-Caruso è Angelo Ventrone, in qualità di curatore del volume collettaneo L’Italia delle stragi. Le trame eversive nella ricostruzione dei magistrati (Donzelli, Roma 2019)e di autore del libro La strategia della paura. Eversione e stragismo nell’Italia del Novecento (Mondadori, Milano 2019). Anche Ventrone è certamente uno storico da prendere in esame ai fini di uno studio di eversione e stragismo in Italia. Nella sentenza Cenni-Caruso egli è citato appena due volte, a pagina 147 e nelle pp. 159-162. La prima di queste menzioni vale molto, però, in quanto la Corte dichiara di avere nei suoi confronti “un debito di riconoscenza perché la lettura della sua recente opera “La strategia della paura“, 2019, ha consentito di individuare un utile filo rosso nella lettura della massa degli atti processuali, permettendone un’ulteriore rielaborazione alla ricerca della causale della strage del 2 agosto 1980”.
Non è esplicitato, nella sentenza, quale sia il “filo rosso”. Tuttavia, la lettura de La strategia della paura permette di rispondere. L’autore innalza l’anticomunismo ad entità metastorica che attraversa le epoche nonché rivolgimenti nazionali e internazionali di ogni tipo (cfr. la Introduzione e passim) e, con riferimento agli anni Settanta italiani, teorizza che “l’obbiettivo primario” delle trame eversive e delle stragi fosse “manipolare i comportamenti delle masse popolari” alimentando “mille sospetti” sulla matrice di quei crimini (pp. 7, 89-90, 93) e creando in tal modo
“una grande confusione in cui le responsabilità ricadono sulla sinistra, ma forse anche sulla destra, sui neofascisti ma forse anche sugli anarchici o sui marxisti-leninisti” (pp.10-11)4.
Siamo sicuri che un simile pateracchio riscuota largo consenso fra gli storici? Il giudice ha tutto il diritto di aderire senza riserve agli schemi di Ventrone, ma se lo avesse fatto all’esito di una disamina critica di essi e delle naturali obiezioni che suscitano, la sua scelta sarebbe stata formalmente ineccepibile, mentre così come si presenta fa pensare che questo consenso sia effetto di una specie di bolla che limita la visuale.
Ulteriori perplessità circa il valore assegnato dai giudici di primo grado a La strategia della paura derivano dal dato oggettivo che il volume si ferma a fine 1974 e accenna fugacemente alla strage del 2 agosto 1980 in pochissime righe nelle ultime tre pagine, sicché il suo contributo “alla ricerca della causale” della strage è scarsissimo, a meno che non si dia per scontato che tale causale si riallacci agli anni che vanno dall’inizio del Novecento al 1974, una tesi cronologicamente bizzarra che sarebbe tutta da dimostrare.
Allora perché assumere come “filo rosso” questo libro piuttosto che i libri di altri autori (tra cui lo stesso I nemici della Repubblica) che, se non altro, coprono il 1980 e che al contrario i giudici non citano né discutono? Forse che Ventrone nel 2019 si era confrontato approfonditamente con le opere precedenti e aveva reso così superflua analoga operazione da parte della Corte? No, perché Ventrone le ha ignorate completamente.
E allora perchè? La Corte non sapeva de La estrategia de la tensión: terrorismo neofascista y tramas golpistas en Italia, 1969-1980? Né Giannuli né altri esperti convocati in dibattimento o altrimenti interpellati l’hanno informata? Per giunta, non risulta neppure che la Corte si sia premurata di acquisire registrazioni e trascrizioni delle rare occasioni di dibattito cui Giannuli e/o Ventrone abbiano partecipato insieme a studiosi in dissenso da loro5 né che, avendo magari ritenuto insufficienti i materiali disponibili, abbia disposto essa stessa nuovi confronti ad hoc, diretti o indiretti (ad esempio, questionari, come una volta fece la Commissione Stragi tra i suoi consulenti). Anche questo fa temere che la Corte sia intrappolata all’interno di una bolla.
A pagina 161, gli estensori della sentenza di primo grado del “processo mandanti” abbinano il professor Ventrone al fascista autore della strage di Peteano (31 maggio 1972): premesso che si sentono ispirati dalla “acuta chiave di lettura” di stragi e piani eversivi proposta da Ventrone, i giudici “considera[no] come elemento consonante la testimonianza di Vincenzo Vinciguerra”.
Per chi non lo sapesse Vinciguerra, il quale dopo Peteano si rifugiò per anni in Spagna dai suoi camerati che già si erano posti sotto la protezione del regime franchista, nel 1979 tornò in Italia e si costituì, nel 1984 si assunse la responsabilità dell’attentato di Peteano e da allora cominciò a fornire una sua interpretazione la quale mira a
“dimostrare che la linea stragista non è stata seguita da alcuna formazione di estrema destra in quanto tale, ma soltanto da elementi mimetizzati, ma in realtà appartenenti ad apparati di sicurezza o comunque legati a questi” e aveva lo scopo di “destabilizzare l’ordine pubblico per stabilizzare il potere politico”6.
Tale ricostruzione, che indica come mandanti delle stragi lo Stato e i governanti dell’epoca anziché i fascisti, ha fatto di Vinciguerra l’idolo dei dietrologi di ogni colore politico, al punto che nel 2022 Gianni Barbacetto de Il Fatto Quotidiano ha lanciato la proposta di graziare l’ex-terrorista7.
E’ notorio che alcuni, invece, hanno sollevato una serie di interrogativi sulla ricostruzione dei fatti e sulla condotta di Vinciguerra. In questo gruppo ci sono tra gli altri lo stesso giudice Felice Casson (poi senatore Pd) che raccolse la confessione di Vinciguerra e lo studioso Franco Ferraresi8, cui recentemente si è aggiunto Paolo Morando, autore di una biografia di Vinciguerra, il quale ha rilevato ulteriori incongruenze tra parole di Vinciguerra e fatti accertati9. I giudici del “processo-mandanti”, tuttavia, manifestano a più riprese un’opinione elevatissima di Vinciguerra e della sua attendibilità, senza traccia delle criticità esposte dal loro ex-collega Casson e dagli altri autori citati, e anzi aggiungono che “sul valore giudiziario e storico” dei contributi dello stragista “sentenze, storici e analisti generalmente concordano” (sentenza, pp. 100, 198 e passim). Di nuovo, l’effetto-bolla si fa sentire, dunque, inducendo i giudici del “processo-mandanti” a dare a Vinciguerra enorme fiducia nonostante tutte le evidenze che suggerirebbero il contrario.
L’autorevolezza conferita al fascista stragista, accostato al professor Ventrone e citato molto di più e molto più a lungo dell’accademico -ovvero ben 471 volte, cioè più di Giannuli e Ventrone messi insieme- dà la misura di dove si possa arrivare lungo la strada della sostituzione degli storici e delle loro competenze con personaggi di altra estrazione, della cui superiore competenza in materia di storia si fa garante la Corte.
Beninteso, i panegirici in onore di Vinciguerra non significano che i giudici abbiano simpatie per i fascisti stragisti. Nella sentenza, anzi, si trovano elogi di una realtà nata all’estrema sinistra, la cosiddetta controinformazione, fino all’immedesimazione tra controinformazione e autorità giudiziaria:
“È singolare come l’azione dell’autorità giudiziaria abbia finito con l’essere controinformazione” (p. 858).
Ebbene sì, è singolare.
Piuttosto che di inclinazioni politiche, dunque, potrebbe trattarsi di inclinazione alla dietrologia. A pagina 1.031 si trova un indizio in tal senso:
“la nozione teorica di Stato profondo o doppio Stato (…) è una nozione che legittima indagini e ricerche che scrivono storie diverse da quella ufficiale, tacciate di “complottismo”“.
Da notare che in questa pagina gli estensori della sentenza attingono la nozione di Stato profondo (in inglese: Deep State) o doppio Stato da Giannuli, e si può aggiungere che il padre del concetto di doppio Stato in riferimento all’Italia degli “anni di piombo e di tritolo” è il professor Franco De Felice10. La sentenza Cenni-Caruso sembra totalmente inavvertita delle contestazioni e critiche che per decenni hanno investito l’opera di Franco De Felice, per non parlare del Deep State11, che così come è un cavallo di battaglia di coloro i quali vedono il mondo in chiave di cospirazioni, è invece uno zimbello agli occhi di coloro che non credono a teorie del genere. Questo aiuta a definire i contorni della bolla dietrologica nella quale galleggia la sentenza del “processo-mandanti”12. L’evocazione del Deep State è un tratto da non sottovalutare, poiché analoghi echi risuonano pure nella sentenza di primo grado del processo Cavallini:
“tutti i depistaggi che hanno contraddistinto le stragi e i delitti “eccellenti” avvenuti in Italia, ed altresì le ‘provocazioni’ ad hoc, costituiscono un’altra prova dell’esistenza in Italia del cd. deep State, ossia un insieme di organismi militari, economici, politici, associativi, più o meno legali, dalla contiguità più o meno sommersa, e trasversali, che condizionano in modo occulto le strategie di potere, servendosi degli organi rappresentativi come schermo” (ivi, p. 1775).
Oltre a Giannuli e a Ventrone (nonché a Vinciguerra) nel “processo-mandanti” sono stati menzionati e in qualche caso convocati in udienza anche altri autori di varia estrazione, ma -ad eccezione di Giacomo Pacini e con le stringenti limitazioni applicate al suo contributo indiretto, che saranno illustrate più avanti-, nessun appartenente alla categoria degli storici13.
La rosa dei prescelti desta perplessità, quindi, e per giunta la sentenza non fa luce sui criteri secondo i quali, tra i non-storici, siano rimasti esclusi anche personaggi esperti almeno quanto gli inclusi. Tra le esclusioni spicca quella dell’ex-magistrato Rosario Priore, parente di una vittima (un cugino) e perciò sempre interessatosi alla strage di Bologna, il quale tra l’altro è coautore del volume I segreti di Bologna (Chiarelettere, Roma 2016) insieme all’avvocato Valerio Cutonilli, a sua volta autore di ulteriori contributi sull’argomento, assente anche lui. Esclusi pure i consulenti della Commissione Parlamentare sul dossier Mitrokhin della legislatura XIV Lorenzo Matassa (magistrato) e Gian Paolo Pelizzaro (quest’ultimo, già consulente della Commissione Stragi nella legislatura XIII), i quali si occupano della strage di Bologna da decenni e tutt’oggi continuano a farlo. Mancano all’appello gli autori di un libro assai documentato, Dossier strage di Bologna (Giraldi, Bologna 2010), Gabriele Paradisi e Francois de Quengo de Tonquédec (insieme al già citato Pelizzaro). E manca l’ex-Presidente della Commissione Stragi, Giovanni Pellegrino, il cui intervento -che era stato richiesto dalla difesa dell’imputato Bellini– avrebbe potuto forse incidere sull’intero processo, considerato che la sentenza attribuisce alla Stragi tesi che vengono definite “inappagant[i]” e che sono innegabilmente diverse da quelle della Corte, le quali vengono rifiutate ma non confutate (p. 483).
Invero, riguardo alla Stragi i giudici commettono un errore di forma, in quanto la commissione parlamentare non approvò alcuna relazione finale al termine della sua attività e perciò gli elaborati depositati all’epoca da Pellegrino e da altri non sono altro che le opinioni personali di chi li sottoscrisse; nella sostanza, rinunciando a chiamare Pellegrino, si è persa un’occasione di confronto costruttivo tra pareri diversi14.
Fin qui si può affermare, pertanto, che il ricorso agli storici sia stato davvero minimo e neppure tanto centrato sulla strage del 1980, quasi che la preoccupazione maggiore fosse quella di ricollegarla ad eventi di anni prima. Non si è andati in cerca di storici che abbiano ricompreso la strage del 2 agosto all’interno dei loro lavori, fosse pure all’interno di opere di più vasto respiro e che magari, proprio per questo, avrebbero potuto aiutare i giudici a stimare correttamente l’impatto della tragica vicenda bolognese sulla storia generale del Paese. E’ il momento, adesso, di verificare come la bibliografia acquisita al “processo-mandanti” abbia supplito alle carenze evidenziate finora.
Il compendio probatorio bibliografico
Una bibliografia è stata sì messa insieme dalla Corte, ma lungi dall’essere ricca, pluralista e pressocché esauriente così come sembrerebbe indispensabile anche alla luce della volontaria rinuncia ad una perizia, essa non corrisponde affatto ai criteri anzidetti. Riportiamola testualmente, dalle pp. 146-147 della sentenza:
“ I volumi che fanno parte del compendio probatorio, da considerarsi processualmente come letteratura scientifica a supporto delle consulenze tecniche sono i seguenti:
1. L ‘uomo nero e le stragi (G. Vignali) *
2.Alto Tradimento (Beccarai, Marcucci, Nunziata, Bolognesi) *
3.La Strage di Bologna in quaranta brevi capitoli (L. Grassi)*
4.L’Italia Occulta (G. Turone) *
5.Il Boss (G. Turone) *
6.Il caffè di Sindona (G. Turone) *
7.Italicus (Bolognesi, Scardova)
8.Stragi e mandanti (Bolognesi, Scardova)
9.Abbiamo ucciso Aldo Moro (E. Amara) *
10. Berlinguer deve morire (Sofia) *
11. La spia intoccabile (G. Pacini) *”15.
Ad eccezione de La spia intoccabile di Giacomo Pacini, -che merita un discorso a parte e su cui tornerò più avanti- gli altri dieci libri (appena dieci!)
“recano la firma non di storici di professione, ma di giornalisti e magistrati che hanno approfondito i temi trattati. Sappiamo” -proseguono i giudici- “che la ricerca storica contemporanea molto deve a giornalisti appassionati che si rivolgono all’indagine sui fatti, prima di passare il testimone agli storici per l’analisi dei dati, la verifica di attendibilità, i riscontri, l’interpretazione” (p. 147).
Dunque, giornalisti appassionati ed ex-magistrati a riposo sono stati assunti come autorità in materia di storia e messi al posto degli storici, nonostante la sentenza stessa riconosca che ai lavori dei sostituti manchino “l’analisi dei dati, la verifica di attendibilità, i riscontri” che spettano agli storici.
Ben vengano i contributi di tutti, naturalmente, ma affidare a giornalisti appassionati e magistrati in pensione la funzione degli storici è aberrante, e viola l’impostazione metodologica cui la Corte si era impegnata a pagina 100. Ricostruire il contesto storico in questo modo sarebbe come fare il programma televisivo MasterChef con i giornalisti al posto dei cuochi oppure Ballando sotto le stelle con i pubblici ministeri a riposo al posto dei ballerini.
Facendo attenzione ad altri aspetti della lista di volumi che compongono “il compendio probatorio”, si nota che alcuni titoli non c’entrano assolutamente nulla con la strage di Bologna e nemmeno con altri attentati: ad esempio, Berlinguer deve morire riguarda un incidente stradale capitato in Bulgaria nel 1973, e tentare di sostenere l’attinenza alla strage di Bologna de Il caffè di Sindona, di Abbiamo ucciso Aldo Moro nonché della biografia del mafioso Luciano Liggio intitolata Il Boss sarebbe arduo (tentativo che i giudici del “processo-mandanti” non fanno per niente). Inoltre, su undici titoli, ce ne sono tre prodotti da una delle parti civili, cioè l’Associazione Familiari delle Vittime presieduta da Paolo Bolognesi: Alto tradimento, Italicus, Stragi e mandanti16.
Sono libri che era opportuno acquisire, evidentemente, ma è altrettanto evidente che sono libri di parte e che perciò sarebbe stato altrettanto opportuno un bilanciamento con libri di altro orientamento, ma il bilanciamento non c’è stato.
Altri tre dei volumi elencati sono dell’ex-magistrato Giuliano Turone che la Corte ha ascoltato come testimone: con tutto il rispetto che il personaggio merita, sarebbe stato più sensato dare la priorità a libri di autori i quali non hanno partecipato al processo né come periti, né come testimoni. Primi fra tutti, autori che sono scomparsi, quali l’intellettuale di area socialista Giorgio Galli, che si è occupato del presunto mandante della strage, Licio Gelli, proprio in relazione alla strage di Bologna. Documentiamo quindi cosa scrisse Galli nella sua monografia La venerabile trama. La vera storia di Licio Gelli e della P2 (Lindau, Torino 2007):
“la P2 era soprattutto una camera di compensazione di grandi affari (sovente illeciti) … il suo impatto sulle vicende politiche, esplicite o occulte, era tutto sommato modesto” (p. 77)
“era soprattutto una camera di compensazione per affari più o meno leciti e non un’agenzia golpista” (p. 133)
“è ipotizzabile che la strage di Bologna del 2 agosto sia stata organizzata per destabilizzare la situazione al punto che il testo fatto pubblicare da Gelli sul Corriere [intervista datata 5 ottobre 1980] possa essere visto come il preannuncio di una scolta autoritaria? E che quindi alla Massoneria possa essere fatta risalire la responsabilità di quella strage, come premessa della svolta? Credo che si possa rispondere con sicurezza di no” (p. 86)
“tra l’estate e l’autunno del 1980 (…) provocare una strage (la maggiore tra tutte), attribuibile alla destra, era inutile; e addirittura poteva giovare alla sinistra e al PCI, come era accaduto dopo le stragi di Brescia e di Bologna del 1974” (p. 88)
Frasi significative, tanto più che vengono da uno studioso il quale, a pagina 79 del medesimo volume, ricordava di essere stato “il primo politologo italiano, sin dagli anni ’70, a mettere in luce i soggetti occulti che influivano sul sistema politico”.
Per inciso, in tema di massoneria e storiografia, la Corte del “processo-mandanti” ha ascoltato la dottoressa Piera Amendola che negli anni Ottanta fece parte dello staff della Commissione guidata da Tina Anselmi, e ha fatto bene, ma sfortunatamente ha fatto a meno della voce e le opere di uno studioso quale Aldo Alessandro Mola, notoriamente assai divergenti dagli indirizzi della relazione di maggioranza prodotta dall’organismo parlamentare (e della Amendola, la quale li porta avanti).
E’ un nuovo indizio di unidirezionalità cui se ne può aggiungere un altro ancora più vistoso: la liquidazione delle sentenze dell’autorità giudiziaria la quale, come è risaputo, smentì che Gelli e la P2 coltivassero progetti politici eversivi come invece sostenne la maggioranza della Commissione di natura politica.
La conclusione giudiziaria sulla natura e le attività della P2 è considerata dalla Corte del “processo-mandanti” “inutilizzabile” perché, “benché passata in giudicato, ricevette numerose e puntuali critiche”. Insomma, le critiche imprecisate mosse da non si sa chi fanno premio sulle sentenze definitive dei predecessori dei giudici odierni. Viceversa, non vi è un cenno alle critiche mosse alla Commissione Anselmi da qualificati storici come Piero Craveri17. Siamo di fronte ad uno scenario che somiglia in maniera preoccupante a quella che gli epistemologi definiscono camera dell’eco18.
***
Chiudendo la parentesi sul rigetto della sentenza giudiziaria definitiva riguardante gli obbiettivi della P2 e tornando alla storiografia, Avilés Farré, che era vivo all’epoca dell’annuncio della sentenza di primo grado del “processo-mandanti”, è purtroppo entrato nella schiera dei deceduti nella prima metà del 2023. Resta la sua opera dove egli, pur dichiarandosi convinto della colpevolezza dei fascisti dei NAR, reputa Gelli un capro espiatorio e, dunque, respinge la tesi centrale della sentenza di primo grado del “processo-mandanti”19. Giova ribadire che il punto, adesso, non è se Galli e Avilés Farré avessero visto giusto o sbagliato: è che i giudici hanno proprio ignorato loro e tutti gli altri che la vedono più o meno come loro, dando sostanzialmente per indiscusso ciò che non soltanto è discutibilissimo, ma che è anche pesantemente criticato al di fuori della bolla dietrologica che pare avere inghiottito la Corte.
Un altro dei libri invece elencati dalla sentenza Cenni-Caruso, Berlinguer deve morire, che è uno dei più eccentrici in una bibliografia assemblata in funzione di un processo sulla strage di Bologna, potrebbe essere tralasciato se non fosse che la sua menzione aiuta a fare luce sull’approccio dei giudici bolognesi di fronte alle dietrologie. La Corte, infatti, recepisce in toto la tesi degli autori, -secondo cui l’incidente stradale dal quale Enrico Berlinguer uscì scosso ma quasi illeso sarebbe stato in realtà un attentato dissimulato perpetrato dai Paesi del Patto di Varsavia contro di lui-, pur sapendo che gli ex-dirigenti del Pci non credono a questa ricostruzione (lo scrivono a p. 162 della sentenza); in altri termini, neppure questa consapevolezza ha indotto la Corte ad allargare la visuale. Se si fosse affacciata all’esterno della bolla e si fosse addentrata nel campo della storiografia, la Corte avrebbe immediatamente scoperto, quanto meno, il mio saggio monografico “Berlinguer in Bulgaria 3 ottobre 1973: incidente o attentato?”, pubblicato dalla rivista di fascia A Ventunesimo Secolo nel fascicolo 2019/45, che contesta radicalmente l’ipotesi dell’attentato (e, proseguendo, magari avrebbe pure reperito il confronto tra Fasanella e me su “Radio Radicale” registrato il 17 marzo 2021).
Venendo ora a Giacomo Pacini e alla sua biografia di Federico Umberto D’Amato intitolata La spia intoccabile, c’è da compiacersi del riferimento ad uno studioso assai stimabile. Il personaggio studiato, D’Amato, è ritenuto dai giudici “figura che si colloca sostanzialmente su un piede di parità con Gelli” (p. 963), dunque importantissima. Il compiacimento, però, si trasforma in disappunto quando si va a vedere in quale misura e in quale modo la Corte si è avvalsa della competenza di Pacini.
La prima considerazione è che Pacini, a differenza dell’altro esperto consultato per D’Amato che è Giannuli, non è stato chiamato ad esprimersi in udienza; la seconda, è che nelle 1.714 pagine della sentenza Pacini è stato citato soltanto undici volte, a fronte delle decine e decine di citazioni di Giannuli; la terza, forse la più importante, è che dall’opera di Pacini i giudici hanno tratto qualcosina a proposito delle indagini sulla strage di Piazza Fontana, sulla spregiudicatezza di D’Amato e poco altro, trascurando completamente le osservazioni dell’autore circa le accuse mosse a D’Amato per la strage di Bologna. Di cosa si tratta? Secondo Pacini, non è
“del tutto chiaro (…) come si sia arrivati a sostenere che D’Amato sarebbe stato tra i mandanti del più grave eccidio di civili avvenuto in Italia dal 1945 in poi” (p. XV);
è “una tesi estrema, apparentemente perfino ai limiti della credibilità”, quella secondo cui D’Amato nel febbraio 1979 diede il via all’operazione stragista e si fece tramite dell’assoldamento di cellule eversive neofasciste (XV-XVI); non si capisce cosa c’entrino con la bomba i flussi di denaro distratti dai fondi del Banco Ambrosiano, con i quali D’Amato acquistò un appartamento a Parigi (XVIII, XX); bisogna chiedersi come mai D’Amato
“possa essere arrivato a giocarsi il grande potere di cui ancora disponeva diventando complice di un’operazione criminale con alcuni sopravvissuti nostalgici del regime fascista” (XV).
In definitiva, l’intera parabola della “spia intoccabile” tratteggiata da Pacini è “difficilmente compatibil[e] col ruolo, ben più feroce, di mandante e finanziatore stragista” che gli attribuisce la Procura di Bologna20. Perché la sentenza non si è misurata con queste osservazioni, che attengono proprio alla vicenda di cui si occupa il processo?
Pesano, inoltre, le assenze di studi di storia generale dell’Italia dell’epoca della strage e degli studiosi che ne sono autori e che avrebbero ben potuto fornire apporti essenziali utili all’elaborazione di ricostruzioni corrette ed equilibrate. Purtroppo, però, nomi che godono della massima reputazione tra gli storici sono invece sconosciuti ai giudici del “processo-mandanti”; la ricerca all’interno della sentenza di influenze di Simona Colarizi, Agostino Giovagnoli e altri autori di pregevoli storie dell’Italia contemporanea -recenti o meno recenti che siano- dà esito negativo.
Le conseguenze sono tanto più gravi in quanto la Corte non si perita affatto di delineare autonomamente il contesto storico della strage del 2 agosto 1980: essa dà per scontato che
“tale contesto dipende ed è in rapporto di continuità (…) con le altre stragi politiche che hanno caratterizzato il Paese nel dopoguerra, essendo assolutamente pacifico che la storia nazionale è stata contrappuntata da una serie di fatti di strage e di delitti politici” (p. 97).
Ma perché mai l’attentato alla stazione di Bologna dovrebbe essere in rapporto di continuità con altre stragi l’ultima delle quali risalente al 1974, anziché in rapporto con la realtà italiana del 1980, ormai profondamente diversa dal 1974 sotto innumerevoli aspetti? Poiché la Corte stessa, a pagina 550, riconosce che “non esiste uno studio specifico che spieghi” il vuoto “apparente” tra il 1974 e il 1980, verrebbe da supporre che l’arbitraria contestualizzazione da essa operata sia appesa nel vuoto.
Definizione del contesto storico in cui avvenne la strage del 2 agosto 1980
Prima ancora di interrogarsi sulla sussistenza o meno di un legame tra l’attentato di Bologna e quelli di epoche antecedenti, si osserva che nella storiografia è alquanto controverso persino se vi siano o no le condizioni per postulare una continuità tra le stragi, cinque, che precedettero quella alla stazione ferroviaria del capoluogo emiliano. In ordine cronologico, esse sono:
Milano in Piazza Fontana del 12 dicembre 1969,
Peteano (Gorizia) del 31 maggio 1972,
Milano in via Fatebenefratelli del 17 maggio 1973,
Brescia del 28 maggio 1974, treno Italicus nella notte tra 3 e 4 agosto 1974.
C’è chi pensa che una continuità 1969-1974 ci sia, sebbene soltanto entro certi limiti21, e chi considera la “strategia della tensione” un mito da sfatare22.
E’ notorio, del resto, che gli attentatori di Peteano e di Milano 1973 intendevano colpire non la folla bensì rappresentanti delle istituzioni (i Carabinieri a Peteano, il ministro Rumor a Milano) e che le stragi contro i civili di Brescia e del treno Italicus, a differenza di Piazza Fontana, vennero dopo che lo Stato aveva sciolto Ordine Nuovo e avviato il percorso che avrebbe portato allo scioglimento nel 1976 di un’altra organizzazione dell’ultradestra, Avanguardia Nazionale, e sostanzialmente furono fatte proprio per questo motivo.
Persino chi invece teorizza una continuità protrattasi fino alla strage alla stazione di Bologna si sente in obbligo, almeno, di distinguere tra una prima fase durata dal 1969 fino alla bomba sul treno Italicus del 1974 e una seconda fase conclusasi il 2 agosto 1980.
Ciò vale per gli storici, come ad esempio la consulente dell’Associazione Familiari delle Vittime Cinzia Venturoli23, per Giannuli (come vedremo tra poco), ma anche per i giudici di Bologna, i quali a pagina 418 scrivono che
“lo stragismo degli anni 80′ non ave[va] la medesima fisionomia di quello manifestatosi fino al 1974-’75, poiché esso non si accompagnava ad un vero e proprio progetto di colpo di Stato, come in passato”
e che “probabilmente” ciò era dipeso dal fatto che i precedenti tentativi erano stati “fallimentari”.
Di certo, qualunque assertore dell’unitarietà dal 1969 al 1980 dovrebbe, come minimo, risolvere il problema della differenza radicale tra l’obbiettivo strategico dello stragista di Piazza Fontana, Franco Freda, che era La disintegrazione del sistema, e la formula ossimorica “destabilizzare per stabilizzare” cara agli estensori della sentenza del “processo-mandanti”24.
La Corte, invece, pare non abbia ravvisato l’aporia suddetta. Essa, piuttosto, durante l’udienza dell’11 giugno 2021 fece notare a Giannuli che la tesi da lui più volte sostenuta secondo cui la strategia della tensione si arrestò a metà anni Settanta suscitava “dissenso”. Ed ecco allora come rispose l’interessato:
“dobbiamo capirci (…) io parlerei di una seconda edizione (…) non è che io sto dicendo non c’è più la Strategia della Tensione, c’è un ‘altra cosa. Diciamo, più opportunamente, che la Strategia della Tensione ha una sua edizione più complessa e più, per certi versi è più difficile, perché c’è un contesto internazionale che non favorisce più certe cose (…) se parliamo di strategia come fine, il fine è sempre quello, non è cambiato. La tattica però si è fatta diversa, più complessa, in certi momenti anche contraddittoria perché la situazione è difficile”.
Tattica fattasi diversa? Tattiche contraddittorie? Cosa vuol dire?
E soprattutto: perché tornare nel 1980 al metodo delle stragi, che era stato abbandonato perché rivelatosi fallimentare alcuni anni addietro, e farlo in un contesto ancora meno favorevole che nel passato?
E’ un peccato che la Corte si sia contentata della risposta vista sopra e non abbia posto queste naturali domande a Giannuli, né abbia fatto chiarezza essa stessa nella sentenza.
Quanto alla presunta invarianza dei fini al di là dei cambiamenti di tattica, occorre sottolineare che la cronologia non quadra con l’idea -adombrata da alcuni nonché dalla sentenza nelle pagine 346, 1069-1070 e passim -che bombe e trame eversive (e finanche le Brigate Rosse!) fossero destinate a fermare il Partito Comunista Italiano.
Gli anni in cui si verificarono tutti questi episodi tranne uno, la strage alla stazione ferroviaria di Bologna, vanno dal 1969 al 1974. Il PCI non aveva ancora spiccato il balzo elettorale che, all’indomani delle elezioni del 1976, lo rese indispensabile ai fini di una maggioranza parlamentare che sostenesse il governo, con la “non sfiducia” prima, e la fiducia poi.
Tra il 1976 e fine 1978, peraltro, il PCI non aveva sfidato la DC (né tanto meno gli Stati Uniti d’America), bensì si era offerto come suo alleato in posizione subalterna, non puntava ad alternative di sinistra e andò alle elezioni politiche anticipate del 1979 proponendosi di governare insieme a essa e non contro di essa.
Nell’estate 1980, epoca della strage di Bologna, i comunisti erano tornati all’opposizione da oltre un anno, per loro scelta, erano politicamente isolati ed erano gravemente indeboliti a seguito del forte calo alle elezioni del 1979. Il periodo in cui il PCI fu più forte, dal 1975 alla prima metà del 1979, fu scevro di attentati stragisti, nonché di tentativi di golpe o di altra forma di pressione militare sui governanti (c.d. intentona).
Inoltre, il tentativo di ridurre ad unità l’intero complesso dei fenomeni terroristici ed eversivi accaduti tra 1969 e 1980 è inconciliabile con l’attribuzione di un ruolo centrale a Gelli e alla loggia P2. Fino a tutta la prima metà degli anni Settanta la P2 aveva avuto scarso peso e vita stentata. Essa divenne potente dalla seconda metà dei Settanta al 1981, anno in cui si dissolse e, come abbiamo detto, si tratta di un periodo che non coincide con quello degli attentati e delle trame, fatta eccezione per la strage di Bologna. E’ evidente, peraltro, che Gelli e la P2 da un cambiamento di regime avrebbero avuto molto più da perdere che da guadagnare.
La teoria della continuità dello stragismo dal 1969 al 1980, ultimamente, ha subìto un duro colpo anche sul piano tecnico-scientifico. Il professor Danilo Coppe, massimo esperto italiano in materia di esplosivi, – e perciò chiamato a partecipare in veste di perito a numerosi procedimenti penali tra cui quello sulla strage di Bologna che riguarda principalmente Gilberto Cavallini -, nel suo libro Crimini esplosivi ha esaminato gli attentati degli “anni di piombo” – e non solo- soffermandosi sulle caratteristiche di quelli principali ed elaborando tavole riepilogative che comprendono i dati salienti di parecchi altri. Su queste solide basi, l’autore ha concluso che
“la trama eversiva chiamata Strategia della Tensione” è “un bel teorema” e null’altro25. “Se ci fosse stato un piano preordinato che doveva distribuirsi in un ventennio” – ha proseguito Coppe- “avremmo avuto delle modalità tecniche differenti a quanto in realtà è accaduto”, ovvero ci sarebbe stato “l’impiego di ordigni similari nella natura delle materie prime usate”26.
Quindi,
“il famoso filo conduttore che prima si attribuiva agli esplosivi dello stragismo degli anni di piombo non c’era, mentre invece l’ho riscontrato in tutte le bombe di mafia che sono iniziate da Falcone fino a Georgofili, San Giorgio al Velabro, via Palestro a Milano… in quelle c’era un filo conduttore tecnico, si riconosceva, come dire, “la stessa mano “27.
La sentenza del “processo-mandanti”, però, non prende minimamente in esame le suddette osservazioni del professor Coppe.
In definitiva, tirare dentro la “strategia della tensione” un attentato distante ben sei anni dagli attentati e dalle trame golpiste meno remote, e che non fu seguito né da una nuova serie di bombe, né da una nuova stagione golpista, né da un mutamento degli indirizzi politici generali o delle politiche dell’ordine pubblico e della sicurezza interna, appare decisamente incongruo.
Lungi dal fornire una valida motivazione della strage di Bologna, indebolisce ulteriormente la già precaria idea che la “strategia della tensione” mirasse a contrastare il PCI.
L’Italia della metà del 1980 era un Paese stabile: politicamente, socialmente, in qualche misura anche economicamente e finanziariamente, e il fenomeno terroristico in quel momento preponderante, che era il brigatismo rosso, cominciava ad accusare i colpi della reazione dello Stato e a sgretolarsi.
Politicamente, il verdetto degli elettori nel 1979 era stato netto, perciò si era tornati a coalizioni di governo che facevano a meno del PCI e i partiti, a loro modo, ne avevano preso atto. La DC con un’intesa (passata alla storia come “il preambolo”) siglata nel febbraio 1980 in occasione del suo XIV congresso nazionale tale da precludere future alleanze con il PCI; il PSI, di cui Craxi era intanto riuscito ad assumere un pieno controllo, con la disponibilità a fare governi con la DC e senza il PCI in nome della “governabilità”; e lo stesso PCI, dall’opposizione, era consapevole dell’inutilità di reiterare offerte ai partiti di governo e agitava una “questione morale” invocando il “governo degli onesti” in attesa di tempi migliori.
Gli assetti politici presenti già nel 1980, infatti, durarono fino alla fine della cosiddetta Prima Repubblica.
Socialmente, la conflittualità era scemata rispetto non soltanto al biennio 1968-1969, ma anche agli anni Settanta, l’influenza della classe operaia e dei sindacati era in diminuzione e si affermava nel Paese, soprattutto tra i giovani, una tendenza al disimpegno dalla politica e di distacco dalle ideologie che venne chiamata “riflusso” e privò la sinistra di una delle principali risorse su cui essa aveva potuto contare nel periodo precedente. Economicamente e finanziariamente, numerosi dati andavano migliorando rispetto agli anni Settanta, sia per motivi di congiuntura internazionale, sia per effetto delle misure precedentemente adottate proprio dai governi cui il PCI aveva concesso la “non sfiducia” o l’appoggio.
Nella lotta al terrorismo, i Carabinieri del generale dalla Chiesa avevano inferto duri colpi alle Brigate Rosse e queste ultime cominciavano a mostrare segni di sfaldamento. Piacerebbe sapere, quindi, su quali basi e sulla scorta di quali studi storici la sentenza del “processo-mandanti” neghi tutto questo, definendo “apparente” la “stabilità politico-istituzionale” raggiunta dal Paese (p. 418).
Una siffatta valutazione si addice molto più ad una camera dell’eco che ad un approfondimento storico.
Controllare i controlli
Mediante la formale acquisizione di atti e di volumi, una corte giudicante raccoglie un bagaglio di conoscenze utili al fine di elaborare una sentenza. E’ intuitivo, d’altra parte, che i documenti e i testi acquisiti vanno studiati e, come ogni altra fonte probatoria, sottoposti a controlli, riscontri e verifiche, nella misura del possibile. Purtroppo la sentenza del “processo-mandanti” lascia molto a desiderare anche sotto questo aspetto.
Per non allungare oltre modo il presente scritto, farò appena un paio di esempi: uno a proposito dell’utilizzazione – o meglio della non-utilizzazione, come si vedrà – che la Corte ha fatto di uno dei libri menzionati nella sentenza Cenni-Caruso, e un altro a proposito del coinvolgimento di una cittadina straniera nel terrorismo suggerito da una relazione della Commissione Moro-2 su cui i giudici bolognesi non eccepiscono nulla.
Il primo esempio ci porta sul terreno del terrorismo rosso, la cui storia viene riscritta dai giudici del “processo-mandanti”, sovvertendo completamente la pluridecennale giurisprudenza in materia, disattendendo le conclusioni della Commissione parlamentare Moro-1, confliggendo con gran parte della storiografia ma riecheggiando la leggenda dietrologica secondo cui la lotta armata per il comunismo avrebbe avuto quale suo vero obbiettivo gettare discredito sulla sinistra italiana. Testualmente:
“Il terrorismo rosso serve a privare la sinistra ufficiale della sua immagine di forza politica moderata in grado di garantire stabilità ed equilibrio riformatore al sistema” (p. 346).
Proprio il successo di tale operazione di discredito, anzi, sarebbe la causa principale della sconfitta elettorale del PCI alle elezioni politiche del 1979:
“dopo il 1976 è oggettivo che l’avanzata della sinistra si ferma di fronte al terrorismo dell’estrema sinistra” (p. 345).
Strano giudizio, perché si sa che “l’attacco al cuore dello Stato” fu sferrato dalle BR già nel 1974 con il primo sequestro di risonanza nazionale, ai danni del giudice Mario Sossi, e con il primo duplice omicidio, di cui furono vittime i militanti missini Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola, quindi due anni prima del 1976 e, soprattutto, prima delle elezioni del 1975 e del 1976 nelle quali il PCI ottenne due grandi successi.
Insomma, un caso di inesatta applicazione del già fallace metodo di ragionamento post hoc, nunc propter hoc.
E’ forse l’esigua e sbilanciata bibliografia raccolta dalla Corte a formare la base di questo giudizio storico insostenibile?
Vediamo allora cosa dice Bombe a inchiostro di Giannuli, libro menzionato in sentenza e che i giudici dovrebbero conoscere bene, dato che si sono molto fidati dell’autore e che in altra circostanza (lo si è documentato sopra) quando è sembrato che ci fosse “dissenso” tra lo storico e loro, avevano voluto interloquire con lui. Ecco l’opinione di Giannuli sull’insuccesso elettorale comunista del 1979:
“il clima politico era mutato (…) Pesò in primo luogo l’occasione perduta del PCI (…) un partito che sia tale deve dare prova di senso di responsabilità e capacità di mediazione con gli altri, ma deve anche saper dare una risposta efficace alle aspettative dei gruppi sociali che lo sostengono, pena la perdita dei consensi. Il PCI non seppe farlo: offrì alla sua base molte rinunce e quasi nessun risultato e questo ne avviò la rapida decadenza politica e organizzativa, che proseguì sino al suo scioglimento. Ma pesò anche l’incapacità della nuova sinistra di trasformarsi in soggetto politico non minoritario, dandosi un credibile progetto” 28.
Palesemente, è tutta un’altra storia rispetto alla visione della Corte. Al punto da fare nascere il dubbio che i giudici abbiano recepito Bombe a inchiostro a scatola chiusa, o quasi.
Il secondo esempio interessa la persona di una giornalista straniera molto affermata a livello internazionale, la tedesca-occidentale Birgit Kraatz, la quale per anni fu anche corrispondente dall’Italia per conto della televisione pubblica del suo Paese. A pagina 1631 della sentenza Cenni-Caruso si legge che da una relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta Moro-229 “emerge” che la Kraatz fu “attiva nel movimento estremista Due Giugno”.
Premesso che definire “estremista” il gruppo tedesco Due Giugno è un eufemismo, perché esso praticava la lotta armata, il guaio è che l’affermazione sulla Kraatz non è vera. La Commissione Moro-2 l’aveva ripresa, senza controllare, da uno degli elaborati depositati dai parlamentari missini della Commissione Stragi. All’epoca della Stragi nessuno ci fece caso, ma nel 2018 sì e cominciarono le pubbliche smentite, con un’intervista rilasciata da Franco Piperno che aveva ben conosciuto di persona la Kraatz30. Birgit Kraatz, a sua volta, sporse querele e ottenne dalla Bundeskriminalamt (Ufficio federale della polizia criminale tedesca) la certificazione che lei
«non ha mai avuto contati o altro legame col gruppo “2 Giugno” che vadano aldilà dell’attinenza del lavoro giornalistico allora svolto sull’argomento di sinistra in Germania e in Italia».
Il giornalista di “Radio Radicale” Lanfranco Palazzolo si occupò dell’ingiustizia ai danni della Kraatz in alcune sue trasmissioni e il 5 ottobre 2020 Fioroni dichiarò all’agenzia ANSA che anch’egli riconosceva l’estraneità della Kraatz al gruppo “Due Giugno”.
Ovviamente, riproporre le parole della Moro-2 sulla Kraatz senza aggiungere la nutrita serie di smentite susseguenti lede la reputazione dell’ormai anziana giornalista tedesca e potrebbe aprire la strada a una rinnovazione dell’insinuazione contro di lei da parte di coloro che credessero alla sentenza Cenni-Caruso. Si può essere certi che i giudici estensori abbiano agito in perfetta buona fede, ma il fatto che non si siano minimamente accorti di tutte le reazioni e smentite piovute dal 2018 in avanti è un’ulteriore dimostrazione di carenza di controlli sui contenuti dei documenti acquisiti al processo.
Conclusioni
Malgrado l’impegno e l’indubitabile buona fede della Corte, l’ampia parte del lavoro relativo alla storia del periodo in cui avvenne la strage è risultata caratterizzata da metodi decisamente inadeguati e da risultati pessimi. Le dimensioni del presente scritto sono all’incirca in scala 1:100 rispetto alla sentenza, ma se fossero pari, allora gli appunti da muovere sarebbero anch’essi centuplicati rispetto alla quantità qui riversata.
Impressionano soprattutto gli sbilanciamenti e gli apriorismi, a livelli di bolle dietrologiche e di camere dell’eco.
Per superare le auto-limitazioni che i giudici si sono posti, nel prosieguo del processo sarebbe bene che le debolezze dell’impianto accusatorio non fossero viste alla stregua di posizioni da blindare e da proteggere con rinnovati sforzi dagli assalti di nemici “revisionisti”31, ma come opportunità per rimettere in discussione le cose che non quadrano e rettificare, anche se ciò comportasse il distacco da convinzioni radicate e identitarie. Se necessario, aprendosi a prospettive nuove.
Umanamente, è comprensibile il timore di rimanere senza condannati, a mani vuote, ma esso non deve pregiudicare la ricerca della verità. I condannati, se lo sono a scapito della verità, non sono colpevoli, ma capri espiatori.
Oltre tutto, un’altra pista da esplorare ci sarebbe già.
Mentre il contesto nazionale del 1980, per quanto lo si sprema, non consente di individuare un movente convincente, il contesto internazionale relativo al “lodo Moro”, -tema sul quale le conoscenze storiche sono cresciute molto negli ultimi anni e tuttora sono in via di sviluppo- appare più promettente. Il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (FPLP) un movente l’aveva: la crisi del “lodo Moro” aperta nel novembre 1979 dall’arresto a Ortona di appartenenti ad Autonomia Operaia i quali trasportavano armamenti per conto dei palestinesi.
Inoltre, da gennaio 1980 il FPLP aveva minacciato l’Italia pesantemente e reiteratamente, ed era un’organizzazione adusa agli attentati.
E’ altresì accertato che il terrorista tedesco Thomas Kram, esperto di esplosivi, tra 1 e 2 agosto 1980 fece un passaggio-lampo a Bologna, di cui egli non ha mai dato una spiegazione degna di questo nome. A ben vedere, il suddetto riferimento a Kram potrebbe pure inserirsi nell’impianto accusatorio contro Bellini, poiché è noto -e lo ha ammesso pubblicamente l’imputato stesso- che nell’inverno 1980 i due uomini per qualche giorno soggiornarono in una stessa locanda di Bologna, diversa da quella dove erano soliti fermarsi quando si recavano nel capoluogo emiliano.
Una maggiore considerazione dell’episodio di Ortona e di quel che ne seguì potrebbero giovare persino all’esame della figura di D’Amato.
La Corte è al corrente della sua famosa lettera auto-difensiva dopo lo scoppio dello scandalo P2 (p.810), ma sembra esserle sfuggito che la missiva, elencando le “relazioni pericolose” che D’Amato asseriva di avere avuto perché facenti parte dei suoi compiti, iniziava da Autonomia Operaia e terrorismo palestinese, due entità apparentemente secondarie rispetto ai compiti istituzionali e alle attività dell’UAR ma che, ove abbinate e ripensando al sequestro di armi del 1979 a Ortona, corrispondono all’embrione della cosiddetta “pista palestinese” relativa alla strage di Bologna del 2 agosto 1980. Uno spunto che, a mio avviso, meriterebbe di essere coltivato. La passione civile che anima molti di coloro che si interessano ai processi per la strage di Bologna è nobile, in sé, ed è forte, ma si ha l’impressione che le direzioni nelle quali il più delle volte si incanala siano condizionate da un’associazione assolutamente impropria tra le sentenze giudiziarie e i principi dell’antifascismo e dell’antipiduismo. Non dovrebbe essere così. Nei processi per la strage del 2 agosto 1980 non sono in gioco l’antifascismo e l’antipiduismo, che entrambi sono valori importanti, ma prescindono dalla colpevolezza o innocenza degli imputati.
L’antifascismo, addirittura, è giustamente affermato dalla Costituzione sin dai primordi della Repubblica italiana (mentre contro la P2, fenomeno venuto alla luce decenni più tardi, ci sono comunque le leggi). L’antifascismo è nella Costituzione per via di ciò che il fascismo era stato alle sue origini, nel periodo in cui prese il potere, quando si fece regime, tolse le libertà politiche e perseguitò o addirittura assassinò gli oppositori, emanò le leggi razziali e infine trascinò l’Italia nella più sbagliata e rovinosa delle guerre. L’antifascismo, dunque, è abbondantemente motivato da tutto questo, e lo sarebbe anche se, per ipotesi controfattuale, non fossero mai esistiti Freda, Maggi, Ordine Nuovo, le stragi negli anni dal 1969 al 1974, e poi ancora i NAR, Fioravanti, Mambro, la strage di Bologna.
L’antipiduismo, a sua volta, è abbondantemente motivato dall’affarismo illegale e dalla corruzione che la loggia P2 praticò su larga scala, infettando il sistema politico, e andrebbe tenuto fermo anche se all’esito del processo in corso si stabilisse che Gelli e i suoi sodali non furono i mandanti dell’eccidio di Bologna.
In realtà, legare l’antifascismo e l’antipiduismo alle sorti del “processo-mandanti” non significa preservarli, significa svilirli.
Roma, 24 luglio 2023
Mostra Paolo Delle Monache. Dialoghi, Centro Studi e Casa Museo Osvaldo Licini,
Monte Vidon Corrado (Fermo), 6 maggio-25 giugno 2023
Un affresco pseudo-storiografico
La sentenza del 5 aprile 2023 sulla strage di Bologna
Lorenza Cavallo
Giornalista d’inchiesta e analista politica esperta di intelligence, vive in Francia
Nella società italiana, dal secondo dopoguerra, la concezione della giustizia e delle sentenze è stata soggetta alla pressione delle ideologie: totalitaria, laica, clericale, individualista; quindi è stata sovente condizionata dai differenti orientamenti politici, partitici e correntizi dei singoli magistrati.
Con corsi e ricorsi di vichiana memoria, l’apparato giurisdizionale, ormai da lunghi anni, ha dato vita a differenti forme di “giustizia” determinando continui mutamenti nei rapporti tra legalità e verità. La continua estensione dei compiti dello Stato e della pubblica amministrazione è stata accompagnata dalla vanificazione della responsabilità politica degli esponenti del governo e dei partiti. Radicata nella prassi la propria “irresponsabilità”, il potere politico ha condizionato e condiziona il potere giudiziario di legittimità e di merito e si è attribuito privilegi e facoltà che hanno permesso di varare costose commissioni d’inchiesta che non hanno mai chiarito le responsabilità di fondo seppellite in centinaia di migliaia di pagine.
La ricostruzione della “verità” di un lungo periodo storico non dovrebbe essere compito dell’autorità giudiziaria, se non nei limiti in cui tale ricostruzione consente di sottoporre a processo singole persone per fatti specifici e diretti previsti dalla legge come reato.
Le motivazioni della sentenza della Corte d’Assise sulla strage di Bologna del 2 agosto 1980 – depositate il 5 aprile 2023 – si presentano come un atto politico.
Il testo di 1714 pagine, manifestamente è stato scritto a più mani, e da un capitolo all’altro si evidenziano delle discordanze, ho quindi selezionato 20 punti tra i più significativi che ho diviso in brevi capitoletti.
Terminati i lavori che ho in corso potrò dedicarmi a una più attenta lettura e replica dettagliata della sentenza, ovviamente, in merito a contesti di mia conoscenza e competenza.
Il metodo di indagine
Il presidente dottor Francesco Maria Arcangelo Caruso e il dottor Massimiliano Cenni, nel capitolo delle motivazioni intitolato “La ricerca storica come prova” (pp. 133-134) scrivono:
Bisogna tenere quindi conto dell’“affidabilità soggettiva” dell’esperto che nel processo si esprime o le cui ricerche vi vengono riportate, e per fare questo non possono esservi dubbi che il giudice possa fare ricorso alla letteratura scientifica esistente sull’argomento, qualificando sulla base dei criteri che la comunità scientifica (notoriamente) adotta per valutare la correttezza del metodo e delle conclusioni di una ricerca, per quanto sempre esposta al principio di falsificazione, sviluppato dal filosofo Karl Popper. Nei processi, per intuitivi motivi, non si è adusi a trattare la prova scientifica di carattere storico, ma nella misura in cui anche la ricerca storica ha statuto di scienza, non vi è ragione per non applicare alla consulenza storica e archivistica i medesimi parametri di valutazione che si adottano quando si valutano altre indagini scientifiche […].
Per illustrare il metodo di ricerca gli estensori si richiamano al “principio di falsificazione”, cioè la falsificabilità di Karl Popper. Rilevo che il filosofo ed epistemologo separava la “sfera” della conoscenza oggettiva, anche congetturale e, più che ai significati, non ha mai cessato di ricordare che il “Re è nudo”. In Conjectures and Refutations, si legge:
“They all say, more or less, than truth is what we are justified in believing or in accepting”32.
La riflessione di Popper concerneva il pensiero e gli scritti di David Hume, Immanuel Kant, Albert Einstein, Karl Marx, Alfred Adler e altri scienziati e studiosi.
I giudici e gli storici
I giudici fondano la “verità storica” sulle consulenze e testimonianze di Aldo Giannuli, Vincenzo Vinciguerra, Sergio Flamigni, il colonnello Massimo Giraudo, i defunti Giuseppe De Lutiis e Michele Cacioppo eccetera e alcuni magistrati che hanno indossato la “toga” da “storici” dello stragismo, i cui lavori è azzardoso definire “storico scientifici!”. Il termine tedesco Fälschungsmöglichkeit si traduce in italiano “confutabile”. Lo storico Marc Bloch, fondatore a Strasburgo con Lucien Febvre delle Annales – fucilato dalla Gestapo nel 1944 – scriveva:
Ci sono due modi di essere imparziali: quello dello studioso e quello del giudice. Hanno una radice comune: l’onesta sottomissione alla verità. Lo studioso registra, anzi, meglio, provoca l’esperienza che forse ribalterà le sue più affezionate teorie. Il giudice, qualunque sia il voto segreto del suo cuore, interroga i testimoni senza altra preoccupazione che quella di conoscere i fatti, così come capitarono. È, in tutti e due i casi, un obbligo di coscienza non discutibile. Però, a un certo punto, le loro strade si separano. Quando uno studioso ha osservato e spiegato, ha finito il suo compito. Al giudice tocca ancora di emettere la sua sentenza. Mettendo a tacere ogni personale simpatia, la pronuncia secondo la legge? Allora si considererà imparziale. E, in effetti, lo sarà, almeno secondo i criteri dei giudici. Ma non secondo quelli degli studiosi. Infatti non si può condannare o assolvere senza fare propria una tavola di valori che non proviene da nessuna scienza positiva33.
Nella rivista diretta dall’avvocato professor Francesco Carnelutti, fondata nel 1939 con Piero Calamandrei e Giuseppe Chiovenda, nell’articolo “Il giudice e lo storico” si legge
È comune tra i processualisti […] l’uso di espressioni che ravvicinano l’attività del giudice all’attività dello storico. Anche il giudice come lo storico, è chiamato ad indagare su fatti del passato e ad accertare la verità; anche del giudice come dello storico, si dice che non deve fare opera di fantasia, ma opera di scelta e di ricostruzione su dati “preesistenti”. Nella storia e nel processo si parla di prove, di documenti, di testimonianze, di “fonti”, e della loro critica. I trattatisti del processo adoprano, per una certa categoria di mezzi di prova, la denominazione di “prove storiche”; e come la ricostruzione del fatto […] può rassomigliare a certe tendenziose storie di partito che per servire a fini pratici presentano una ricostruzione della realtà ad arte mutata e deformata, così nella ricostruzione fedele e compiuta che deve fare il giudice, si loda, come in quello del vero storico l’imparzialità e la cosiddetta “oggettività”34.
Tipologia delle fonti
Anche solo da una prima superficiale lettura delle motivazioni si può delineare una tipologia delle “fonti” citate dagli estensori così articolata:
1) atti giudiziari e relative inchieste prettamente di Polizia;
2) atti parlamentari;
3) pubblicistica politico-ideologico-giudiziaria.
Atti giudiziari
Dai 38 punti numerati alle pagine 125-133 delle motivazioni si desume che sono oltre 70 gli atti giudiziari citati. Dall’elenco si nota che sono menzionate le 12 specifiche sentenze riguardanti la strage di Bologna, la condanna in primo grado di Gilberto Cavallini e una caterva di altre sentenze riguardanti processi per eventi stragisti (e non solo) a partire da piazza Fontana 1969. Non solo sono citate le sentenze passate in giudicato, ma anche quelle di primo e secondo grado, di condanna o di assoluzione o di archiviazione. Una vera enciclopedia giudiziaria senza offrire un’effettiva giustificazione, in casi specifici, ad una sorta di “revisione”.
Atti parlamentari
Mi limito qui a richiamare un esempio che compare a pagina 153. Gli estensori riportano integralmente “l’indice di una delle relazioni” della Commissione stragi di cui però non forniscono né il titolo né gli autori. In realtà, si tratta di una Relazione del Gruppo Democratici di Sinistra – L’Ulivo dal titolo “Stragi e terrorismo in Italia dal dopoguerra al 1974” (22 giugno 2000), firmata da quattro senatori (Raffaele Bertoni, Graziano Cioni, Alessandro Pardini, Angelo Staniscia) e da cinque deputati (Antonio Attili, Valter Bielli, Michele Cappella, Tullio Grimaldi, Piero Ruzzante) con la collaborazione di Gianni Cipriani, Giovanna Montanaro, Gerardo Padulo e Jacopo Sce.
Pubblicistica politico-ideologico-giudiziaria
È la tipologia di “fonti” citata esplicitamente nelle motivazioni che lascia maggiormente perplessi. L’utilizzo di queste “fonti” come “prove” deriva da una tardiva iniziativa del presidente della Corte d’Assise, che negli ultimi mesi del processo “mandanti-Bellini” (svoltosi tra il 16 aprile 2021 e il 6 aprile 2022) decise di convocare giornalisti e magistrati che si erano dedicati alla “storiografia” dello stragismo.
Il libro del professore Angelo Ventrone La strategia della paura35 è definito l’“utile filo rosso” e fa da retroterra alla strage del 2 agosto 1980 ma i linguaggi e i contenuti sono sovente più d’origine giornalistica che storica. Si rileva l’assenza di un pur elementare approfondimento critico delle fonti primarie e secondarie definite “probatorie”.
Il 19 gennaio 2022 sono stati escussi come testimoni Paolo Bolognesi, Roberto Scardova, Antonella Beccaria, Giorgio Gazzotti e Luigi Marcucci. Tutti quanti coinvolti nelle produzioni editoriali promosse dall’Associazione tra i famigliari delle vittime a partire dalla quadrilogia (2012-2017) sulle stragi (dall’Italicus 1974 a Bologna 1980).
Mentre il 26 gennaio 2022 sono stati ascoltati gli ex giudici Claudio Nunziata, Leonardo Grassi e Giuliano Turone. Nunziata e Grassi, da magistrati in attività avevano partecipato direttamente alle indagini sulle stragi del 1974 (Italicus) e 1980; Turone alle indagini sulla “Rosa dei Venti” e sulla P2.
Non manca l’orripilante libretto Menu e dossier del balzachiano Federico Umberto D’Amato36.
Scrivono gli estensori (a p. 1036):
svela un personaggio che può permettersi di alludere bonariamente ai vezzi gastronomici di tutti i personaggi del potere dell’epoca, lasciando intendere l’ampiezza delle informazioni disponibili su ciascuno di essi (sic!).
A dire il vero ad alcuni dei suoi ospiti ha attribuito gusti culinari fantasiosi, certo che nessuno avrebbe smentito tali stupidaggini. Potenti e “intoccabili” erano i suoi referenti: il ministro Paolo Emilio Taviani e l’ammiraglio Eugenio Henke, quest’ultimo menzionato superficialmente (p. 817) sebbene responsabile del Sid negli anni della strage di piazza Fontana. Ignorati sono anche il colonnello Nicola Falde e altri che per ragioni diverse ebbero rapporti con l’Ufficio affari riservati. Nonostante il capitano Antonio Labruna e l’informatore del Sid Torquato Nicoli siano citati ampiamente, non sono analizzati i contrasti tra il Sid e l’antiterrorismo in quei lontani anni Settanta di stragi e terrorismo. Per completare il quadro degli “assistenti” storiografi evocati nelle motivazioni, vanno ricordati almeno altri quattro nomi:
Il colonnello dei carabinieri Massimo Giraudo. Convocato nelle due udienze del 9 e 16 giugno 2021; ha ricoperto anche il ruolo di “storico”;
l’ispettore di polizia Michele Cacioppo (deceduto nel 2016) per redigere le biografie per la Procura di Brescia ha utilizzato vecchi ritagli di giornale e i “fondi Sifar”, trascurando gli Istituti storici e gli archivi di Stato;
Giuseppe De Lutiis (deceduto nel 2017) è autore del libro Storia dei servizi segreti in Italia37. In effetti, un rimaneggiamento della relazione di minoranza del Pci, non approvata dal Parlamento come testimonia (1964) “La Relazione di Minoranza della Commissione parlamentare d’inchiesta sugli eventi del giugno-luglio 1964 e le deviazioni del Sifar” con commenti di Terracini, Spagnoli, D’Ippolito, Galante Garrone e Lami (ed. Feltrinelli 1971). Penso non servano le biografie dei commentatori. Oltre Gli atti del processo De Lorenzo – L’Espresso, a cura di Roberto Martinelli sul “Sifar Affair” (Mursia 1968). De Lutiis è stato tra i “periti” nominati da Leonardo Grassi nell’inchiesta Italicus-bis (1994) che (in forma ridotta e rielaborata) è poi diventata un libro dal titolo Il lato oscuro del potere. Associazioni politiche e strutture paramilitari segrete dal 1946 a oggi”38;
Aldo Sabino Giannuli. Convocato nelle due udienze del 26 maggio e 9 giugno 2021 nei panni di consulente-biografo di Federico Umberto D’Amato. Consulente di molte Procure d’Italia, tra cui quelle di Brescia (strage 1974) e di Milano (Piazza Fontana 1969). Le sue consulenze sono state tutte oggetto di libri tra i quali Il Noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro39(o “Anello”) dedicato più al sottobosco politico, in particolare lombardo, che alla complessa “diplomazia grigia”.
Per districarsi nel groviglio giudiziario e poter articolare un vasto mosaico storico sulla storia d’Italia, che va dallo sbarco alleato in Sicilia (luglio 1943) fino alla strage di Bologna (ma anche oltre), i magistrati estensori delle motivazioni hanno fatto quindi ricorso ad una considerevole mole di pubblicazioni, espressamente citate (Giannuli, De Lutiis, Bolognesi, Scardova, alcuni magistrati come già detto e altri) ritenute “letteratura scientifica”! o di “indiscutibile rilievo scientifico”! e “parte del compendio probatorio”!, ricerche considerate “dati che agevolano la lettura dei documenti formalmente acquisiti”!
Si legge:
I volumi che fanno parte del compendio probatorio, da considerarsi processualmente come letteratura scientifica a supporto delle consulenze tecniche […] L’epoca delle stragi trae avvio dai primi attentati del 1969; tale fase è stata quindi oggetto di studi e ricerche da parte di importanti storici di professione e di ricercatori le cui opere hanno un indiscutibile rilievo scientifico. Consideriamo queste ricerche come dati che agevolano la lettura dei documenti formalmente acquisiti […]. La consulenza storico archivistica, così come il contributo di quanti professionalmente si sono dedicati alle letture delle carte preesistenti e di quelle pubblicate con la progressiva apertura degli archivi, è divenuta indispensabile in un processo nel quale la prova è essenzialmente di carattere documentale (pp. 146-147).
In sintesi, il processo sui mandanti defunti della strage di Bologna ha preso avvio dalla serie di esposti (almeno cinque) dell’Associazione dei familiari delle vittime alla Procura di Bologna (2011-2016), che a seguito del primo esposto (13 gennaio 2011) aprì a luglio dello stesso anno un apposito fascicolo.
Nello stesso arco di tempo la medesima Associazione pubblicava la versione “divulgativa” di quegli stessi esposti (2012-2017). Nel marzo 2017 la Procura di Bologna chiedeva l’archiviazione del filone “mandanti”: Licio Gelli, Federico Umberto D’Amato, Umberto Ortolani e Mario Tedeschi, tutti deceduti, ma la Procura generale nell’ottobre 2017 avocò a sé il fascicolo con la conseguente riapertura delle indagini. Nel frattempo Andrea Speranzoni, avvocato dell’Associazione, riesumava il filmato del turista Harald Polzer (agli atti già dal 1985) che portava all’identificazione di un presunto Bellini ripreso per pochi secondi sul primo binario della stazione di Bologna dopo l’esplosione delle 10:25 del 2 agosto 1980. Alla fine ne è scaturito il processo (svoltosi dal 16 aprile 2021 al 6 aprile 2022) con la condanna all’ergastolo di Paolo Bellini in primo grado.
La Rete delle “fonti probatorie” e “documentali”
Fonti e testimonianze hanno tutte lo stesso orientamento politico fino a costituire una rete d’influenza. Le informazioni transitano da un autore all’altro, sovente senza fonte. Ho dovuto effettuare un faticoso lavoro a ritroso di ricerca per definire l’origine di argomenti che si sono ripetuti indisturbati nel corso degli anni. È soffocato ogni dibattito e confronto costruttivo.
La scelta delle persone sottoposte a giudizio: mandanti deceduti, testimoni , destre fasciste (innocenti o colpevoli, le indagini prettamente di polizia giudiziaria non sono di mia competenza), è fondamentalmente finalizzata a provare la teoria del “grande disegno stragista atlantico” alimentato da un terrorismo nero e “rosso” (tra virgolette nella sentenza) a sostegno di una nota tesi complottista di Sergio Flamigni che ha persino attribuito al brigatista Mario Moretti rapporti con Gladio (!) fatta propria dai giudici di Bologna.
Vicende e persone sono sovente disgiunte tra loro, anche dal punto di vista dottrinale e sociale, lontane dal contesto della strage di Bologna, ma si è voluto fare un amalgama con chiunque ritenuto ideologicamente un “avversario” e ancor più un “nemico”.
Nulla da invidiare alle dottrine politiche e giuridiche naziste e sovietiche che avevano tramutato il principio di legalità nell’irrazionalistico e decisionistico Führerprinzip, e introdotto nel diritto penale le nefaste figure del “nemico” del popolo, dello Stato e dell’anti partito eccetera.
L’Italia è descritta come un’isoletta della Terra del fuoco dominata da “demoni” atlantici che impedivano “l’accesso dei comunisti al potere” (sic!).
Sorvolando sul fatto che dirigenti del Pci sedevano comodamente in Parlamento, partecipavano a tutti i dibattiti, compresi quelli sulle cariche nelle Forze armate e nei Servizi, dividevano privilegi e anche tangenti.
L’affidabilità di una ricerca, se si hanno pretese storiche in campo nazionale e internazionale militare e civile, ma anche investigative di qualità, rinvia al livello di coerenza libera da ogni ideologia o teoria preconcetta e comporta un’ampia conoscenza dei contesti politico – militare – giuridico, degli equilibri nelle Alleanze, dei Trattati, del tutto assenti nella sentenza.
I libri acquisiti dalla Corte che costituiscono “le prove storico-scientifiche” evidenziano ricerche e analisi frammiste a fonti di Polizia, più che la storiografia militare e civile rilevano metodi di propaganda che in Italia hanno costantemente occupato un posto di rilievo in quello dell’intoxication per minare e svilire il morale dei Servizi essenziali per la difesa dell’indipendenza dello Stato e l’integrità della Costituzione italiana, che purtroppo è stata attualizzata in un atto giudiziario.
Le teorie cospirative applicate al modello italiano
Propaganda noiosamente ripetitiva condensata in qualche espressione “magica” senza alcuna riflessione sugli effettivi contenuti in rapporto alla terminologia: “golpe”, “sovranità limitata”, “compromesso storico”, “stragismo atlantico”, “Yalta”, “guerra rivoluzionaria” ed altro.
Negli anni Novanta, fu incrementata da una vague prorompente con un nuovo tema: “Gladio”. Come sempre accade quando si tratta di Intelligence, essa ha approfittato di rivelazioni diffuse dai media su devianze generate dall’esistenza di queste reti in Italia e il modello italiano è diventato addirittura quello applicato a una cospirazione globale guidata dall’Alleanza atlantica.
L’inanità di una simile costruzione alimentata da presupposti antiamericani, ha ostacolato ogni seria analisi storica e ha impedito, e impedisce, di far emergere la realtà degli eventi a partire dalla stessa cronologia in Europa continentale. Le ragioni dell’adesione a tali strutture erano imposte dalla posizione geografica e dall’inasprimento delle relazioni internazionali, quando un vasto territorio di una porzione del “Rimland” europeo passò sotto dominazione sovietica,
“una superficie totale di 1.020.000 km2 oltre 91 milioni di abitanti non russi”
scriveva l’ambasciatore Manlio Brosio40.
È altrettanto errato valutarle come una volontà articolata della Nato, poiché significa fraintendere il funzionamento delle istituzioni inter-governative internazionali. È illusorio che l’Alleanza atlantica sia riuscita, in quel periodo, a creare un servizio integrato di intelligence e di azione compatto di un settore particolarmente sensibile della sovranità nazionale, è sufficiente constatare le difficoltà che si sono frapposte, negli anni Settanta-Ottanta, alla “comunità europea di Intelligence”, nella lotta contro il terrorismo.
L’approfondimento di “Gladio” impone la lettura della documentazione, oramai accessibile, di altri Paesi europei, dove la struttura era presente. Per comprendere la realtà della rete “Stay Behind” è necessario non soccombere ai media.
Il “giornalista d’inchiesta” Roberto Scardova e “Gladio”
Scardova nelle motivazioni della Corte d’Assise di Bologna è annoverato tra i “giornalisti d’inchiesta” (p. 61). È stato escusso come testimone nell’udienza del 19 gennaio 2022 (nelle motivazioni, si vedano le pagine 495-497). Un riscontro dell’attendibilità di Scardova si può trovare in un video (tuttora presente sulla piattaforma YouTube) del 31 marzo 2015, che documenta un incontro organizzato da un gruppo di studenti dell’Università di Bologna, “Ombre sulla Repubblica”.
Dallapuntata del 31 marzo 2015, intitolata “Stay Behind e Gladio. L’ombra nascosta della P2”, trascrivo:
[…] D’altra parte basta ricordare l’omicidio di Olof Palme [28 febbraio 1986], che è uno dei delitti, insieme al delitto Moro, uno dei delitti più gravi e irrisolti della storia d’Europa e la cui responsabilità di questo delitto è sicuramente da attribuire alle forze che volevano impedire, perché volevano impedire a Olof Palme – il capo del governo e segretario del partito socialista, socialdemocratico svedese – di aprire un nuovo dialogo con l’allora Unione Sovietica e con i paesi socialisti. Quello che volle fare Willy Brandt, e infatti a Brandt misero come assistente in casa un ex nazista appartenente alla struttura Stay Behind.
È ben noto che l’“assistente”, cioè il segretario dell’allora cancelliere tedesco Willy Brandt, costretto a dimettersi il 6 maggio 1974, era un certo Günter Guillaume che non era un “ex nazista appartenente alla struttura Stay Behind”, ma un agente provocatore infiltrato del Servizio segreto della Germania Est, come lui stesso asserì al suo processo: “sono un ufficiale dell’armata popolare della Rdt e collaboratore della Stasi”.
Guillaume e la moglie furono condannati a 13 anni e 8 anni per “tradimento”; furono rilasciati nel 1981 in uno scambio di spie. Markus Wolf osservò che le dimissioni di Brandt non erano previste ed era stata una “gaffe monumentale” da parte della Stasi41poiché Brandt con la sua “Ostpolitik” era favorevole agli interessi della Repubblica Democratica Tedesca (DDR) che, al ritorno, conferì alla coppia l’onorificenza dell’“Ordine di Marx”42.
Nel 1985 lo scandalo Hans Joachim Tiedge rilevava l’ampiezza dell’infiltrazione della rete spionistica dell’Est nella Germania occidentale praticamente impossibile da sradicare, che mise in pericolo la partecipazione dell’industria tedesca al programma tecnologico per le “guerre stellari”.
L’ex capo-stazione della Cia a Bonn, George Carver, dichiarò che da anni i servizi segreti americani avevano eretto una barriera negli scambi informativi con alcuni paesi alleati: la Repubblica Federale Tedesca (Rdt), la Turchia, la Grecia, il Belgio e l’Italia giudicati “infetti da rischio” comprese le infiltrazioni nella Nato oramai confermate dall’apertura degli archivi del Patto di Varsavia.
Gli atti dei procedimenti sull’assassinio di Olof Palme (febbraio 1986) circa 10 mila pagine sono accessibili da almeno trent’anni.
Furono prese in considerazione numerose piste e anche la Cia, poiché Palme aveva auspicato una denuclearizzazione dei Paesi nordici dopo il primo dispiegamento di SS 20 sovietici (1977) e di forze nucleare intermedie americane in Europa, oggetto di preoccupazione e di dibattito tra i membri della Nato43.
Nel 1986, vi fu l’incontro Gorbačëv-Reagan e nel 1987 firmarono il Trattato sulle forze nucleari. Roberto Scardova figura come curatore di tre volumi promossi dall’Associazione dei familiari delle vittime eautore di un saggio intitolato L’oro di Gelli44 (citato anch’esso nelle motivazioni, p. 496). Fa parte quindi del gruppo che ha redatto e curato i libri derivati dagli “esposti” che hanno avviato l’inchiesta sui “mandanti” (defunti) della strage di Bologna da cui sono scaturite le due sentenze di primo grado di condanna all’ergastolo di Gilberto Cavallini e Paolo Bellini.
Il “golpe bianco” e il “segreto di Stato”
Ovviamente non potevano mancare Pace e Libertà, la rivista diffusa negli anni Cinquanta da Luigi Cavallo ed Edgardo Sogno e il cosiddetto “golpe bianco” degli anni Settanta. Nulla di nuovo: la solita massiccia campagna giornalistica, la sopraccitata Relazione del Gruppo Democratici di Sinistra del 2000, mescolando il mazzo con il libro il Testamento di un anticomunista scritto da Aldo Cazzullo con Sogno e diffuso dopo il decesso dell’ex diplomatico45.
A pagina 481 gli estensori scrivono delle motivazioni:
Anche l’istruttoria di Violante su Sogno e Cavallo (le memorie del primo hanno ora definitivamente confermato la validità dell’ipotesi di indagine) fu trasferita a Roma, dove i magistrati non proseguirono nella richiesta di rimozione del segreto di Stato, per la quale Violante aveva ormai aperto la strada.
Sul “segreto di Stato” preciso che in discussione sono i magistrati estensori della sentenza sulla strage di Bologna perché hanno riattualizzato gli atti istruttori del giudice di Torino e disatteso la successiva sentenza istruttoria che assolveva Randolfo Pacciardi, Luigi Cavallo ed Edgardo Sogno “perché il fatto non sussiste” (1978) del dottor Francesco Amato, dove il magistrato affrontava la questione del “segreto” con parole inequivocabili, e quella di archiviazione del giudice romano, dottor Francesco Monastero degli anni Novanta, quando il caso fu riaperto.
È stata ignorata la sentenza della Corte Costituzionale sul “Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale” del 24 maggio 1977 (n. 86/1977 pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 1º giugno 1977) composta dai signori: Prof. Paolo Rossi, Presidente – Dott. Luigi Oggioni – Prof. Vezio Crisafulli – Dott. Nicola Reale – Avv. Leonetto Amadei – Dott. Giulio Gioffrida – Prof. Edoardo Volterra – Prof. Guido Astuti – Dott. Michele Rossano – Prof. Antonino De Stefano – Prof. Leoplodo Elia – Prof. Guglielmo Roehessen – Avv. Oronzo Reale – Dott. Brunetto Bucciarelli Ducci – Avv. Alberto Malagugini.
Nell’ottobre 1977, con la Riforma sui servizi segreti, il “segreto di Stato” nel caso specifico non era più applicabile. Scriveva Cavallo alla Commissione stragi nel 1997:
Io sono sempre stato d’accordo con il giudice Violante per la rimozione totale del segreto di Stato per tutte le vicende giudiziarie in cui sono stato coinvolto, segreto che mi ha gravemente danneggiato poiché poteva lasciar intendere collusioni che assolutamente non esistevano, e di cui hanno approfittato P.M., G.I. e Giudici che potevano giustificare giudizi di assoluzione e/o di condanna con argomenti parimenti infondati, ma che favorivano malevoli tesi politiche d’impronta comunista, anche se il Pci è morto da tempo, ma i suoi residui e metodi sopravvivono e sono ben radicati nel cervello e nello stile d’azione di certe confraternite, sia quelle d’origine piduista sia quelle d’origine cominformista, revisionista berlingueriana, o post-revisionista D’Alemano-togliattiana.
Luigi Cavallo ricordava il giurista Silvano Tosi – che conseguì la laurea nel 1951 con una tesi sul “colpo di Stato”, sotto la direzione di Giuseppe Maraninie una prefazione del filosofoWidar Cesarini Sforza – che nel quotidiano La Nazione in un articolo del giugno 1976 dal titolo “Un segreto di Stato e una ragion di Stato” dedicato al segreto politico-militare posto dagli onorevoli Giulio Andreotti e Aldo Moro su Edgardo Sogno e Luigi Cavallo, scriveva:
quel che importa e dovrebbe muovere a sdegno è che il sistema normativo fascista creato ad esaltazione dello Stato totalitario per mortificare l’individuo (come si esprime il pensiero liberaldemocratico) o la persona umana (come si esprime la dottrina cattolica), venga tuttora mantenuto e utilizzato dalla forza dominante che si definisce democratica e cristiana ad esclusivi fini di “ragion di Stato”.
Sono disattese anche le richieste di audizione e le relazioni fatte pervenire alla Commissione stragi nel febbraio 1996 (ignorate dal sen. Giovanni Pellegrino) e alla Commissione Moro, presieduta dall’on. Fioroni del 2017 classificata “riservata” (sic!). In quanto alla versione sul “golpe” non riuscito nell’agosto 1974 “a causa delle dimissioni di Nixon”, è fantapolitica. La decisione di un intervento militare in un Paese dell’Alleanza atlantica era, ed è, di esclusiva competenza del Congresso americano, unico titolare del diritto costituzionale di impartire le direttive. Neppure il responsabile della Cia, allora William Colby, si sarebbe azzardato, anche solo ad accennare ad un ipotetico intervento militare in Italia, paese geo-politicamente essenziale per gli equilibri in Europa e nel Mediterraneo. L’Italia non era il Cile o altro paese dell’America latina, ogni confusione è inopportuna. Scriveva nel 1969 Manlio Brosio, allora segretario generale della Nato che ricordava il libro di Lord Ismay Nato. The first five Years 1949-1954:
fin dall’inizio la Nato è stata concepita quale strumento per la messa in comune delle risorse morali e materiali dell’Alleanza e non già quale giustapposizione delle sue forze46
Distrazioni “storiografiche”
Si riscontrano, qua e là, frasi che accostano la Francia e l’Italia (p. 164) ritenuti come paesi ostili all’Alleanza. Nel 1966 la Francia di Charles de Gaulle uscirà dal commando militare integrato della Nato ma restando membro fedele dell’Alleanza. Nel discorso del 21 febbraio 1966 le argomentazioni golliste si basavano sull’autonomia della Francia dopo lo sviluppo dell’arma atomica (1960) e del nucleare civile.
Imre Nagy per aver dichiarato nel 1956 l’Ungheria stato neutrale fu impiccato, Budapest invasa, i combattenti ungheresi che non riuscirono a rifugiarsi a Ovest deportati, nel viaggio che li trasportava verso la Siberia, i deceduti venivano gettati dal treno e sul brogliaccio dell’elenco si legge “depennato”.
I Governi italiani hanno sempre rifiutato l’Europa come “terza forza” e l’Italia è sempre stata ben inserita nell’Alleanza atlantica, lo confermava l’ambasciatore francese a Roma, François Puaux, nella rivista dell’Istituto francese di Relazioni internazionali Politique étrangère47.
E, nel dibattito aperto sulla difesa autonoma del vecchio continente, anche il bulgaro Boris Guerrassimov in Novosti (19 aprile 1978) e il segretario alla Difesa americano, Harold Brown, nella conferenza tenuta a Londra il 17 aprile 1978, dopo la riunione di Belgrado (ottobre 1977 – marzo 1978) dove furono esaminate le conclusioni dell’atto finale della conferenza di Helsinki.
Leggo una frase che lascia esterrefatti (p. 163):
Il pericolo diventa acuto nei primi anni Sessanta con l’avvio della fase politica del ‘centrosinistra’, considerata l’anticamera della presa del potere da parte dei comunisti.
È stato diffuso un numero incredibile di studi in merito al centrosinistra ma gli estensori fanno da “spalla” a Paolo Bolognesi che pone sulla stessa linea il “centro sinistra” e “il compromesso storico” nella Prefazione al libro Alto Tradimento, curato dallo stesso Paolo Bolognesi48 (p. 5).
Il centrosinistra in Italia è stato sostenuto dagli Americani con finanziamenti rilevanti (lo ha scritto lo stesso senatore Giovanni Pellegrino nella Proposta di relazione alla Commissione stragi del 1995). Ovviamente, non un minimo cenno – come se la sinistra fosse tutta serva del Pci – sull’illecita interferenza dei comunisti nella vita politica del partito socialista.
La critica alla politica estera americana è del tutto legittima, ma non in un coacervo di notizie disgregate, e certamente non utilizzando alcuni autori e consulenti che in passato furono “esaltati” da EIR (Executive Intelligence Review) e altre riviste fondate da Lyndon LaRouche, apprezzate nell’ambiente eteroclito di certi Servizi segreti e di un certo estremismo anti Nato, e soprattutto anti europeo.
Menzionati in una sentenza come “fonti storico scientifiche” diventa inquietante se preceduta da quanto si è verificato dopo la direttiva del presidente del Consiglio nell’aprile 2014 riguardante la declassifica per il versamento straordinario di documenti all’Archivio Centrale dello Stato riguardanti stragi e attentati dal 1969 (bomba di piazza Fontana) al 1984 (attentato al rapido 904). Procedure non inusuali, senonché un decreto del Segretario generale della Presidenza del Consiglio istituiva un Comitato consultivo, e evidenti pressioni politiche hanno determinato la cooptazione nel Comitato dei rappresentati delle associazioni delle vittime del terrorismo.
Si è costituito un precedente per il quale associazioni private, per di più composte da aventi causa negli avvenimenti, esercitano funzioni, per quanto consultive, di controllo sui versamenti negli archivi di Stato: si contravviene ad un principio di eguaglianza dei cittadini, mentre la competenza sul piano della ricerca storica è affidata a associazioni fortemente, e inevitabilmente, ideologizzate, non certo in possesso del metodo storico.
Caso unico, credo, nella prassi dei paesi occidentali.
La “propaganda” in un’aula giudiziaria
Il colonnello Massimo Giraudo, nella sua testimonianza del 16 giugno 2021 utilizza espressioni “disinvolte” che non ci si attende da un appartenente all’Arma dei carabinieri: dalla “visceralità dell’anticomunismo degli americani” al termine “pantano” in merito all’Indocina francese e al Vietnam. Mentre l’avvocato di Parte civile, Speranzoni(che ricorda i processi di cui si è occupato in ogni suo intervento pubblico!) ha depositato, citata dalla Corte, documentazione in merito a quella che viene chiamata comunemente la “guerra sucia” (1960-1980) e l’operazione Condor.
L’Italia, negli anni immediatamente successivi alla fine del secondo conflitto mondiale non ebbe più una politica estera autonoma ma non è giusto pretendere che fosse “infeudata” agli Stati Uniti.
In numerose occasioni Roma si espresse e adottò posizioni divergenti, ricordiamo che Amintore Fanfani nel 1963 chiese a Washington il ritiro dei missili Jupiter installati nel 1957, nel timore di una trasformazione in zona di ripiego alle basi evacuate in Grecia, fece sapere che in nessun caso avrebbe accettato il trasferimento sul suolo italiano; e, nell’ultimo anno della presidenza Carter, non accettò di lasciarsi trascinare, al di là del ragionevole, nella vicenda delle sanzioni contro l’Iran richiesta da Washington con il rischio di perdere tre miliardi di dollari di contratti e così in altre occasioni, in particolare se suffragati dalla Comunità europea.
Il terrorismo impone uno studio approfondito delle diverse culture, quindi di vagliare e rispettare i singoli percorsi nei singoli paesi. Sarebbe stato più appropriato, dato che incriminati sono dei militanti di “Ordine Nuovo” ed altre sigle similari, ricordare le stragi commesse dagli Italiani durante il periodo mussoliniano in Jugoslavia, in Albania, in Grecia e in Africa con l’uso anche di gas. Il testimone incaricato delle investigazioni, colonnello Giraudo, ha ritenuto invece opportuno ignorarle e citare il generale Heinz Guderian (?), il “Safari club” (!?), e la “direttiva Westmoreland” (?!) che utilizza impropriamente e come il prezzemolo (p. 881).
Giraudo ha dichiarato:
L’America in quel momento lì ha una débâcle nella lotta al comunismo e che cosa succede nel ’76? Viene creato il Safari Club, fu chiamato così perché nasce in una località del Kenya, in un hotel appunto che si chiamava Safari, dove alcune potenze e tra l’altro i francesi e quindi deve pensare al retroterra che potevano mettere in campo i francesi, le nazioni si impegnano nella lotta senza quartiere al comunismo e lì quindi possiamo dire che… Io non ho sentito la testimonianza del professor Giannuli, lui parla di una cesura nel ’75, io vi dico il documento nel 1976 parte, poi ovviamente non è che vanno al minuto quindi c’è un periodo di inerzia della Westmoreland e un periodo di rodaggio delle nuove… [strategie].
Jacques Vernant, fondatore e direttore del “Centre des études de politique étrangère” di Parigi – durante la Resistenza era stato capo di Gabinetto del comunista Raymond Aubrac – osservava in Politique et Diplomatie:
“Nixon presidente, per i dirigenti del Cremlino, fu l’interlocutore privilegiato”.
Le evoluzioni delle relazioni americano-sovietiche furono evidenziate dalla visita del presidente Nixon nel luglio 1974 su invito di Brežnev preceduta e ritenuta necessaria da Richard Nixon e da Henry Kissinger a seguito della firma a Bruxelles del presidente statunitense e dei 14 stati membri dell’Alleanza atlantica che riaffermarono e sottolinearono la necessità permanente di coesione occidentale, mentre in Medio Oriente la crisi era diventata da acuta a cronica49. Nel settembre 1975 il comunista Eugenio Peggio si recherà a Washington al Fondo monetario Internazionale. Si legge nel settimanale L’Europeo del 5 settembre 1975:
L’uomo che romperà il gelo, nella marcia di avvicinamento Usa-Pci si chiama Eugenio Peggio, ministro dell’economia del Partito comunista. La notizia del viaggio di Peggio a Washington conferma la “strategia dell’attenzione” che, dopo il 15 giugno [1975], il Dipartimento di Stato americano, i grandi organi di stampa e l’opinione americana hanno messo in atto verso il nostro comunismo […] e Giorgio Amendola viene citato dagli americani come un modello di uomo politico.
Al convegno era presente anche il dottor Paolo Baffi, governatore della Banca d’Italia. La grave crisi energetica e l’Europa furono al centro del dibattito ed Enrico Berlinguer fu intervistato dal settimanale Time. Il comunista Sergio Segre, nel 1976, già relatore in sede Unione Europea Occidentale – Western European Union) di importanti e ottimi Rapporti, farà il suo esordio in America al “Council on Foreign Relations” come ambasciatore straordinario della politica comunista e il Washington Post scriveva:
gli attuali dirigenti del Dipartimento di Stato cominciano a guardare al Pci come un possibile e serio interlocutore che permetta loro di capire meglio la realtà della politica italiana.
Alexandre de Marenches e il Safari club
Dal 1975-1976, mentre i senatori americani erano impegnati (non nella lotta ai comunisti!) nella “débâcle” sulle clausole giuridiche atte ad imbrigliare la Cia, l’Urss piazzava decine di migliaia di “consiglieri” e istruttori militari in importanti scacchieri d’Africa e dell’Oceano Indiano.
Il Safari Club, nato nel 1976 nella stazione Mount Kenya Safari, fu fondato da Alexandre de Marenches, direttore del Service de Documentation Extérieure et de Contre-Espionnage francese (SDECE) e dai direttori dei Servizi segreti dell’Arabia Saudita, dell’Egitto, del Marocco e dell’Iran, ovviamente in funzione anti sovietica.
Il Club si trasferì in Egitto e mantenne dei rapporti informali con gli americani tramite un agente della Cia, coordinati con Israele e gli Usa nell’ambito mediatore del pourparler tra Egitto e Israele che condusse Sadat a visitare Gerusalemme nel 1977, poi a Camp David nel 1978 e al Trattato di pace Israele-Egitto nel 1979. Il Club chiuse l’attività nel 1980 a seguito della “rivoluzione” sciita in Iran (novembre 1979), de Marenches lo stesso anno lasciò il Servizio. L’Hotel era di proprietà di Adnan Khashoggi, miliardario, mercante d’armi, la sorella sposò Mohamed al-Fayed, il cui figlio morì nell’incidente insieme alla principessa Diana mentre l’altra sorella era la madre del giornalista Jamal Khashoggi, assassinato nel 2018 in Turchia. Eventualmente possiamo inquadrare il Safary club nell’intervento militare nello Zaire in risposta all’invasione dell’Angola o al rifornimento di armi alla Somalia nel conflitto del 1977-1978 con l’Etiopia.
Quale rapporto tra la strage di Bologna, l’opposizione antisovietica in Africa di de Marenches, sauditi, iraniani, eccetera, dove l’Italia e la Nato non ebbero alcun ruolo e ovviamente il “Westmoreland”. Studiosi come Raymond Aron o Henry Morgenthau Jr., segretario al Tesoro statunitense – che organizzò il processo svoltosi nel Palazzo di Giustizia di Norimberga contro i criminali nazisti, sito, allora, in zona americana – hanno sottolineato la differenza nel contenimento dei comunisti da parte degli Stati Uniti in Asia, Africa o in Europa. In Europa, si trattava di bilanciare il peso delle forze del Patto di Varsavia e quelle della Nato nell’ambito delle armi nucleari. In Asia, in Africa il problema del comunismo era legato alla liberazione dai regimi coloniali o al nazionalismo. Il generale britannico Richard Clutterbuck, pioniere degli studi sulla violenza politica, redattore del libro Guerrillas and Terrorist50 al Consiglio d’Europa (Strasburgo, 12-14 novembre 1980) nella “Conferenza sulla difesa della Democrazia contro il terrorismo in Europa” dichiarava:
È pericoloso applicare in un Paese le conclusioni di esperienze di un altro paese senza tener conto delle differenti situazioni. L’estrema diversità di prospettive politiche e sociali, di modi di organizzazione dei servizi di Polizia, militari, paramilitari e informative, della natura della minaccia, si è tradotta per un eguale diversità nel carattere e l’ampiezza delle operazioni terroriste e antiterroriste intraprese in ognuno dei cinque paesi europei che sono stati le principali vittime del terrorismo: l’Italia, la Rft, la Gran Bretagna, la Spagna e la Turchia (mentre l’Irlanda deve essere esaminata separatamente).
Gli “accordi di Yalta” e il “compromesso storico”
Sebbene siano trascorsi quasi 80 anni dalla fine della seconda guerra mondiale – e nonostante che la divisione dell’Europa non dipese dagli accordi di Yalta – in Italia, un illecito mito popolare continua a persistere anche tra gli “studiosi” (per non ripetermi rinvio al mio articolo: “La conferenza di Yalta 75 anni fa, la leggenda e il caso Moro)51.
Scriveva Bino Olivi, nell’opera dedicata a Carter e l’Italia52
La divisione in Europa, si impose per come era nato il conflitto e come si era sviluppato: le due superpotenze vincitrici, Urss e Usa, erano estranee al precedente equilibrio continentale vi fu una spaccatura nel nostro vecchio continente in due sistemi politici, economici, ideologici contrapposti […]. Da quel momento ogni blocco ha avuto un suo “protettore” e una sua diversa forma di “sovranità limitata” che nella sfera sovietica si manifestò nel modo più brutale.
Gli “accordi” sono diventati il centro di tutti i mali che conducono alle stragi, all’omicidio Moro e al tentativo di assassinio di Berlinguer in Bulgaria nel 1973 come ha scritto Giuseppe Vacca nella sua “storytelling” (per utilizzare un termine caro al professore) nella prefazione, recepita dalla Corte (p. 162 nota 27) al libro Sofia 1973. Moro deve morire di Corrado Incerti e Giovanni Fasanella.
In effetti, il segretario del Pci due mesi dopo (4-8 dicembre 1973)53 si recò per una cordiale visita nella Germania Est i cui dirigenti sono sempre stati i primi a sostenere l’Urss, e la Repubblica Democratica Tedesca (Rdt) nel 1976 fu l’invitata d’onore al festival de L’Unità. I fondi archivisti del Partito Socialista Unificato di Germania (Sed) a Berlino Est testimoniano degli ottimi rapporti.
Il quotidiano Le Monde dell’11 ottobre 1978 titolava: “Brejnev et Berlinguer sont décidés à renforcer la coopération des partis communistes”, e l’agenzia Tass precisava che Berlinguer aveva sostato tre giorni a Mosca dove lunedì 9 ottobre 1978 era stato ricevuto da Leonid Brežnev, Michail Suslov e Boris Ponomarëv, in un “clima di amicizia e cameratismo”.
Il Pci non era in grado di staccarsi dall’Urss e di portare avanti una “politica antisovietica”, soprattutto in politica estera, tanto che i finanziamenti (Brežnev e Andropov non erano dei filantropi!) arrivarono puntuali fino alla caduta del Muro, e non si sarebbero conclusi importanti contratti di aziende italiane con Mosca nell’ambito degli armamenti, grazie all’intervento mediatore del Pci e a forti tangenti che Tangentopoli ha preferito ignorare e dare in pasto ai cittadini una deplorevole e costosa Commissione Mitrokhin.
In Italia dal Pci avrebbe potuto nascere un forte partito di sinistra, ma non è stato così perché la metamorfosi avrebbe richiesto una profonda riflessione e quindi una grave sconfitta ideologica. Negli atti del Convegno organizzato dal Centro culturale Mondoperaio nel marzo 1988, Leo Valiani osservava:
È il concetto di totalitarismo che la sinistra italiana per decenni si è pervicacemente rifiutata di prendere in considerazione
E Vittorio Strada notava che:
L’interpretazione dello stalinismo come fenomeno puramente russo o come parentesi aperta da una rivincita dell’“arretratezza” russa, non solo è storicamente falsa e spesso contradittoria, ma serve a ridurre le proporzioni del fenomeno e limitarne le responsabilità. Basta ricordare il fatto empirico che lo stalinismo trionfò anche in Occidente e che ardua anche qui fu l’opposizione ad esso.
Ha scritto Thierry Wolton ne Le Figaro del 17 marzo 2023:
Gli Ucraini pagano oggi la nostra mancata riflessione di fondo sul comunismo.
I Servizi segreti piduisti e il Pci
La riforma dei Servizi divenne operativa il 13 dicembre 1977 con l’istituzione del “Comitato permanente per il controllo sui servizi di sicurezza”, presidente il democristiano Erminio Pennacchini e vice presidente il senatore comunista Ugo Pecchioli che avallò la nomina a vice direttore del Sisde di Silvano Russomanno che per anni fu vice capo dell’Ufficio affari riservati del Ministero dell’Interno e corresponsabile del depistaggio delle indagini su piazza Fontana; di Walter Pelosi al vertice del Cesis; di Giuseppe Santovito al Sismi; del generale Giulio Grassini al Sisde. Esercitando i poteri “di controllo, proposta e iniziativa” il “Comitato” diresse i Servizi segreti e mai, in quegli anni di stragi, Pecchioli e compagni denunciarono le attività devianti dei vertici e delle strutture “piduiste”, e non, di Sisde, Sismi e Cesis, tutte operanti emanazioni di responsabili politici della maggioranza parlamentare di “unità nazionale”.
Il capitano di fregata Angelo De Feo, ex funzionario del Sismi e prima del Sid, interrogato dal giudice Carlo Palermo (8 novembre 1983) dichiarava in un lungo scritto depositato agli atti:
non vi è dubbio che se si fosse veramente voluto creare un nuovo organismo, non dipendente e condizionato dal passato, si sarebbe dovuto assicurare un totale ricambio degli ufficiali assegnati al Servizio per evitare che il problema dell’illegittimità e delle prevaricazioni compiute dal Servizio si ripresentassero, come poi avvenuto, periodicamente in tempi sempre più brevi. Mentre il connubio Sifar-centro di potere occulto, sembrava indirizzato a consentire prevalentemente il controllo della vita politica nazionale, l’intesa Sid-P2 aveva essenzialmente il fine di assicurare con ogni mezzo benefici finanziari, prevalentemente a danno dello Stato, attraverso il controllo delle principali attività economiche del Paese.
La “storiografia” e il colonnello Massimo Giraudo
Il colonnello Massimo Giraudo, nella sua testimonianza di più di quattro ore del 9 giugno 2021, ha ricordato che ex nazisti, alla fine del conflitto, furono recuperati dagli americani. Ha preferito ignorare che anche i sovietici, gli inglesi, i francesi e gli argentini di Juan Perón e i comunisti integrarono dei nazisti. L’interesse era rivolto agli addetti del complesso militare industriale della Germania hitleriana, gli scientifici nazisti permisero il progetto della prima bomba atomica sovietica. La Gran Bretagna e la Francia recuperarono i “cervelli” che lavorarono ai primi motori a reazione.
Tutti i paesi integrarono militari ex nazisti nel campo dell’informazione e del controspionaggio, la più nota è l’Organizzazione del generale Reinhard Gehlen. L’armata popolare nazionale della Germania Est era composta da sovietici e da ex militari della Wehrmacht. Il generale Otto Korfes, catturato a Stalingrado, collaborò con Walter Ulbricht, membro del partito comunista tedesco (Kpd); Korfes nel 1952 fu responsabile della polizia della Repubblica popolare della Germania Est e gettò le basi per la struttura degli archivi della Stasi, i Servizi della Germania Est.
È una “prassi” post bellica imposta dalle esigenze dell’immediatezza e della ricostruzione, e il colonnello dei carabinieri Giraudo non può non esserne al corrente. Palmiro Togliatti emise un’amnistia per tutti i fascisti, è fatto noto, lo scriveva già Luigi Cavallo in Pace e Libertà nel 1954 quando ne fu il direttore. Pare lo abbia scoperto anche la presidente Giorgia Meloni ultimamente! Togliatti nominò capo di Gabinetto Gaetano Azzariti, ottimo giurista, ma che nel 1938 aveva collaborato alla stesura delle leggi razziali e fu presidente del Tribunale della razza. Nel 1957 fu eletto presidente della Corte Costituzionale e morì nel 1961 mentre era ancora in carica. L’episodio è riferito da Italo De Feo, Tre anni con Togliatti54, citato da Edmondo Bruti Liberati, Magistratura e società nell’Italia repubblicana55 e nell’opera del professor Saverio Gentile, La legalità del male. L’offensiva mussoliniana contro gli ebrei nella prospettiva storico-giuridica (1938-1945)56.
Riscontro decise divergenze tra me e i magistrati e i consulenti sulla definizione di “fonte storica”.
Il colonnello continua nella sua testimonianza:
Quindi questo non si capisce se non si apprezza sulla pelle il rumore dei cingoli dei carri armati sovietici. E questo è estremamente importante. Tenete presente che questi soggetti come [Karl] Hass, [Herbert] Kappler, [Erich] Priebke, [Walter] Reder sono tutti soggetti che hanno vissuto le teorie belliche di [Heinz] Guderian [1888-1954], che è l’inventore del Blitzkrieg tedesco. Guderian entrò diverse volte in contrasto con Hitler e Guderian era un convinto assertore, soprattutto quando Hitler lo incaricherà di attaccare i russi, della netta superiorità dei russi nel campo dei carri armati. E quindi la cultura di questi uomini, anche poi toccata con mano con la battaglia di Stalingrado, era una cultura di estremo pericolo dell’Armata Rossa e di superiorità dell’Armata Rossa. E quindi sentivano attuale e concreto questo pericolo. Importanza era fare il passaggio cioè quello che noi vediamo negli anni Cinquanta coi Far [Fasci di azione rivoluzionaria] non è altro che quello che vedremo poi con Ordine Nuovo.
Mi siano dunque concesse alcune doverose precisazioni:
1) Il grande maître del Blitzkrieg è stato il generale Erich Lewinski von Manstein – costruttore della Reichswehr, poi consigliere di Konrad Adenauer per la creazione della Bundeswehr, personaggio che Adolf Hitler ammirava e invidiava nello stesso tempo. Infatti ebbero numerosi aspri scontri.
2) Heinz Guderian non inventò ma applicò il Blietzkrieg e trasmise a Hitler il rapporto del generale Reinhard Gehlen che anticipava la grande offensiva sulla Vistola-Oder, nei pressi di Baranow che Hitler definì “un tessuto di idiozie”.
3) Stalingrado fu un tournant importante, ma i sovietici uscirono stremati con perdite di materiale di un terzo superiore a quello dei nazisti; l’effettiva vittoria militare avvenne a Kursk, la più grande battaglia di carri armati della storia (5 luglio – 23 agosto 1943) sotto la responsabilità di Erich von Manstein.
4) Quando tre divisioni corazzate delle SS bloccheranno per sei mesi sulle rive della Vistola l’Armata del maresciallo Konstantin Rokossovskij che cercava di raggiungere Varsavia, Stalin convogliò sul fronte migliaia di mezzi corazzati e di trasporto truppe forniti dagli Stati Uniti per preparare l’ultima grande offensiva che doveva portare le armate di Ivan Konev, Georgij Žukov, Rodion Malinovskij e Fëdor Tolbuchin all’Elba. Ci sono opere ben documentate di ottimo storici come quello di Jean Lopez e Lasha Otkhmezuri, Les maréchaux de Staline57.
5) I “cingoli dei carri armati russi” se li ricordavano non i fascisti dei Fasci di azione rivoluzionaria (Far) ma gli operai comunisti d’Europa orientale, a Berlino Est (1953), Budapest e Poznan (1956) massacrati dai “quisling” sovietici, interventi definiti “operazioni speciali” in violazione degli articoli 8 e 4 del Patto di Varsavia. Non a caso, la dottrina della “sovranità limitata” dei Paesi socialisti nei confronti dell’Urss venne enunciata da Leonid Brežnev il 2 luglio 1968, alla vigilia dell’invasione della Cecoslovacchia (20-21 agosto 1968).
6) I Fasci di azione rivoluzionaria e le destre nel dopoguerra erano anti-americani e nella loro prima azione nel 1951 posero le bombe al Ministero degli Affari esteri e all’Ambasciata americana di Roma.
Sull’origine e sull’evoluzione dell’estrema destra in Italia e in altri paesi europei la storia non è uniforme.
La destra nazionalista in Francia ha combattuto contro i tedeschi, lo stesso generale Raoul Salan che partecipò con altri militari al putsch dell’aprile 1961 ad Algeri in opposizione al generale Charles de Gaulle, e tra i fondatori e capo dell’Organisation armée secrète (OAS), allora colonnello, nell’agosto 1944, intervenne nella liberazione di Tolone sotto il comando del generale Jean de Lattre de Tassigny. L’Italia mussoliniana fu alleata dei nazisti e nel dopoguerra non aveva più colonie da difendere.
Per costruire il grande affresco è stato “raccattato” di tutto, persino Pier Francesco (non Gianfranco) Talenti, personaggio da operetta, e tale Giovanni Bandoli, ex capitano dell’esercito, ex partigiano di Giustizia e Libertà (GL), membro della giunta esecutiva Regionale Piemontese del “Fronte Nazionale” che scopro operante per i Servizi di sicurezza del Comando delle Forze Terrestri Alleate per il Sud Europa (FTASE)58 che a mia conoscenza era soprattutto un “arnese” provocatore della polizia locale torinese che attuò delle provocazioni nei confronti di Edgardo Sogno e Luigi Cavallo nel periodo del cosiddetto “golpe bianco”. Sono discriminate le fonti non in linea con la tesi dell’“l’oltranzismo atlantico”, terminologia ripetuta otto volte nella testimonianza di Vincenzo Vinciguerra che la Corte commenta (p. 356):
In definitiva, come ha ripetuto fino alla noia Vincenzo Vinciguerra, la matrice delle stragi va ricercata in quegli ambiti che strumentalizzarono e gestirono la politica degli opposti estremismi. Al loro interno le forze della conservazione del sistema erano ampiamente operative e in grado di provocare e sostenere ogni tipo di azione funzionale alla conservazione o all’evoluzione in senso autoritario, ma sempre all’interno della cornice liberaldemocratica, opzione che gli analisti del Field Manual indicavano come preferibile, a condizione che fosse in grado di contenere il pericolo comunista.
I propositi di Vinciguerra rilevano dell’idiozia culturale sia nei contenuti che nel confuso linguaggio politico che manifestamente non controlla e non ne conosce l’origine.
Il Field Manual 30-31 è un manuale di controguerriglia, non un manuale politico.
In Italia il termine “liberaldemocratico” si riferisce nella storiografia alla corrente “radicale” del liberalismo in età carloalbertina nel Regno di Sardegna. Ne fu esponente Lorenzo Valerio, attorno alla rivista La Concordia, in opposizione, in quel periodo, alla corrente liberale moderata di Camillo Benso di Cavour59.
In anni più recenti, con l’avvento di Silvio Berlusconi, il termine è stato impiegato impropriamente per indicare movimenti e correnti politiche senza alcun possibile rapporto con il liberalismo risorgimentale. “Liberale”, “liberalismo” non hanno lo stesso senso né lo stesso percorso negli Stati Uniti d’America o nei paesi dell’Europa continentale.
I liberaldemocratici in Vietnam?! Un approfondimento della storia vietnamita sarebbe di rigore: 900 anni di indipendenza nazionale (938-1862), dinastie nazionali, espansione verso sud, influenza culturale cinese e resistenza contro il potenziale occupante, 80 anni di colonizzazione francese (1862-1945), occupazione giapponese dal 1940 al 1945 eccetera.
Non si possono analizzare i paesi asiatici o dell’ex Urss o la Russia degli zar con una mentalità occidentale.
Nel gennaio 1966 era stata costituita una commissione speciale sul problema vietnamita presieduta dal senatore James William Fulbright con interventi del segretario di Stato, Dean Rusk, di George Kennan e dello stesso generale Maxwell Taylor, eccetera.
Esiste un volume in versione italiana con la prefazione di Altiero Spinelli60.
Non mancano le letture di opere sia comuniste sia di opposizione sulle concezioni americane in materia di insurrezione nella guerra in Vietnam e fonti critiche come gli stessi Pentagon Papers, editi dal senatore Mike Gravel, tra il 1971-197261; inoltre è di rigore una consultazione delle pubblicazioni dell’Institute for Study of Conflict di Londra.
Lo stesso generale Raoul Salan ha redatto un libro dal titolo Indochine rouge. Le message d’Hô chi Minh62. Salan ad Hanoi era stato amico di Ho chi Minh che aveva accompagnato alla conferenza di Fontainebleau nel 1946, aveva frequentato il generale Võ Nguyên Giáp con il quale ebbe lunghe conversazioni. Il testo, al di là delle sue opinioni politiche, è di facile lettura e illustra bene sia i metodi della guerriglia VietCong, sia l’organizzazione delle riposte americane. Le alleanze “adultere” talvolta sono opportune e in questo caso Vinciguerra diventa un testimone importante perché di supporto alla tesi dello “stragismo atlantico”, anche se racconta un sacco di corbellerie.
I giudici dovrebbero attenersi ai fatti criminali che lo concernono non elevarlo ad oraculum consulere su strategie politico-militari nazionali e internazionali.
La “Gauche prolétarienne” e “l’Aginter Presse”
All’inizio della lunga nota 51 che inizia a pagina 287 delle motivazioni della Corte d’Assise di Bologna si accenna ad “una delle… relazioni” (non meglio precisate) del prof. Giuseppe De Lutiis. In effetti, si tratta della “relazione peritale consegnata il 1º luglio 1994 al giudice, dr Leonardo Grassi” come scrive lo stesso De Lutiis nella “Premessa” (p. 3) al già citato libro Il lato oscuro del potere. Il paragrafo 2 del capitolo I è intitolato “Il supplemento B al Field Manual 30-31” (pp. 11-16, con note alle pp. 169-170).
Non disponendo del “Rapporto del Ros dei carabinieri ai giudici istruttori di Milano dottor Guido Salvini e di Bologna Leonardo Grassi in data 14 febbraio 1994” (nota 15 di p. 169 del libro di De Lutiis) redatto dal colonello Giraudo, non resta che leggere quanto scrive lo stesso De Lutiis, in particolare alle pagine 15-16, dove si trovano citati estratti del documento “Notre action politique”, trovato nell’archivio dell’Aginter Presse nel novembre 1974 dai giornalisti del settimanale L’Europeo, Corrado Incerti e Sandro Ottolenghi; il FM 30-31B; l’operazione Chaos e la Commissione Rockefeller.
La riproduzione originale della prima pagina dattiloscritta (in francese) del testo intitolato Notre action politique (la traduzione italiana si trova nel libro di Fabrizio Calvi e Frédéric Laurent, Piazza Fontana63 e pure gli articoli de L’Europeo del novembre 1974, sul FM 30-31B anche se solo in trascrizione.
Le tesi esposte dai due Autori vanno inquadrate nell’ambito di un’ampia campagna antiamericana tendente a coinvolgere agenti della Cia (veri o presunti) in stragi e omicidi squisitamente italiani. Frédéric Laurent è autore di L’Orchestre noir pubblicato nel 1978 e dedicato alle organizzazioni estremiste di destra64. Negli ultimi anni della presidenza di Francois Mitterrand è stato uno degli addetti alla segreteria di François de Grossouvre che dirigeva le operazioni parallele dell’Eliseo.
Fabrizio Calvi è il nome d’arte dell’egiziano (copto) Emile ZagDun, che ha lavorato in Italia parecchi anni seguendo le attività delle organizzazioni terroriste come corrispondente del quotidiano Liberation. In Italia Fabrizio Calvi è noto per il suo secondo libro Camarade P. 38, pubblicato nel 1982 e dedicato alla “Brigata 28 marzo” e alla ricostruzione dell’assassinio di Walter Tobagi65.
Olivier Schmidt ha redatto per anni un bollettino informativo di tipo poliziesco, diffuso tra i funzionari del ministero dell’Interno: Le Monde du Renseignement.
Il colonnello Giraudo nella sua deposizione ha precisato di aver incontrato militanti della “Gauche prolétarienne” (GP). Creato nel 1968, movimento di estrema sinistra, maoista e di cui ricordiamo i numerosi atti di violenza, massicciamente infiltrato, chiuderà i battenti nel 1973; il colonnello era bambino. Immagino che gli incontri siano avvenuti negli anni Novanta su incarico del giudice istruttore Guido Salvini, ma non ha precisato chi ha incontrato, quando e dove. Ascoltata la deposizione di Giraudo ho fatto immediatamente il collegamento con gli archivi del quotidiano francese Libération fondato nel 1973 da ex di Gauche prolétarienne, dove per almeno quarant’anni tutti gli addetti ai lavori sono andati a “pescare” le notizie sull’Aginter Presse (esclusi i giornalisti de L’Europeo che si erano recati personalmente in Portogallo). Il libro di Laurent segnala collegamenti più saltuari ed episodici che organici. La parte internazionale del libro Piazza Fontana, dove è citato anche il colonnello Giraudo, è stata tratta appunto dai vecchi e arcisfruttati archivi di Yves Guérin-Sérac (Yves Guillou) e dell’Agenzia “Aginter-Presse” divulgati nel 1974 da Lisbona, quindi da Madrid e Parigi e “sbarcati” in Italia nel processo su piazza Fontana.
A Libération era impiegato Antonio Bellavita, latitante in Francia e responsabile, insieme al fratello Luigi, della rivista fiancheggiatrice delle Brigate Rosse Controinformazione che negli anni Settanta aveva diffuso informazioni sul colonnello Renzo Rocca e Georges Albertini provenienti dagli archivi dei carabinieri e del Sid (secondo il redattore), veri o falsi non posso saperlo ma decisamente apocrifi nei contenuti. Queste informazioni le ritroviamo nel libro Italicus (a cura, l’autore è ignoto) di Paolo Bolognesi e Roberto Scardova e prefazione di Claudio Nunziata66.
Albertini, personalità controversa e responsabile delle pubblicazioni di Est &Ouest (ex Beipi) che per anni furono fonte di riferimento per gli studiosi, tra i collaboratori Boris Souvarine che aveva fondato Critique sociale con Simone Veil e altri. I fondi sono conservati all’Istituto di storia sociale di Parigi – IHS. Albertini per Est&Ouest e Luigi Cavallo per Tp, l’agenzia di Berlino di cui era condirettore, condussero insieme all’associazione dei “Freiheitlicher juristen” (Liberi giuristi) di Berlino, a Bela Kirali da New York (che rappresentava l’Ungheria in seno al Comitato “General Committee dell’Assemblea dei Captive European Nations” – (ACEN pubblicazioni) ed altri, in sede Onu nel lontano 1956, una campagna con il tentativo disperato di liberare Imre Nagy e Maleter in accordo con il senatore Henry Cabod Lodge, ambasciatore Usa all’Onu67.
L’Aginter Presse per anni funzionò da centrale d’informazioni/disinformazioni della Pide, la polizia segreta della dittatura di António de Oliveira Salazar, soprattutto in operazioni criminali nelle colonie portoghesi. Gli archivi della Pide sono accessibili dal 1992, a Torre Do Tombo a Lisbona, ma nulla di nuovo è stato apportato sia da Giraudo che dai vari consulenti sui rapporti tra i Servizi italiani con quelli portoghesi, la ricerca è circoscritta all’Aginter Presse e a Guérin-Sérac come da archivi di Libération.
L’“indebita estensione” sulla “domestic operation Chaos”
Nelle motivazioni (p. 288, nota 51 e p. 290) si legge:
Tenuto conto del contenuto del documento – prosegue il perito – è bene ricordare che nel 1975 (?) la cosiddetta Commissione Rockefeller, “Commission on Cia Activities within the United States”, redasse un rapporto all’allora presidente Nixon (rectius: Ford) sulla covert operation denominata in codice “Chaos”. Il rapporto è stato declassificato e reso pubblico nel 1977. Scopo dell’operazione Chaos era l’infiltrazione in gruppi, associazioni e partiti dell’estrema sinistra extraparlamentare (anarchici, marxisti-leninisti operaisti e castristi) d’Italia, Francia, Gran Bretagna, Spagna e Repubblica Federale Tedesca […] Per questi motivi il piano Chaos fu liquidato dal nuovo capo della CIA [Wlliam] Colby nel 1975 dopo la conclusione del negoziato sulla cooperazione e la sicurezza in Europa […] Fu liquidata anche la dottrina della guerra rivoluzionaria in coincidenza con la fine della strategia della tensione.
Le frasi non corrispondono agli eventi. Il termine “Chaos” fu attribuito all’operazione non per creare caos ma a causa dei disordini dovuti alle lotte negli Stati Uniti d’America per i diritti civili e degli oppositori alla guerra in Vietnam come è ben precisato nel testo della commissione Rockefeller nell’Appendix V (p. 285). La parte dedicata alla “Special operation group: Operation Chaos” (cap. 11) alla p. 132, si legge:
“A. Origins of Operation Chaos (August 1967) “In the wake of racial violence and civil disturbances68 […].
A pagina 134:
“C. Evolution of Operation Chaos – Domestic Unrest in 1968”69
La commissione Rockefeller richiamava il “Bill of Rights in the constitution protect individual liberties” (p. 3) che diede il via all’inchiesta. Era illegittimo da parte della Cia “monitorare i cittadini dissidenti americani”, anche se i movimenti pacifisti avevano origine dai Partigiani della pace ed erano gestiti dall’Urss. William Colby, direttore della Cia dal settembre 1973 al gennaio 1976, impose nel 1974 l’allontanamento di James Jesus Angleton dal controspionaggio, per l’arbitrario controllo della posta di cittadini americani dissidenti.
Sul terrorismo interno negli Stati Uniti d’America si veda la “National Governors’ Association”70. L’operazione Chaos di spionaggio interno prese l’avvio nel 1967.
Le operazioni furono dirette da Richard Ober, laureato alla Harvard University, nel 1943 entrò a far parte dell’Office of Strategic Services (OSS) e fu un ufficiale di collegamento con la resistenza antifascista in Europa. In seguito Ober fece parte della Cia e per oltre 20 anni servì James Angleton nel controspionaggio. Ober, “figura di spicco, era il collegamento diretto con Richard Helms, direttore della Cia”, secondo il giornalista Angus Mackenzie, deceduto a soli 44 anni, nel 1994, le sue note furono raccolte in un libro Secrets. The Cia’s War at Home, ovvero “Segreti. La guerra della Cia in casa” dedicato ai temi affrontati dalla commissione Rockefeller e diffuso il 22 aprile 199971. Ober utilizzò i differenti programmi interni della Cia: “Merrimac” per infiltrare i movimenti nazionali radicali che si opponevano alla guerra in Vietnam; “Resistance” in collaborazione con le amministrazioni universitarie, gli agenti di sicurezza nei campus e le polizie locali (senza infiltrazione); “Htlingual” con il controllo abusivo della posta tra l’Urss e gli Stati Uniti di personaggi ed organizzazioni già nella lista dei sorvegliati che diede l’avvio alla Commissione Rockefeller.
Il testo della Commissione non fu “declassificato” nel 1977, nel 1975 era già pubblico, si può verificare nel frontespizio dove si legge “June 1975” e nella seconda pagina oltre i riferimenti di legge il prezzo del volume è di 2 dollari e 85 cents. L’errore, o il refuso, si riscontra senza verifica in tutti gli scritti fin dagli anni Ottanta, anche in un articolo dello storico Nicola Tranfaglia72. Amalgamare il “negoziato sulla sicurezza in Europa” e l’operazione “Chaos” vuol dire non aver letto gli atti della Conferenza di Helsinki e neppure gli atti della commissione Rockefeller quindi con il rischio di prendere dei granchi.
Dopo gli accordi di pace di Parigi del 1973, terminata la guerra in Vietnam nel 1975, venne istituita la United States Senate Select Committee to Study Governmental Operations with Respect to Intelligence Activities, commissione presieduta dal senatore Frank Church che incluse e ampliò temi della commissione Rockefeller: Operation Chaos e l’assassinio di John Kennedy.
Dalla commissione Church nacque il Select Committee on Intelligence incaricato di sorvegliare le attività della Cia e dei Servizi segreti. Si legge negli atti della commissione Church in merito all’operazione Chaos e sulle cause che indussero la Cia al controllo illegittimo di cittadini americani dissidenti:
Nel luglio 1967 si tenne a Stoccolma un’importante conferenza internazionale di gruppi pacifisti. A settembre, un’ampia gamma di attivisti americani, organizzazioni studentesche e nere a Bratislavia, in Cecoslovacchia incontrò gruppi di altri Paesi che si opponevano al coinvolgimento americano in Vietnam […]. Infine, il 21 ottobre 1967, ci furono attività di protesta su larga scala a Washington, tra cui una marcia sul Pentagono e manifestazioni mondiali di sostegno all’opposizione al continuo coinvolgimento americano in Vietnam. La preoccupazione del governo per i disordini interni è continuata per tutto il 1968, con disordini seguiti dalla morte di Martin Luther King in aprile, la continua violenza studentesca nei campus, l’intensificazione dell’attività di protesta contro la guerra e atti di violenza alla Convenzione del Partito Democratico Nazionale a Chicago. Durante i restanti cinque anni per i quali è durato il programma Chaos, 1969-1974, i disordini sui problemi razziali sono diminuiti ma l’intensità delle manifestazioni contro la guerra e la violenza degli studenti sono aumentate per poi diminuire dopo il 197273.
Nella lettera Notre action politique indirizzata all’Aginter Presse, “chaos” (con una “h” perché così si scrive in francese come in inglese, in alto a destra in italiano manoscritto “caos” è in minuscolo come segnala anche il colonnello Giraudo) il redattore auspica effettivamente di creare dei disordini, è una pratica di tutti i movimenti estremisti di destra e di sinistra, anche del Pci durante il piano Marshall.
Lo scritto rileva, dalla terminologia, sebbene non sia la lingua madre del redattore, persona di media cultura, senza una struttura operativa, infioretta le possibilità di azione per ottenere finanziamenti da o tramite Guérin-Sérac.
Lo scritto non è manifestamente in connessione con l’operazione “Chaos” della Cia e ovviamente con la cosiddetta “direttiva Westmoreland”.
Aldo Giannuli e l’estensione cronologica della “strategia della tensione”
Per Aldo Giannuli la “strategia della tensione” in Italia si sviluppa nel quindicennio 1960-1975, per la Procura generale continua anche dopo il 1980 secondo il teste Giraudo. Nel libro di Giannuli La strategia della tensione (Ponte alle Grazie, giugno 2018) nell’introduzione attribuisce a Carl Schmitt l’espressione “guerra civile fredda”. Non ricordo questa espressione pronunciata dal giurista-filosofo, in quale contesto? Mi si illumini! La frase si può attribuire con certezza a Steve Schmidt, nel 2008 organizzatore della campagna del senatore repubblicano John McCain, quest’ultimo veterano e prigioniero in Vietnam.
Si legge a pagina 11 del libro di Giannuli:
[…] partiamo dal senso di questa espressione [strategia della tensione] che fu usata per la prima volta in un articolo del giornalista Leslie Finer su The Guardian il 7 dicembre 1969 […].
In realtà l’espressione ‘strategy of tension’ compare per la prima volta in un articolo per The Observer il 14 dicembre 1969 due giorni dopo la bomba di piazza Fontana (“480 held in terrorist bombs hunt”, titolo di p. 1; “Italy: Fear of revolt returns”, titolo di p. 2); The Observer è “domenicale” ed è partner del Guardian che non è diffuso la domenica.
Sabato 6 dicembre 1969, The Guardian aveva pubblicato un articolo di Cedric Thornberry, intitolato “Greek advice for a coup in Italy” (p. 2). È una minuzia, ma rende bene l’idea dell’accuratezza dei rimandi bibliografici di Giannuli che vengono ripresi dagli estensori, unico dissenso che si riscontra nelle motivazioni (p. 150) richiama la parte del verbale di quella udienza del 9 giugno 2021(nel testo delle motivazioni erroneamente datata 11 giugno) riguardante l’estensione cronologica della “strategia della tensione”: fine nel 1974/75 o prolungamento fino almeno al 1980, secondo la versione del colonnello Giraudo e della Corte. Il Presidente Caruso dichiara:
Ho capito. Senta, lei [Giannuli] alla fine della scorsa udienza, aveva concluso suscitando un qualche dissenso, che la Strategia della Tensione è finita nel ’74
È evidente l’imbarazzo di Giannuli, non a caso nella replica al presidente usa quattro volte l’aggettivo “complesso” sintomo di evidente difficoltà nel tentativo di arginare l’obiezione che gli viene sottoposta. Resta il fatto che in una nota delle Conclusione del suo voluminoso tomo di 622 pagine (La strategia della tensione pure citato nelle Motivazioni alle pp. 149 e 290) si trova scritto quanto segue (testo che non richiede commenti)
[…] [del]la strage di Bologna […] se ne parlò per alcune settimane, tutto venne scaricato sulle frange dell’estrema destra, senza alcun tentativo di risalire ad eventuali mandanti – anche internazionali – e la cosa finì lì. (p. 534) […] Comunque la strage bolognese [del 2 agosto 1980] non c’entra nulla con la strategia della tensione ma, piuttosto, con la situazione nel Mediterraneo in quel 1980. Altro scenario, e per questo l’abbiamo lasciata fuori da questa indagine. (pp. 599-600, nota 9)
Il colonnello Giraudo inquadra la sua tesi con un’analisi del tutto personale della politica estera americana e nell’ambito della “direttiva Westmoreland” (p. 881), che gli estensori della sentenza recepiscono integralmente, di cui accenno lungamente qui sopra nel capitoletto sul Safari club. Così il prof. Giannuli nell’ambito della fine dei regimi totalitari: Portogallo, Grecia e Spagna amalgama “in un tutto” paesi che hanno origini, percorsi e sbocchi ben differenti, la solita “operazione Chaos”, Watergate, Nixon ecc. che da anni fanno parte della vulgata corrente.
Credo siano di rigore alcune osservazioni sul contesto geopolitico.
In quegli anni la struttura politica bipolare si cancellava davanti ad una struttura tripolare, come osservarono molti studiosi, tra i quali Michel Tatu del quotidiano Le Monde, autore di numerosi articoli sulle relazioni Est-Ovest e le problematiche strategiche; il “doyen” della facoltà di giurisprudenza di Parigi Sud, Charles Zorgbibe, in un convegno nel 18 maggio 1978 all’Istituto di “Hautes Étude de Défense Nationale”, e dello stesso direttore dell’Istituto di Politica Estera cinese, di Parigi, Hao Te kin, di cui conservo le note.
Negli anni Settanta-Ottanta nei conflitti asiatici, le relazioni sovieto-americane e quelli del margine di libertà della politica europea di fronte alla Cina sono basilari per una corretta lettura delle strategie internazionali poiché era di grande rilevanza nel “gioco” Est-Ovest, ma ugualmente in quello Nord-Sud che non vengono minimamente affrontate né dai consulenti né dai testimoni.
Dalla primavera del 1970, iniziò la scalata dei prezzi e del fret marittimo petrolifero (il trasporto di lunga distanza delle materie prime e del gas, petrolio ecc.).
Nell’ottobre del 1973, la decisione dei Paesi dell’Opec, dei Paesi produttori, di prendere il controllo totale dell’approvvigionamento, una data importante dell’evoluzione economica politica e sociale, mise in evidenza la fragilità dell’Italia mentre il conflitto arabo-israeliano si accentuava e il problema divenne politico. Dagli anni Settanta i movimenti rivoluzionari che mettevano in pericolo la pace mondiale e gli equilibri erano gli elementi religiosi integralisti o nazional-rivoluzionari. Infatti l’attentato nel maggio 1981 a Giovanni Paolo II, creò un problema nella “distensione” e “nell’equilibrio” in Europa auspicato dalle due potenze Urss e Usa, indispensabili per la sicurezza del vecchio continente.
In quanto alla politica prettamente nazionale dopo gli anni del boom, la competitività dell’economia italiana riposava sul continuo deprezzamento della lira e sulla forte richiesta di beni di consumo nel mercato domestico. Scomparsi questi fattori si ritrovò con un modello produttivo inadatto che necessitava di investimenti considerevoli in termini di ricerca ed innovazione; sono gli anni delle Riforme. Sia la politica estera sia la politica interna comporterebbe un approfondimento che ovviamente non è possibile qui sviluppare.
Il colonnello Giraudo, i giudici e l’apocrifo allegato FM 30-31B
Il nome “Westmoreland” è sempre messo in riferimento con la cosiddetta (e impropria) “direttiva Westmoreland” – indicata anche come “dottrina Westmoreland”, o “manuale Westmoreland”, o “documento Westmoreland”. Le citazioni della cosiddetta “direttiva Westmoreland” si concentrano nei capitoli 3, 4 e 5 della Parte III (“I mandanti”) delle motivazioni. Il FM 30-31B aveva fatto la sua comparsa in almeno due sentenze-ordinanze: quella del Giudice Istruttore Leonardo Grassi (p.p. n. 1329/A/84, Bologna 3 agosto 1994, Italicus-bis, che riguarda in parte anche la strage di Bologna) e quella del Giudice Istruttore Guido Salvini (p.p. nei confronti di Giancarlo Rognoni e altri, Milano, 3 febbraio 1998, piazza Fontana; Parte V, cap. 55, “La direttiva Westmoreland. Il campo di addestramento di Fort Foin e i rapporti con la struttura golpista”).
A pagina 346 gli estensori delle motivazioni scrivono:
Disponiamo a questo proposito di un testo chiave, già menzionato, il c.d. Field Manual 30/31 B attribuito al generale americano William Westmoreland del quale reca la firma. Per anni se ne è negata l’autenticità. Fonti della Cia e dei servizi americani lo hanno dichiarato un falso del Kgb, costruendo una campagna (dis)informativa, alla quale molti hanno aderito. Si comprende bene l’interesse americano a negare la paternità del documento e ad attribuirlo agli avversari come manovra di controspionaggio. Possiamo ora riconoscerlo come autentico. La Corte ovviamente nulla può dire di definitivo, a parte altre sentenze in cui se ne è attestata l’autenticità. Dispone tuttavia di una testimonianza fondamentale della quale deve tenere conto e sulla quale il giudizio di attendibilità può ragionevolmente poggiare. Sentito il 23 ottobre 2018 dai magistrati della procura generale di Bologna, il generale Pasquale Notarnicola che dal 1978 fu Direttore della prima sezione del Sismi.
Come si desume da una memoria della Procura generale di Bologna74,il ruolo del generale Pasquale Notarnicola nell’ambito delle indagini sui mandanti (defunti) della strage del 2 agosto 1980 è stato quello di “garante” della presunta autenticità dell’apocrifo Field Manual 30-31B (FM 30-31B).
Carlo Mastelloni (a lungo giudice istruttore a Venezia) – diversamente e in contrasto con la valutazione della Procura generale di Bologna, con oltre trenta anni di anticipo – immerge invece Notarnicola proprio nell’ambito delle attività del “Sismi deviato del Santovito” (sono parole di Mastelloni, in questo caso collimanti con quelle della Procura generali a proposito della filiera Sismi che faceva capo a Santovito).
Il nome di Notarnicola è citato infatti insieme ai “precitati imputati (pelosi, grassini, santovito, giovannone, sportelli, notarnicola, lugaresi)” nella sentenza-ordinanza del p.p. 204/83A depositata il 20 giugno 1989 riguardante Abu Ayad et al., ossia il traffico d’armi Olp-Br.
Le accuse di Mastelloni rivolte a Notarnicola e ai “precitati imputati” sono assai pesanti: ossia di aver aiutato “gli autori ed i compartecipi della fornitura di armamento sbarcata dalle Brigate Rosse in Quarto D’Altino nel settembre 1979; quindi violando i doveri inerenti la funzione esercitata nell’interesse dello Stato”.
Va fatta però una doverosa precisazione: questo testo di Mastelloni è una sentenza-ordinanza, il processo che ne è seguito ha portato all’assoluzione di tutti gli imputati – compreso ovviamente Pasquale Notarnicola.
Il personaggio Notarnicola “garante” dell’autenticità del “Westmoreland” comporterebbe un articolo a parte, qui non è il luogo, oltre una cronologia dei contatti rilevante per un’analisi globale dei fatti e del personaggio. Definito documento “chiave” sarebbe stato doveroso informare i giudici popolari:
1) Il Field Manual 30-31 dell’esercito americano, di 158 pagine, è autentico e non è mai stato segreto, ed è uno dei tanti manuali per l’addestramento militare conservato insieme all’allegato A (quest’ultimo per un breve periodo classificato “secret”) e non è mai stato dichiarato apocrifo. L’originale FM 30-31 è un documento stampato con il procedimento di fotocomposizione come tutti gli altri manuali di quel periodo, sia della Forze armate di terra, della Marina e non solo. Questi manuali sono assemblati con una copertina di cartoncino, ai fianchi tre fori come nei raccoglitori ad anello ma punzonati con grossi punti metallici.
2) Contestato come apocrifo è l’allegato B di 12 pagine (preceduta da una pagina con l’indice) che porta il tampone “top secret”, è un dattiloscritto redatto con un carattere Remington, la firma non è autografa.
3) Non corrisponde a verità quanto scritto dai giudici:
fonti della Cia e dei servizi americani lo hanno dichiarato un falso del Kgb.
L’allegato “B” è stato dichiarato apocrifo nel 1980 dalla “Camera dei Rappresentati” e dal “Comitato di controllo sui Servizi segreti Usa”, cioè da chi controllava la Cia a cui i giudici fanno riferimento nell’ambito dell’operazione “Chaos”, la coerenza da una pagina all’altra del testo delle motivazioni non è una di una qualità evidente.
Lo “United States House of Representatives” è composto da Senato e Congresso, forma a questo titolo uno dei due organi del potere legislativo americano che rappresenta i cittadini in seno all’Unione, i rappresentanti sono 435.
Rinvio al mio articolo del 2019 “Le stragi in Italia e il presunto [Field] Manual 30-31B della U.S. Army”75e integro come segue.
Le copie riprodotte nei volumi della Commissione P2 sono con evidenza pessime fotocopie di fotocopie (Doc. XXIII n. 2-quater/7/1).
Ignoro dove siano conservati i reperti ritrovati nella valigia della figlia di Licio Gelli il 4 luglio 1981 e se l’allegato B è certamente in fotocopia si presume anche il FM 30-31. Si legge alla p. 299 (Doc. XXIII, n. 2-quater/7/II della Commissione P2) che alla copia dell’8 gennaio 1970 erano state apportate modifiche nel testo segnalate con un asterisco; si rilevano segni manoscritti nelle prime pagine quindi è una fotocopia non da un originale integro. Il testo introduttivo è firmato, non manoscritto, dal generale Bruce Palmer, non dal generale William Westmoreland, e indica la data del 1972.
Manca la pagina con il sommario iniziale, forse altre pagine e non è riprodotta la copertina.
Gli inquirenti non precisano come è assemblato. La prima versione del Field Manual del generale Westmorenland è del 1967. Il generale, dopo l’offensiva del Têt, la campagna militare del gennaio 1968, fu sollevato dal suo incarico in Vietnam e nominato Capo di Stato maggiore dell’Esercito di terra, senza comando operativo, con un mandato di quattro anni conferito con votazione dal Senato e quindi consigliere militare del Presidente per quanto concerneva l’armata di terra. Raggiunta l’età pensionabile nel 1972 si ritirerà.
I manuali originali sono conservati nella biblioteca delle Forze armate Usa e in quella dell’Accademia di West Point e si potevano acquistare in librerie specializzate o richiedere anche alla Library di Washington dove venivano stampati. I militanti di “Ordine Nuovo” erano in possesso del Field Manual?
Gli inquirenti non precisano dove, quando e come fu acquisito, quello vero e quello apocrifo.
Tutti gli addetti alle ricerche su problemi politico-militari avevano in archivio dei Field Manual, erano pubblici.
Conservo una serie di manuali militari non solo degli Stati Uniti, che il mio defunto consorte acquisiva, utili alla redazione di relazioni o articoli per gli organismi internazionali e vari Istituti di Londra e di Parigi.
Ovviamente nel FM 30-31 (neppure nell’apocrifo allegato B) si accenna minimamente all’Italia o all’Europa. Il Field Manual 30-31 non apocrifo non aveva riscontro in Europa, era un manuale dell’esercito adatto a territori come il Vietnam per due terzi montuoso, con un conflitto nord-sud.
I combattenti vietcong, secondo gli insegnamenti di Mao, conducevano una guerra di movimento, con una centralizzazione relativa del comando e un’Armata rossa costantemente propagandistica e organizzatrice e quindi il manuale della Forze armate statunitensi doveva rispondere con misure di sicurezza, con operazioni di combattimento offensive e difensive adeguate e ovviamente con operazioni di Intelligence e di logistica per le truppe di fanteria.
Le tattiche sviluppate per le unità di combattimento dovevano soddisfare i requisiti di antiguerriglia, generalmente un’applicazione universale per quel tipo di conflitto. Tuttavia, i comandanti dovevano modificare le tattiche per adattarle al particolare terreno in cui stavano operando. Per esempio: nelle aree della giungla, deve essere posta maggiore enfasi sull’uso della mobilità a piedi, nelle paludi e nelle zone inondate, sull’uso di moto d’acqua; e nel deserto, sull’uso della mobilità veicolare.
Guerra, guerriglia e terrorismo
C’è un grande confusione nei concetti espressi da consulenti ed estensori, poiché amalgamano indifferentemente guerra, guerriglia e il terrorismo nei Paesi occidentali.
Negli anni Settanta “la guerre des trognons de choux” (come la definiva Stendhal) nei Paesi occidentali industrializzati si era trasformata in guerriglia urbana moderna che non aveva nulla da spartire con la counter-guerrilla ancorata come detto, a territori e conflitti come il Vietnam o l’America latina. Il terrorismo moderno ha una lunga storia in Europa, non è nato con piazza Fontana, e fu l’11 settembre 2001 ad aprire una nuova era.
Infatti solamente il 6 settembre 2006 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sebbene il tema fosse stato ampiamente dibattuto fin dagli anni Sessanta da diverse organizzazioni internazionali, dal G8 e dalle stesse Nazioni Unite, adottò la Strategia globale antiterrorismo (risoluzione 60/628, integrata da un piano d’azione).
In pochi anni, il terrorismo, è così arrivato a occupare un posto centrale nelle relazioni internazionali.
A Bruxelles in vari convegni, fin dagli anni Sessanta-Settanta fu affrontato il tema sul terrorismo di Stato, quello cosiddetto “pubblicitario” di ciprioti, irlandesi, palestinesi, che ritenevano il terrorismo l’unico modo per farsi intendere e che utilizzavano ampiamente i media; sui movimenti come le Brigate Rosse, la Rote Armee Fraktion (RAF) tedesca senza base di massa a quella di tipo latino americano, anche rurale eccetera. Occuperebbe troppo spazio e non è il luogo per tale dissertazione.
Sono assunti noti a qualsiasi addetto all’informazione e all’investigazione con una media esperienza che quando stragi non rivendicate si ripetono come in Italia significa che favoriscono il consolidamento di certi poteri e di certi condizionamenti interni legati a potentati politico-economici.
Sono stragi di diversione caratterizzate da una massiccia e compatta disinformazione giornalistica.
L’Italia non è uno Stato monolitico, quindi è assurdo parlare di stragi di Stato ma i “Servizi” non sono quindi unificati ma concorrenti, hanno ognuno un capo politico e sono gli esecutori “perinde ac cadaver” degli ordini del loro capo, sono il braccio clandestino di una mente politica, che per ragioni strutturali e di forza è, in Italia, “irresponsabile” sul piano penale.
I due filoni sulla Strage di Bologna
Sulla strage di Bologna ci sono due filoni: la pista palestinese archiviata dopo quasi 10 anni d’inchiesta nel 2015 e quella della P2 attuale.
Ilprocedimento dimostrativo assiomatico delle due tesi poggia su rapporti, non esenti da “impronta” ideologica anche se sovente incerta e più assimilabile a convinzioni personali che dottrinali. Lo studio del terrorismo in diritto comparato presenta molte difficoltà di ordine metodologico e politico che impone una scelta nell’orientamento della ricerca e un’ampia cultura dei rapporti politico-economici.
L’uso politico impedisce l’approfondimento.
Apparentemente le due tesi sembrano opposte in realtà sono due facce della stessa medaglia: gli Stati Uniti d’America e le stragi atlantiche o la politica nell’ambito israelo-palestinese ambedue connesse ad avvenimenti esterni all’Italia e rispondono a guerricciole di opposti settori politico-ideologico prettamente italiani.
I consulenti hanno ignorato: l’attività “Analisi e Valutazione” della documentazione strategica, l’ufficio informazioni scientifiche e tecnologiche; il trasferimento dei materiali sensibili, alla sicurezza dei sistemi d’informazione e i collegamenti con i Servizi alleati non certo circoscritti al livello dei Carlo Digilio, Delfo Zorzi, Leo Joseph Pagnotta e altri, il rispetto della “Military critical technology list”; il servizio cifra e crittografia e così via fino all’inteso lavoro informativo fornito al Presidente del Consiglio dei ministri nell’esercizio di alcune delle sue più alte responsabilità.
I Servizi segreti furono purtroppo utilizzati per manovre di politica interna.
Malgrado taluni ordini ingrati, la scarsità dei mezzi finanziari e tecnici, gli scandali ai vertici, la grande maggioranza degli ufficiali e dei funzionari dei Servizi italiani eseguirono discretamente le missioni loro affidate con capacità professionale e spirito di sacrificio, purtroppo sono la categoria meno “gettonata”.
Un linguaggio poco giuridico
Si legge nelle motivazioni (p. 291):
La Nato adottò come sua dottrina ufficiale quella della “guerra rivoluzionaria” basata sulla cooperazione civili-militari nella realizzazione di regimi “castrensi” configurati come “dittature sovrane” ovvero fondato sullo sterminio fisico degli oppositori. Strumento centrale di questa linea d’azione fu la guerra psicologica con la quale si tentava la criminalizzazione dell’avversario a mezzo di azioni provocatorie e di successiva speculazione attraverso i mezzi della propaganda e dell’informazione.
Non credo che i giudici estensori o i consulenti abbiano letto von Clausewitz o gli scritti militari di Mao Zedong o saggi di politica militare altrimenti sarebbero più accorti nell’attribuire una “guerra rivoluzionaria” alla Nato, o l’utilizzo in Europa della “Westmoreland” di controguerriglia nell’era della “dissuasione nucleare”.
Non c’era bisogno di “criminalizzare l’avversario” bastava raccontare le verità oramai confermate dalla storia.
Le pratiche poco ortodosse degli americani in Irak o in Vietnam “il massacro di My Lai” (come venne definito il processo in Usa) nel 1968 non cancellano 85 milioni di vittime del comunismo che mi pare fuori luogo definire “propaganda”! “Lo sterminio fisico degli oppositori” avveniva in Urss non in Europa occidentale o siamo tornati al negazionismo dei GuLag?
Sono affermazioni radicali nei confronti della Nato, che attualmente ritroviamo nell’estremismo fascista russo e nell’integralismo mussulmano stragista o in personaggi come lo sloveno di ultra destra Marian Kotleba.
Durante il regime fascista Giuseppe Maggiore teorizzò, nella Rivista italiana di Diritto penale (1939) il già citato Führerprinzip nel “caso di incertezza di diritto” il giudice sosteneva si atterrà al principio “in dubio pro republica” che prendeva il posto dell’antico “in dubio pro reo” che possiamo attualmente traslitterare “in dubio pro ideologicas”.
La rivista Il Borghese e il “depistaggio preventivo”
L’articolo de Il Borghese del 6 luglio 1980 dal titolo “Carlos sconfitto da Santillo” firmato Arthur Baldwin ha un’esegesi agevole, non è certo quella degli inquirenti che lo inquadrano in un “depistaggio preventivo” (sic!) quindi il coinvolgimento del giornalista Mario Tedeschi tra i mandanti della strage di Bologna. Il Borghese usufruiva di erogazioni dal Vaticano sin dal tempo di Leo Longanesi quando l’amministrazione vaticana era ancora gestita da Bernardino Nogara. In seguito, penso dagli anni Settanta, percepì finanziamenti dai servizi israeliani come molti della destra legale europea, ovviamente in funzione anti palestinese e anti araba.
La possibilità di un attentato di Carlos al G7 di Venezia del 22-23 giugno 1980 era notizia che circolava da mesi tra i giornalisti in Francia, è possibile che Aldo De Quarto, corrispondente de Il Borghese da Parigi abbia informato Tedeschi delle voci che correvano, allarmanti, tanto che a Venezia il dispiegamento di Forze fu eccezionale.
Infatti, il “pezzo”, è manifestamente di cronaca – ovviamente con la visione e un linguaggio di uomo della destra missina – redatto dopo il Convegno, è dedicato alla sicurezza attivata dai vari Servizi. Si evidenzia una particolare attenzione alle capacità informative dei Servizi israeliani (suoi finanziatori) menzionati più volte, si legge: “tutti messi all’erta sino dai primi di marzo dal Mossad” e prosegue illustrando il Mossad e il responsabile che cita persino in ebraico “Ménumé”. Si legge: “non parla mai a vuoto […]” e aveva informato che “un colpo terroristico era in preparazione contro uno dei suoi ospiti”. Quindi al passato e non contro l’Italia.
Le voci avevano origine dal conflitto Siria-Francia nell’ambito delle ostilità in Libano dove anche Israele era attiva.
Carlos era uno dei componenti lo stato maggiore terroristico siriano e nel 1980 era stato assunto dal capo dei servizi informativi dell’Aeronautica siriana generale Mohamed al-Kouli che dirigeva le operazioni all’estero dei servizi speciali siriani. Godeva anche dell’appoggio del “capo-stazione” dei servizi speciali nel Libano Mohamed Ghanem, nonché di Rifaat Assad, fratello del presidente. Nel mirino, si diceva, fossero Valéry Giscard d’Estaing e Jimmy Carter, citati nell’articolo; il primo per indurre il governo francese a ridurre ai minimi termini la presenza francese in Libano; la Francia appoggiava il governo centrale e manovrava in senso anti-siriano oltre a fornire all’esercito libanese carri armati, autoblindo. In quanto a Carter, la Siria fu il primo paese arabo a riconoscere il governo provvisorio di Mehdi Bazargan dopo la “rivoluzione” sciita in Iran nel novembre 1979 quando erano stati presi in ostaggio a Teheran 52 diplomatici e civili americani, in cambio della liberazione era stata richiesta la consegna dello Shah Mohammed Reza Pahlavi, che aveva dovuto abbandonare gli Stati Uniti e rifugiarsi in Egitto dove morì nel luglio 1980.
Le complesse e lunghe trattative per la liberazione degli ostaggi sono note.
La notizia su Carlos al servizio dei siriani fu, nel 1982 fatta pervenire da Luigi Cavallo, accompagnata da altre notizie sull’acutizzarsi di atti di terrorismo in Francia, ai giornalisti Bruno Crimi e Sandro Ottolenghi. La notizia sui rapporti Carlos-siriani e la politica francese in Libano ha avuto conferma ultimamente con l’accesso ai “diari” del generale Philippe Rondot dello SDECE e dal 1980 nella Direction de la Surveillance du Territoire (DST) che costantemente seguì i passi di Carlos e nel 1994 organizzò il “rapimento” in Sudan quindi condotto in Francia dove continua a scontare la pena dell’ergastolo.
Bisogna leggere attentamente e con cognizione di causa gli articoli de Il Borghese sulla vicende Roberto Calvi-Banco Ambrosiano e il conflitto tra Flavio Carboni e Francesco Pazienza in rapporto al Vaticano ed altri “pezzi” di contorno che inquadrano meglio il finanziamento a Mario Tedeschi, riportato insieme ad altre erogazioni, quest’ultime certamente illecite, nell’ambito della difesa di Roberto Calvi, nel cosiddetto “documento Bologna” – dove è trascritto il numero di conto della Ubs 525.779X.S. – trovato in possesso di Licio Gelli che ha dato l’avvio all’ultima inchiesta sulla strage del 2 agosto 1980.
Gelli e le fantasiose protezioni degli Usa
I protettori di Licio Gelli erano tutti italiani. Il “Venerabile” aveva un rapporto negli Stati Uniti con Phil Guarino, gli era stato presentato da Michele Sindona. Proprietario di un ristorante, informatore di Fbi e poi uomo d’affari e membro del “The Order of the Solar Temple”, falso ordine cavalleresco fondato nel 1984 di cui ricordiamo i suicidi di numerosi membri e tra i fondatori noti truffatori.
Guarino era uno di quei personaggi che ruotano intorno alla politica perché portano voti, nel suo caso della comunità italiana cattolica e allora ancora nostalgica del vecchio regime, in cambio gli favoriva gli incontri e gli affari essendo tra gli invitati nei vari ricevimenti o commemorazioni quindi “gonfiato” come potente personaggio del Pentagono perché aveva fatto avere l’invito a Gelli per la cerimonia di insediamento di Reagan.
Quindi, secondo i giudici, potente era anche Gelli che ricattava (sic!) il Pentagono che aveva dato l’ordine della strage. Definito “Venerabile ricatto”, l’oggetto del ricatto era il cosiddetto “documento Westmoreland”, già definito apocrifo, come già detto, nel 1980, mai stato “segreto” poiché diffuso negli anni Settanta in circa 20 paesi poi trovato in copia nella valigia della figlia nel luglio 1981.
Luigi Cavallo aveva rapporti, anche di amicizia, con un economista e diplomatico – William Mazzocco – che aveva conosciuto a Berlino nel 1953 e in sede Cocom a Parigi, poi nello staff dell’Ambasciatrice Claire Booth Luce a Roma. A Saigon era stato Alto Commissario degli Stati Uniti per gli aiuti civili alle popolazioni vietnamite; a Washington nel settembre 1979 era un esponente del “Washington Forum”, un’organizzazione di consulenza per le più importanti istituzioni finanziarie del mondo. Valutava il rischio-Paese e il tasso d’interesse da applicare ai prestiti richiesti da governi o da grandi istituti di credito.
Negli anni Settanta-Ottanta aveva previsto una maggiorazione del rischio-Paese per l’Italia. Durante il conflitto era stato nel Servizio informativo nel Mediterraneo ed aveva curato il testo del piano Marshall per gli aiuti agli Europei, in seguito membro esperto della Commissione Speciale del Senato per i Servizi Segreti (Senate Select Committee on Intelligence) presieduta dal senatore Barry Goldwater. Mazzocco negò ogni sostegno a Calvi e si rifiutò di sistemare il figlio Carlo, e ci illustrò la personalità di Guarino quando questi informatore di Fbi denunciò come “agente del Kgb e mafioso russo”, Luigi Cavallo (ovviamente in accordo con ambienti italiani) che venne “fermato” a New York l’11 ottobre 1979 e poi rilasciato con le scuse del “prosecutor”, giudice Tendy. La vicenda non concerne le Motivazioni e quindi non mi dilungo.
I conti svizzeri di Licio Gelli
Gelli oltre il conto, già sopra menzionato, 525.779X.S, era titolare del conto alla Ubs n. 525.779X1, citato alla p. 42 degli atti giudiziari del processo Ambrosiano. Su quel conto si riscontrano gli importi di 7 milioni e 1,5 milioni di dollari. Ma anche un’operazione di 11.908.166 dollari datata 30 luglio 1980, tre giorni prima della strage. (I conti sono confermati anche nei volumi della Commissione P2 a p. 483 Doc. XXIII, n. 2-quater/3/VII, Roma 1985) quindi, costatata la data ravvicinata con la strage di Bologna, che probabilmente non avrebbe dato alcuna informazione utile, ma una verifica sarebbe stata doverosa.
È sufficiente un po’ di dimestichezza con i conti svizzeri per sapere che il conto che avevo segnalato era quello iniziale. Risalendo al conto originario si può poi, facendo una sorta di “albero genealogico” con tutte le radici simili ricostruire i passaggi, ogni numero ha un codice: 525779.X1 – 525.779.X.S – 525.779.XS 60 – 525.779.60 R eccetera
Bisogna tener conto che era una banda di truffatori e falsari, i conti incrociati e le scatole cinesi sono una caratteristica della criminalità finanziaria. Quando l’ho segnalato al signor Bolognesi sembrava gli avessi lanciato un anatema! Gelli che non era l’unico truffatore e millantatore. Certe truffe e fondi neri a danno di finanziarie o industriali quotate in borsa, mancati pagamenti di sovrapprezzi dei pacchetti azionari da Calvi a Calvi (estero) ecc. finanziamenti a partiti compreso il Pci, che qui non elenco sono imputabili a Roberto Calvi. C’è una frase arrogante dell’ex presidente del Banco Ambrosiano del gennaio 1978 – dopo l’affissione dei noto Manifesto di Luigi Cavallo (9 novembre 1977) indirizzato alla Procura di Milano – ripresa anche da L’Espresso, settimanale italiano diretto in quell’epoca da Livio Zanetti: “con pochi milioni metto tutti a tacere”.
Roberto Calvi quando la crisi dell’Ambrosiano si fece acuta si rivolse alla Bank of Credit and Commerce International (BCCI) fondata (1972-1992) insieme, ad altre galassie sparse nel mondo e a società fittizie, dal pakistano sciita Agha Hasan Abedi con un indirizzo nel cuore della City di Londra e con sede nel Lussemburgo. Negli anni Settanta-Ottanta era in auge, tra i clienti della banca: Manuel Noriega, Saddam Hussein eccetera, ma anche il terrorista Abu Nidal.
Le banche che Abedi controllava accordavano crediti astronomici ai governi più diversi, africani, asiatici. In seguito si rivelerà anche ai “bailleurs” di fondi della cocaina, eroina, droghe chimiche, ai trafficanti d’armi, al traffico della prostituzione. Abedi controllava i cartelli del crimine organizzato e del terrorismo e una “filiera nera” composta dalla manovalanza, criminali di diritto comune pronti ad ogni bisogna e una di spionaggio. L’inchiesta condotta negli Stati Uniti dal procuratore generale della contea di New York, Robert Morgenthau – figlio del già citato Henry, negli anni Sessanta aveva lottato contro la mafia infiltrata nei sindacati – diede il colpo finale, già le sedi di Parigi, di Londra, Ginevra eccetera, erano state perquisite e chiuse. Oggi la storia di Abedi è nota. Il fallimento nel 1992 raggiunse i 12 miliardi dollari.
Carlo Rocchi e i colloqui con Michele Sindona
In un articolo di Massimo Pisa ne La Repubblica, edizione milanese (1º agosto 2022) “La storia di Rocchi: nella Cia per 50 anni tra trame e depistaggi” si legge:
Nelle carte entrarono tre colloqui riservatissimi tra il detenuto Sindona e l’agente Rocchi mandato dagli americani a rassicurare il banchiere sulla clemenza dei giudici italiani, tramite interessamento del presidente Reagan in persona e a ricordargli di tacere i segreti più indicibili.
Sindona in America era stato condannato a 99 anni, quindi l’interessamento di Ronald Reagan!?
Carlo Rocchi nella sentenza sulla strage di Bologna è menzionato più volte (pp. 27, 869, 883, 1373-1374) come “amico degli americani” e nell’ambito di un’inchiesta sullo spionaggio o interferenza degli Stati Uniti in Italia, condotta negli anni Novanta, dal giudice Guido Salvini e dal colonnello Giraudo (sentenza-ordinanza del 3 febbraio 1998).
Ora Rocchi, più che “fiduciario della Cia” apparteneva alla Drugs Enforcement Administration (Dea) e dipendeva dal Dipartimento federale della Giustizia americano, non era un collaboratore esterno ma un agente.
Ho avuto tre o quattro incontri con Carlo Rocchi, il primo, nel febbraio 1986. Quando mio marito giunse in Italia a seguito di estradizione nell’ambito del processo Sindona, fui avvicinata in aula da Rocchi. Voleva informazioni sulla voce che era corsa, ne parlarono anche i quotidiani (Liberation e La Stampa in una breve nota) su un accordo Francia e Italia in merito ad uno scambio Luigi Cavallo – Samuel Flatto-Sharon, ricevetti anche telefonate e un telegramma da Tel Aviv a conferma dell’informazione che affermava che la notizia proveniva da “fonte istituzionale”.
L’origine dell’informazione era la televisione israeliana. Ovviamente in un convegno a Parigi al Jolly Hotel nel gennaio 1986, presenti gli avvocati di mio marito, Francis Teitgen e Jean-Pierre Mignard e i giornalisti feci un deciso ‘break of information’ poiché la ritenevo grottesca. Non mi dilungo sulla vicenda che qui non interessa se non, in breve sulla persona di Flatto-Sharon incarcerato a San Vittore, promotore immobiliare, trafficante d’armi, cittadino francese di origine polacca, colpito, in Francia, da mandato di arresto per evasione fiscale (aveva trafugato circa 60 milioni di dollari), oltre truffe e traffico d’armi con il Libano, il nome appariva (vittima e colluso) a fianco di personaggi del milieu marsigliese, proprietari di casinò in Costa Azzurra dove negli anni Settanta-Ottanta agiva l’imprenditore Dominique Fratoni noto per i suoi legami con la mafia.
Il magistrato competente italiano concederà la libertà provvisoria a Flatto-Sharon, poi condannato a 10 anni in Francia che sparirà nel nulla, in barba alla richiesta francese, per riapparire nuovamente in Israele come deputato della destra israeliana. Rocchi aveva rapporti con i Servizi francesi nell’interesse della Drugs Enforcement Administration (Dea) e del Dipartimento di Giustizia americano contro le narco-economie, quindi Michele Sindona interessava sui metodi di riciclaggio dei “cartelli” e nei rapporti con le diverse banche. A metà degli anni Ottanta la Dea nell’ambito dei narcotici; il Department of States (DoS) nell’ambito dell’antiterrorismo e la Cia erano già stati allertati in merito alla Bank of Credit and Commerce International (Bcci) che mi fu confermato anche da un conoscente dell’ufficio investigativo del Ministero delle Finanze francese in rapporto alla sede di Parigi sita ai Champs Elysées.
Infatti il primo a parlarcene (a me e a mio marito) durante l’intervallo di un’udienza, fu Michele Sindona, nell’ambito dei rapporti della banca del pakistanese Abedi con Roberto Calvi. Sindona ci disse che avrebbe voluto scontare la pena negli Stati Uniti d’America, i contatti con Carlo Rocchi in Italia erano il seguito di incontri nel carcere americano con un altro agente federale.
Negli anni Ottanta, Rocchi seguiva la filiera di un trafficante di armi iraniano nell’ambito del traffico armi-droga dall’Iran al Libano. Con lo smantellamento della French Connection nel 1970 tramite un’azione coordinata tra autorità americane, francesi, canadesi e italiane, le filiere avevano ripiegato sul Libano dove si installarono, secondo un agente della Dea, 15 raffinerie.
Il Libano fu sempre uno dei più importanti coltivatori di hashish, ma ancor prima che si coltivasse il “papavero”, un centro del traffico di eroina fin dagli anni Trenta e Cinquanta quando un cristiano libanese forniva oppio e morfina base dell’Asia minore a Lucky Luciano. Il grande traffico di cocaina o morfina base dal Libano verso gli Stati Uniti passava tramite la mafia siciliana fino all’America Latina, come poterono costatare le dogane francesi.
L’America latina rifugio di criminali nazisti, la regione detta delle “tre frontiere” (Brasile, Argentina, Paraguay) fu considerata dagli esperti della lotta antiterrorista dagli anni Settanta la nuova base dell’islamismo radicale di destra. Installati nel Libano o in America latina le relazioni tra banchieri privati, alcuni politici, uomini d’affari e grandi criminali nella gestione delle mafie, furono rivelatrici dell’osmosi che regnava tra le strutture criminali e le strutture legali nelle attività economiche e finanziarie anche tramite le Ong islamiche con sede in Svizzera e paradisi fiscali e legate alla destra estremista islamista.
Scriveva il reporter svizzero Richard Labévière negli anni Novanta76
È un argomento fin troppo vasto, oggi, per lasciarlo ai soli criminologi. L’economia del crimine si è fusa con l’economia legale. Distinguere tra criminalità organizzata e mondo finanziario ci condanna a non capire nulla di nessuno dei due […]. La criminalità è diventata un ingranaggio indispensabile nella ruota delle società contemporanee.
Non entro in merito alle dichiarazioni del colonnello Giraudo (p. 266) su Carlo Rocchi, al di là delle infrazioni o reati che può avere commesso, nell’ambito delle interferenze americane, ma un’osservazione.
Alla pagina 869 si legge:
Del gruppo dei manipolatori americani di Rocchi, un ruolo fondamentale venne svolto da Charles Siragusa, noto agente dell’antinarcotici americana; avendo lavorato sia lui che il Rocchi per l’Intelligence militare, tale imprinting non era venuto mai meno, anche quando i due passarono alla Dea.
Charles Siragusa, nato nel 1914, fu un agente federale della narcotici dal 1939 al 1963. La Dea, che dipende dal Dipartimento di Giustizia, è nata nel 1973 per volere di Richard Nixon quando tutti i diversi servizi dall’ufficio stupefacenti alle dogane e agli uffici federali si fusero. Nel 1944, Siragusa collaborò all’inchiesta che vide Lucky Luciano condannato a una pena detentiva di 50 anni; tuttavia 18 mesi dopo fu deportato in Italia insieme ad altri mafiosi. Siragusa diresse l’ufficio del Bureau of Narcotics degli Stati Uniti a Roma, dal 1948 al 1960, il colonnello Giraudo non era ancora nato. Dal 1963 fino al suo pensionamento nel 1976 fu direttore esecutivo della Commissione investigativa legislativa dell’Illinois.
Quindi l’impriting dell’Intelligence militare?!
Il secondo incontro con Carlo Rocchi
Ebbi un secondo colloquio con Carlo Rocchi, nel suo ufficio di corso Europa, pochi giorni dopo il primo incontro quando mi avvertì, che “circolavano documenti” che si riferivano a mio marito, Luigi Cavallo, offerti al costo di 50 milioni. Inviai immediatamente una lettera alla Procura.
Il Sisde perquisì anche la sede di Panorama poiché probabilmente la notizia proveniva dall’interno del settimanale. Infatti, nei giorni che seguirono la sentenza di condanna di primo grado contro Michele Sindona da poco “suicidato” per avvelenamento al cianuro, “i documenti” apparvero il 1º aprile 1986 nella trasmissione di Enzo Biagi, presenti il fascista Giorgio Pisanò e il giornalista Romano Cantore protagonisti del “ritrovamento” della borsa di Roberto Calvi colma immotivatamente di bollettini dell’Agenzia A di Luigi Cavallo, tre lettere apocrife “a firma” Luigi Cavallo, una manifestamente falsa anche di Monsignor Pietro Palazzini, una dove Calvi riconosceva un debito nei confronti di Carboni eccetera. Inutile ricordare che testimoni eccellenti erano Flavio Carboni, accompagnatore a Londra di Roberto Calvi trovato “suicidato” nel cuore della City nel giugno 1982 e il suo braccio destro Emilio Pellicani77.
La borsa era già stata offerta a Mario Tedeschi che immediatamente aveva informato il giudice Domenico Sica che seguì la trattativa e mise in atto l’intervento dei carabinieri, evidentemente ci fu chi avvertì l’ignoto interlocutore che non si presentò all’appuntamento.
Nel libro Alto tradimento Roberto Scardova sostiene che la borsa dell’ex presidente era stata ritrovata vuota!
Ho scritto al giudice Almerighi e rettificato il suo saggio sulla borsa di Calvi nel 2014, documento depositato anche alla commissione Moro, presidente, l’onorevole Giuseppe Fioroni. In un libro del 1986 di Giampaolo Pansa78 si legge:
il martedi 1º aprile 1986. Il pesce glielo fa chi porta a “Spot” (Rai-Tv, Rete Uno) la borsa del defunto banchiere Calvi [ovviamente non trascrivo tutte le tre pagine] È un finto scoop. E lui lo sa. Sa che in quella borsa non c’è niente che valga la bravura e il prestigio di un Biagi. Sa che in quella borsa ci stanno soltanto gli avanzi lasciati dal “Mister X” che l’ha posseduta per quattro anni. Avanzi già visionati da Pisanò, dal furbo Flavio Carboni e da qualcun altro […] [Biagi sa], o dovrebbe sapere, che il posto giusto per depositare la borsa non è la ribalta di “Spot” ma il tavolo del magistrato. […] Che pena vederlo frugare in quella valigetta che puzza di morti impiccati, di ricatti, di truffe […].
Due telegrammi furono inviati: uno al dirigente della Rai Andrea Melodia citati anche nella mia replica nel libro di Philip Willan The Last Supper editoda Robinson publishing (aprile 2007) sulla vicenda Calvi che ha rettificato alcuni “passi” e ha diffuso le mie due lunghe lettere dove sono contenuti i testi dei due telegrammi, oggi in linea:
TELEGRAMMA – da Lorenza Cavallo – 3 aprile 1986 – Dott. ANDREA MELODIA – VIA TEULADA, 66 – 00195 ROMA
In riferimento ai contatti avuti con i nostri legali ai sensi della legge della stampa Le rivolgo formale richiesta di una copia in video cassetta della trasmissione SPOT del 1º aprile 1986 andata in onda su Rete 1. Nella trasmissione sono state presentate lettere apocrife attribuite a Luigi Cavallo e sono state rese dichiarazioni non veritiere.
È quindi mia intenzione e mio diritto di poter visionare la registrazione di tale trasmissione oltre meglio accertare gli atti e le dichiarazioni in essa contenute. La prego pertanto, nel tempo più breve possibile, di autorizzare la redazione della rubrica SPOT presso la sede RAI di Milano a rilasciarmi una copia della video cassetta relativa alla suddetta trasmissione. Lorenza Cavallo
In pari data, il 2 aprile 1986, mio marito dal Carcere di San Vittore inviava un telegramma
Luigi Cavallo al Dott. ENZO BIAGI – «SPOT» – RAI- C.so Sempione – 20154 – Milano
Non ho mai scritto lettere a Calvi. Già smentito nel 1982 di essere l’autore delle lettere apocrife provenienti dall’archivo di Carrasco della P2. Ho denunciato nel 1985 la vedova Calvi che ha testimoniato di essere in possesso degli originali di dette lettere. Fotocopie di dette lettere erano state inviate nel 1982 all’avvocato di Vittor con l’intenzione di coinvolgermi nell’assassinio di Calvi. Nel 1983/84 “ignoti” hanno cercato di vendere la borsa di Calvi al settimanale Il Borghese. Gli assassini di Alessandrini, Ambrosoli, Tronconi, Aricò, Calvi, Sindona sono organicamente collegati. La chiave del mistero di queste lettere apocrife è nelle mani di Gelli e mi sono incomprensibili i motivi che hanno indotto P.M. e Giudici Istruttori a stralciare Gelli dal processo per concorso in estorsione ai danni di Calvi celebrato I Sez. Corte d’Assise di Milano. Richiedo a norma dell’art. Legge Stampa la lettura integrale del presente telegramma. — Luigi Cavallo —
Enzo Biagi era un ottimo giornalista e non aveva certo bisogno di fare scoop, ma – a mio parere – in quell’occasione ci fu, ad ogni modo, un’operazione di rilievo in prima serata, di disinformazione della pubblica opinione e soprattutto di inquinamento della Giustizia manifestamente incentivata da apparati dello Stato in quell’intreccio di rapporti con la criminalità organizzata.
Il già menzionato Procuratore di New York, Robert Morgenthau affermava che il crimine organizzato è un nemico fragile senza la corruzione e la protezione politica.
26 giugno 2023
Le vere ragioni per le quali Bologna è stata presa di mira
La grande bouffe del complottismo giudiziario?
Salvatore Sechi
Docente universitario di storia contemporanea
Una strage quasi dimenticata
Un tribunale che emette sentenze definitive dopo quarant’anni dagli eventi non si può celebrare come il palazzo o lo scrigno della giustizia, perché è l’umiliante trionfo del suo contrario. Il modo più serio per evitare questo esito sarebbe quello che il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nell’accettare il secondo mandato al Quirinale si è impegnato a fare: una riforma radicale dell’ordinamento giudiziario. Senza di esso lo Stato di diritto in Italia continua a non esistere, anzi ad essere molto spesso una farsa.
In questo intervento intendo soffermarmi sugli ostacoli che, temo, hanno reso la sentenza, articolata in diversi gradi di giudizio, per la terribile strage del 2 agosto 1980, nella stazione ferroviaria di Bologna, priva di grande e dovuto appeal presso la popolazione. E’ questo un segno dell’indifferenza, se non dell’indignazione, per il vero e proprio baratro, se non si vuole dire bassifondo, in cui è precipitata dopo un ciclo di massimo consenso la credibilità dell’amministrazione della giustizia nel nostro Paese. Siamo a un passo avanzato della sua completa de-legittimazione.
Il contenzioso tra politica e magistratura dura ormai da trent’anni.79
I giudici troppo spesso e disinvoltamente vengono accusati di eccessiva condiscendenza e resa al populismo politico. Non porta, però, da nessuna parte reagire col populismo contrapposto, cioè giudiziario (anche se si tenta di circoscriverlo ai pubblici ministeri). La loro autodifesa a oltranza, in effetti, li ha colpevolmente indotti
“a rinunciare ad ogni critica anche laddove non vi erano dubbi vi fosse stata un’impropria interferenza nell’arco di discrezionalità della politica”80.
Mi sono, infine, sforzato di offrire uno spaccato di Bologna, come l’hanno vissuta anche quanti, come le giovani generazioni diventate ostaggio del terrorismo fascista, non amano le “città rosse”. Non intendo in questo modo accreditare qualche ragione alla decisione barbarica di provocare un massacro, chiunque ne sia stato l’ideatore e l’esecutore, com’è stato fatto il 2 agosto di oltre quarant’anni fa. Mi interessa cercare di prendere le distanze dalla dominante versione di questa città e dei suoi sindaci, cioè di una sorta di storia sacra, oltreché di una regione del Cardinal legato, e quindi post-pontificia.
Desaparecida: la pista palestinese
La cosiddetta pista palestinese costituisce il simbolo degli errori che possono essere determinati dall’irrompere nei processi di silenzi, omissioni delle indagini, accessi privilegiati o riservati a documenti eccetera. Non se ne parla, si è cercato in ogni modo di evitare di parlarne. E’ la grande desaparecida nei vari gradi di giudizio che hanno portato alle sentenze passate in giudicato nel novembre 1995 e nell’aprile 2007.
E’ stata oggetto di indagine da parte della Procura di Bologna nell’agosto-settembre del 2005 e nel luglio 2014. Procura e Gip ne chiesero l’archiviazione, che venne concessa il 9 febbraio 2015.
Ha fatto la sua comparsa, ad opera dell’avvocato Massimo Pellegrini, difensore di Gilberto Cavallini nelle motivazioni della sentenza di condanna in primo grado (7 gennaio 2021). Il presidente estensore della sentenza, Michele Leoni, ha avuto l’amabilità di evocare la pista e criticarla. Col risultato di tirarsi addosso una replica puntuta e severa di tre specialisti.81
Originariamente l’averla presa in considerazione82 fu un atto che venne rilevato criticamente da qualche prorompente avvocato nella sua legittima cura dell’Associazione dei parenti delle vittime.
In realtà il ruolo congiunto di Carlos, del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) e del Colonnello Gheddafi delineavano uno stato di cose che, sicuramente all’inizio degli anni Ottanta e Novanta del ventesimo secolo, ha avuto un fondamento più realistico che non quella dell’affannosa criminalizzazione dei killer (peraltro confessi in questo ruolo) dell’estrema destra.83
Il colonnello libico Gheddafi voleva punire l’Italia per averlo spodestato di un avamposto della sua vocazione imperiale. Nell’interesse della Nato, il nostro governo fece sbaraccare la testa di ponte (con investimenti e veri e propri assetti militari) impiantata nell’isola di Malta con l’obiettivo di estendere l’influenza dominatrice dell’Islam sul resto dell’Europa.84 I militanti palestinesi del FPLP intendevano, invece, punire il nostro Paese per non avere assecondato gli impegni assunti col cosiddetto “lodo Moro”.85
Era un accordo di fatto, ovviamente non rinvenibile in nessun fascicolo della Farnesina, per cui l’incolumità (rispetto a possibili attacchi) e solidarietà del nostro Paese si fondava sulla non perseguibilità dei terroristi del FPLP per il trasporto di armi sull’intero territorio nazionale.
La rottura del “lodo” venne ravvisata nell’arresto e nella condanna ad alcuni anni di carcere di un esponente del FPLP, il giordano Abu Saleh Alzeh. Viveva (e studiava all’università di) Bologna. Era probabilmente il referente di una cellula militare del FPLP. Manteneva rapporti con un esponente del terrorismo internazionale come Carlos e con un dirigente del Sismi colonnello Stefano Giovannone.
Il FPLP reagì chiedendo la sua liberazione e, in caso contrario, minacciando di colpire pesantemente l’Italia. Non tenne conto che Abu Saleh Anzeh era stato colto in flagranza di reato, una fattispecie penale che il lodo Moro non poteva coprire. Infatti Abu Saleh venne arrestato il 13 novembre 1979, una manciata di giorni dopo che ad Ortona tre esponenti dell’Autonomia romana, con in testa Daniele Pifano, venissero sorpresi in possesso di due missili Sam7 Strela di fabbricazione sovietica.86
Porre al centro di un’indagine giudiziaria l’attività svolta del terrorismo arabo-palestinese e libico non era politicamente realistico perché rischiava di coinvolgere diverse certezze.
Intendo riferirmi da una parte alla sinistra di ogni genere e grado, che ha sempre solidarizzato con i movimenti di liberazione terzo-mondisti, in particolare per munire di un territorio e di uno Stato i palestinesi; al ruolo importante di Gheddafi che era entrato nel capitale della Fiat per salvare l’azienda dalla bancarotta; e infine ai nostri servizi segreti che in Medio Oriente avevano sviluppato relazioni durevoli “coperte” anche con gruppi illegali e armati. Brandire il definitivo afflosciarsi di questa vicenda sulla base delle carte de-secretate di recente del Colonnello Giovannone come una colpa, un’azione insostenibile, ad opera di chi l’ha a lungo sostenuta, suona dunque come una plateale e becera mancanza di correttezza.
Dai ricercatori e dai giornalisti prima citati, sempre, infatti, è stato proposto, anzi sollecitato, di poter verificare l’eventuale azione scellerata dei terroristi dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), di concerto o meno con i terroristi libici del Colonnello Gheddafi, con l’accesso a fonti chiuse dal potere politico e a lungo trattate con una certa degnazione dagli inquirenti. Bisognava, cioè, porre fine al segreto di Stato apposto dal governo Craxi e dai suoi successori. Non si amano, infatti, ricordare le date per poter avere licenza di inventarsi discrezionalmente episodi e protagonisti. Intendo dire che tutte le carte Sismi, comprese quelle del capocentro del Sismi in Medio Oriente, con sede a Beirut Colonnello Stefano Giovannone, sono diventate consultabili solo in seguito alla direttiva del 2014 del premier Matteo Renzi e alla consegna presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma, tra il 2022 e il 2023.
E’ dal luglio 2005, quando diventa di pubblico dominio, che magistrati e Associazione dei parenti delle vittime, senza disporre di un millimetro di prove, dichiarano, anzi proclamano con fare sarcastico e liquidatorio, che la pista palestinese non era una pista, ma una sorta di diversione, vale a dire quasi un depistaggio. La spiegazione di questa linea di condotta risiede nel fatto che fin dal primo momento gli inquirenti avevano privilegiato la pista-bon-a tout-faire fascista. La disclosure di tali carte, avvenuta-ripeto-1-2 anni fa appena, ha significato che il lodo Moro ha continuato ad essere operante.
C’è, invece, da chiedersi come mai a livello istituzionale (del governo e della magistratura inquirente) non si sia, fin dall’agosto 1980, fatto valere un principio direi elementare, cioè che per la legislazione italiana i reati di strage e di terrorismo non ammettono nessuna secretazione, cioè non si possono opporre segreti di Stato. I giudici inquirenti potevano esigere fin dal primo momento la deroga a questo vincolo e consultare le carte. Perché a lungo hanno preferito non farlo se non per la volontà di assecondare la pista fascista perseguita inizialmente e con tenacia dal PM Libero Mancuso con la scorta di tutti i partiti?
E’ significativo il comportamento del senatore Francesco Cossiga. Dopo averla attribuita ai fascisti, sulla base di un’informazione (che dopo alcuni anni ha bollato come impropria e fuorviante) avuta dai servizi, si era detto persuaso che la carneficina della sala d’aspetto presso la stazione ferroviaria di Bologna era stata provocata dal trasporto di una valigia ripiena di potenti esplosivi da parte di terroristi del FPLP. Costoro, come quelli dell’OLP di cui erano membri, praticavano il traffico di armi e operazioni eversive o delittuose che i nostri servizi segreti (il Sismi) conoscevano, ma non hanno ritenuto opportuno divulgare più di tanto. Ma questo orientamento non impedì a Cossiga nel corso degli anni Ottanta di chiedere l’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta proprio sulle attività del Sismi.
La ragione per cui non andò in porto e non ebbe sostegni risiede in ciò che aveva potuto rilevare, cioè che
“i settori deviati della magistratura milanese e romana e la tendenza al compromesso del Copaco87 non danno assolutamente garanzia che essi possano accertare la verità, tutta la verità”88.
Nessuna forza politica né esponente delle istituzioni, comprese quelle giudiziarie, ha mai osato tanto. Infatti Cossiga prevedeva per la Commissione anche una serie garanzie come solo sedute pubbliche, trasmesse da radio e televisione, e il divieto di secretazione dei lavori e dei documenti acquisiti, compresi quelli per cui
“l’obbligo del segreto derivi da impegni Nato o Ue o bilaterali, anche relativi a materie nucleari. Lo stesso presidente del Consiglio – proseguiva – non potrà opporre nessun segreto. Tutte le classifiche di segretezza e riservatezza apposte fino ad ora si dovranno considerare revocate. Deve essere prevista la non punibilità in sede penale e civile e la non procedibilità in sede disciplinare per l’eventuale illecito procacciamento di documenti o copie di documenti originali, da qualunque classifica coperti, che vengano esibiti alla Commissione, nonché la non punibilità per qualunque reato nel quale il dichiarante possa incorrere con le sue dichiarazioni”.
Questa insistenza sulla trasparenza e l’abrogazione di ogni divieto per Cossiga si spiegava con certi aspetti, tutt’altro che decrepiti, anzi ancora oggi vivi e vegeti, della nostra stampa. Espressione diretta o riflessa di potentati industriali come la vecchia (e nuova) Fiat), l’imponente sistema di potere edilizio ed editoriale di Silvio Berlusconi, o quello finanziario di Carlo De Benedetti.
L’ex senatore democristiano si riferiva specificamente a uno di essi rilevando il
“danno che i veleni derivanti da segreti reali, da segreti supposti e dalla ‘filosofia dietrologica’ – anche per la perniciosa attività svolta da organi di stampa ‘seminatori di veleni’ quali La Repubblica e L’Espresso dell’ingegner Carlo De Benedetti, ancora irritato per le indagini condotte su di lui al tempo della guerra fredda per supposta informazioni e materiali sensibili all’Urss e alla cosiddetta Repubblica Democratica Tedesca”.
Col cambiare dei direttori, il vizietto non sembra essere venuto meno.
I troppi volti dello stragismo.
Se si vogliono spiegare le ragioni, affrontate qui in maniera non esaustiva, del progressivo décalage della magistratura, cioè di un’istituzione cruciale (il perno, direi, della nostra democrazia), le indicherei come segue: l’assenza di paletti, cioè di una seria divisione, tra il potere dell’ordine giudiziario e quello del potere politico; la mancata separazione delle carriere tra i pubblici ministeri e i giudici per modernizzare l’ordinamento giudiziario e munire i cittadini di maggiori garanzie (il che accade quando i magistrati si distinguono solo per la diversità delle funzioni, ma il CSM, cioè l’auto-governo della magistratura, purtroppo spesso non ama assegnare le funzioni a coloro hanno maggiori attitudini e competenze)89; i tempi biblici e i costi sempre più insostenibili (per il cittadino medio) dei processi e delle relative sentenze; la liturgia defatigante e oziosa delle procedure; il pullulare di veti e zone d’ombra, cioè riservate, che secretano gli accessi e limitano la disponibilità della documentazione; lo svolgimento in parallelo a quello presso le aule giudiziarie, di processi mediatici con la partecipazione degli stessi giudici e imputati; l’uso improprio e troppo discrezionale, non disciplinato da regole e sanzioni, delle intercettazioni.
Aggiungerei il malvezzo, diventato prassi, per cui la politica non si occupa del terrorismo, della mafia o della diffusa fenomenologia della corruzione e tende a scaricare-come hanno più volte denunciato Nino Di Matteo e Luciano Violante– nelle mani della magistratura, ingolfandone l’attività, inchieste che potrebbe compiere autonomamente.
Il che ha significato che,a partire dagli anni Ottanta, il titolo di sovranità, che spetta a governo e parlamento nell’esercizio della lotta per contrastare i reati prima citati, è stato delegato ai giudici.
Dunque, una grande disfunzione alla quale non esiste altro rimedio che ripristinare le funzioni degli organi della rappresentanza politica.
Ha ragione Violante90 a dire che l’Associazione Nazionale Magistrati (ANM) rappresenta non i cittadini, ma l’insieme dei giudici, ed è, e deve restare, un potere terzo. In questi decenni si è illusa di detenere la rappresentanza generale, cioè il ruolo del parlamento e del governo, e di esserne la loro controparte istituzionale o di alcuni ministri.
Va detto chiaro e tondo che il suo perimetro sono i tribunali, e non la rappresentanza dell’insieme dei cittadini. Ha origine in questa ambizione la de-legittimazione, e la diffusa perdita di autorevolezza e anche di credibilità, dei corpi giudiziari.
L’aver privilegiato fin dal primo momento la pista-bon-a tout-faire fascista è la prova che potere politico e potere giudiziario invece di servirsi della loro reciproca autonomia e indipendenza, hanno scelto la strada dell’allineamento, della collusione.
“Ora, da molto tempo le stragi non sono più raccontate. Commemorate sì; ma ridotte ad eventi lapidari, o a lapidi propriamente dette, la narrazione di esse, cioè la loro memoria, si è bloccata, o frantumata nei depistaggi, nella confusione voluta o subìta: non più storia, ma episodi che galleggiano nel caos dei segreti e delle congetture. I depistaggi non hanno avuto solo la funzione di proteggere esecutori e mandanti […] hanno anche avuto l’effetto di minare la memoria rendendo difficile la traduzione degli avvenimenti in racconto”.91
Il risultato è una palude, anzi un deserto della conoscenza che le giovani generazioni hanno sulle e stragi. A questa tragica realtà non sfugge quella che colpì la stazione ferroviaria di Bologna il 2 agosto 1980.
Secondo l’inchiesta condotta dall’istituto Piepoli negli istituti superiori milanesi, tramite interviste somministrate agli studenti del terzo, quarto e quinto anno92, il 62,8 per cento degli intervistati ne ha solo sentito parlare nel 2000 a fronte di un 62,5 per cento del 2006; con la differenza che quasi la metà degli studenti nella seconda tornata di interviste non sa collocarla temporalmente (ben il 49,8 per cento a fronte del 40,2 per cento del 2000).
Si tratta di un dato allarmante che colpisce l’esistenza stessa della democrazia, la ragion d’essere dei suoi valori costitutivi. Il disinteresse a non ricordare questo evento fa tutt’uno con l’enorme lasso di tempo (3-4 decenni) con cui vene amministrata la giustizia. E’ eccessivo o sconsiderato dire che mostra una macroscopica iniquità? Ad esserne alimentato è il dubbio che non valga molto la pena difendere il regime repubblicano.
E’ questa la realtà che si trovano di fronte i giudici della Corte d’Appello di Bologna che ad aprile 2023 hanno emesso la sentenza sulla strage del 2 agosto 1980, una strage quasi dimenticata. Il tentativo di mettere insieme-con i gravi limiti indicati da Lorenza Cavallo e Vladimiro Satta– una verità giudiziaria molto debole e comunque opinabile, è sopraffatto sia dai tempi biblici sia dai materiali prevalentemente ideologici e di partito (da guerra fredda) con cui è stata costruita? E’ per questa che Giuseppe Amato, procuratore della Repubblica del Tribunale di Bologna, a suo tempo archiviò questi incarti che sprizzavano un desolante aroma di guerra fredda.
Come al solito sulle spalle, cioè sulle decisioni, della magistratura pesano domande e aspettative infinite. E’ la ragione per cui i dispositivi delle sentenze, e soprattutto le stesse motivazioni di esse, sgusciano dalle paratie giudiziarie e si proiettano tumultuosamente nel dibattito, sempre aperto (ormai è un insopprimibile contenzioso) sulle idee che ognuno si è venuto facendo dei rapporti tra la giustizia e lo Stato.
In questi quarant’anni di contrasti, contrapposizioni polemiche anche all’arma bianca, il Pci alla fine ha sempre fatto carico alla magistratura di una mancanza precisa: di non avere dato il nome e cognome di un colpevole qualsivoglia. Come la più efficace delle soluzioni, per rimediare a tale insopportabile disfunzione, ha proposto la propria cooptazione in una coalizione di governo.
Questa può considerarsi una risposta politica ad una precisa domanda politica.
C’era, però, anche un altro aspetto. Dal parlamento non venne soddisfatta (taglio di già) nel 1988, quando Vladimiro Zagrebelsky scriveva la ragione per cui su un esteso fronte degli uomini dei servizi un gruppo di pressione con fini eversivi come la P2 avesse conquistato tanta udienza e consenso al punto da indurli a depistare le indagini. 93
P2 e servizi deviati finirono per concentrare la maggior pare dell’attenzione grazie al fatto che l’immaginario collettivo si nutre di una saggistica e di influencers provenienti dalla stampa periodica e quotidiana o di scienziati sociali.
Restò in un cono d’ombra il ruolo della storiografia, con l’eccezione della presenza su Il Resto del Carlino e su Il Corriere della Sera di uno studioso come Angelo Ventura94. E’, ancora oggi, un vero e proprio vuoto storiografico che il singolarissimo approccio ad esso dei giudici aggrava.
Le ragioni sono state bene rilevate quando si è scritto che
“sono anche, e forse soprattutto, riconducibili al perpetuarsi della visione dominante di un terrorismo neo-fascista come epifenomeno, anziché fenomeno in senso proprio. La percezione diffusa dei neri come ‘fanatici’, ‘deliranti’, ‘nostalgici’ ed eterodiretti, avalla lo scarso interesse per lo studio del terrorismo di destra, concepito come risultato ultimo e subalterno del “terrorismo di stato”, dei “poteri occulti” e dei “servizi segreti deviati”95.
Sono stati costoro ad alimentare una vivace e prolifica saggistica, seppure di valore assai diseguale.
Le motivazioni della sentenza: un vecchio spartito.
La Corte d’Appello di Bologna nell’aprile 2023 ha confermato le condanne impartite a Giusva Fioravanti, Francesca Mambro, Gilberto Cavallini. il giovane Luigi Ciavardini, con l’aggiunta più recente di Paolo Bellini
In maggioranza facevano parte, anche come esponenti, di un neo-fascismo che poco aveva a che fare col Msi. Rispetto al quale essi hanno finito per fare del delitto con motivazioni politiche una forma abbastanza inedita, direi professionale, di killeraggio.
Avendo alle spalle decine di condanne o denunce, per azioni di criminalità nei confronti di uomini politici, magistrati, forze dell’ordine eccetera è stato facile, quasi naturale, per i servizi segreti specializzati nel depistaggio (come quelli italiani), indurre in un imperdonabile errore il presidente del Consiglio Francesco Cossiga, fornendogli informazioni false.
Senza disporre di uno straccio di prova, parlando da premier al Senato il 4 agosto 1980 ha proclamato che, se non si trattava dell’esplosione di una caldaia, la responsabilità del massacro di 85 persone e circa 200 feriti presso la stazione ferroviaria di Bologna il 2 agosto 1980, andava attribuita alla “pista fascista”. Fece un paio di volte il nome dei NAR. Nessun giro di parole, nessun lessico ammiccante e ambiguo, ma nome e cognome diretto, dunque. Con qualche grosso errore nel delineare la linea politica del gruppo eversivo.
Dieci anni dopo, nel 1991, Cossiga, questa volta da capo dello Stato, si dirà convinto che a provocare la micidiale deflagrazione alla stazione di Bologna era stata una bomba trasportata, in maniera inesperta, dai palestinesi. Chiese scusa:
“Io mi sono sbagliato. Io fui vittima della subcultura di quel momento. Fui vittima delle false informazioni che mi arrivavano dai Servizi Segreti, in base alle quali, in forza di un socialismo d’accatto ma che a quell’epoca imperava, le stragi erano fasciste e gli ammazzamenti individuali erano dell’estrema sinistra; e in base a quello io mi sono determinato, chiedo scusa, mi sono sbagliato. È un peso che grava sulla mia vita”.96
Intorno alla prima presa di posizione di Cossiga (sull’identità fascista della strage) si coagulò l’arco dei partiti costituzionali. Una doccia fredda per iscritti ed elettori di destra. Le forze politiche di governo e di opposizione non esitarono un minuto a tessere la propria unità.
Purtroppo, replicando un comportamento non di rado storicamente consolidato, alla verità sancita dal potere politico ha finito per allinearsi, con un surplus di passività\conformità, il potere conquistato dall’ordine giudiziario.
In quarant’anni spartito e musica non si può dire siano cambiati. Si sono moltiplicati gli imputati della carneficina: servizi segreti, P2, Super Sismi, Gladio.
E’ solo diminuito in misura impressionante il numero dei militanti missini trascinati dietro le sbarre delle prigioni e dei tribunali di Stato. Furono trasferiti in centinaia dalle proprie abitazioni nelle patrie galere iscritti di ogni genere: operativi, professionisti, docenti universitari eccetera. Ma il loro destino si tramutò in una sorta di pelle di zigrino.
In un primo momento gli indagati e gli arrestati progressivamente furono rimessi libertà. La pesca del PM Libero Mancuso, un inquisitore tenace e orgoglioso del suo ruolo, per insaccare quanti più possibili fascisti nel bigoncio della giustizia era stata estesa a tutto il territorio nazionale.
In maniera non rapidissima i magistrati inquirenti si dovettero rendere conto che non avevano tra le mani la minima prova. Neanche indizi, ma solo la vaghezza di sospetti e dicerie. Dovettero limitarsi ad una caccia grossa rivelatasi striminzita, assai esile.
Ad essere tenuti sotto osservazione rimasero solo un paio, Giusva Fiora vanti e Francesca Mambro. Si estenderanno con gli anni fino a diventare 3-4 (con l’arresto di Luigi Ciavardini e Gilberto Cavallini), e uno in più dopo quarant’anni, con le manette serrate ai polsi di Paolo Bellini.
Solo i primi due erano killer politici di lunga lena. Possono definirsi professionisti in un campo ben delimitato: quello della politica (l’ostilità ai comunisti) e del prelievo, se non dell’ammassamento di armi, da qualche negozio. In più dalla Procura generale è stata messa a punto la mappa dei beni indicati da Roberto Calvi nella spartizione del tesoretto del Banco Ambrosiano. Era un capitale ormai in via di fallimento, che venne rigirato in mani diverse. Non è detto da nessuna parte che l’obiettivo fosse di seminare il terrore tra la popolazione civile in sosta il 2 agosto 1980, presso la stazione ferroviaria del capoluogo emiliano, per andare in vacanze. La maggior parte dei beneficiari delle risorse finanziarie dell’Ambrosiano ha un carattere ora indelebile: Federico Umberto D’Amato, Mario Tedeschi e Umberto Ortolani sono quasi tutti defunti e quindi non in grado in qualche modo di difendersi da pesanti imputazioni e soprattutto sospetti.
E’ stata poi esteso il cerchio di mandanti ed esecutori della strage. Della cupola eversiva avrebbero fatto parte Licio Gelli, il grande numero di iscritti (politici, magistrati, giornalisti, burocrati e soprattutto militari) all’associazione massonica “deviata” P297 e alcuni segmenti “deviati” dei sevizi segreti. Sono stati considerati in combutta con la Cia e gli apparati di sicurezza delle forze armate degli Stati Uniti stanziate in Italia (per lo più nel Veneto e nel Friuli).
Come si vede, gli inquirenti allargano e restringono la fisarmonica, finendo, però, per suonare il medesimo funebre spartito.
Nell’ultimo periodo ha preso consistenza l’inclusione di una vecchia sola (dei neo-fascisti, dei servizi segreti, della mafia, dei trafficanti di opere d’arte, di armi e di droga) come Paolo Bellini.
La narrazione giudiziaria colpisce subito perché evoca le note di un refrain, qualcosa di già letto o sentito dire. Per moltissimi versi è, infatti, la ripetizione pura e semplice di quanto ha illustrato ed esecrato la stampa del Pci e di sinistra. A farne l’uso più tenace, riecheggiando non di rado energicamente tale refrain in pose, proclami, minacce di un suo membro particolarmente perentorio ed aggressivo, è stata l’associazione dei parenti delle vittime. Testimone attiva di una tragedia umana indimenticabile.
La sindrome del complotto anticomunista.
Questa sinistra sostiene e perora da circa mezzo secolo, con la complicità di una stampa classicamente di regime qual’è per lo più quella dell’Emilia Romagna, l’esistenza di un complotto con al centro un progetto di attacco armato allo Stato repubblicano portato avanti mediante la cosiddetta “strage di Stato” e conati di golpe ora differiti ora imminenti, con carneficine e ammazzamenti vari.
Sempre secondo il Pci e qualche pubblico ministero (che al quotidiano comunista l’Unità affidò il testo della sua requisitoria), a ordirlo sarebbe stato una sorta di caucus in cui confluirono l’estrema destra neo-fascista e democristiana, di concerto con spezzoni dell’esercito, i servizi segreti “deviati”, la Cia e gruppi di imprenditori piuttosto poco caritatevoli.
Di fronte al prorompere di tale baldoria armata avrebbe dovuto aver luogo una previsione a lungo declamata. Corrispondeva come una goccia d’acqua a quanto i neofascisti e i ceti iper-conservatori, dal canto loro, hanno sempre auspicato e promosso, vale a dire una rivolta popolare.
Ad essa sarebbe seguita una coda politico-istituzionale. Il suo epicentro era ravvisato nell’intervento di esercito e forze armate promuovendo una politica di ripristino dell’ordine con la creazione di un governo di salute pubblica. Una conseguenza sarebbe stata la legittimazione dei neo-fascisti e dell’estrema destra. Un obiettivo comune da tradurre in atti di governo era quello di isolare, colpendoli pesantemente, i comunisti e l’area politica della sinistra. In questo contesto, il Pci vide entrare in scena sia il Msi, rimasto fedele alla sua vocazione parlamentare, sia alcune sue articolazioni giovanili che del partito di Giorgio Almirante erano anche contestatori come Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo.Estranei ad ogni suggestione parlamentare o peggio ancora di governo e critici implacabili dell’intera fauna della destra furono i Nuclei armati rivoluzionari (Nar):
«Il 21 ottobre abbiamo giustiziato i mercenari-torturatori della Digos Straullu e Di Roma. Ancora una volta la giustizia rivoluzionaria ha seguito il suo corso e ciò resti di monito per gli infami, gli aguzzi ni e i pennivendoli […] Non abbiamo né poteri da inseguire né masse da educare, per noi quello che conta è la nostra etica. Per essa i nemici si uccidono e i traditori si annientano. Il desiderio di vendetta ci nutre: non ci fermeremo»98.
A quest’ultimo gruppo appartenevano Fioravanti, Mambro, Ciavardini e Cavallini. Si caratterizzavano per essere animati da una volontà di “spontaneismo armato” ed essersi abituati ad operare nella clandestinità99.
L’insieme di questi gruppi giovanili rifuggiva dall’idea tradizionale, propria dei dirigenti del Msi, di potersi servire della dimensione parlamentare e in generale istituzionale. E non facevano mistero di essere tutti disgustati del cosiddetto “tramismo”, cioè del coinvolgimento subalterno del partito di Almirante, di Avanguardia Nazionale (fondata dal multifacetico Stefano Delle Chiaie) e Ordine Nuovo nei reticolati delle conventicole del potere politico e militare. Così la “vecchia guardia” «finiva con l’avere collusioni con apparati per strategie golpiste»100.
Ne sono testimonianza il gioco di scambi, favori, protezioni tra il capo dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno Umberto D’Amato e i diversi esponenti missini (ma anche, per la verità, della nuova generazione)101. Comune era l’obiettivo, attraverso la politica del terrorismo e delle stragi-di poter prima suscitare e poi guidare la rottura del sistema repubblicano-antifascista attraverso manifestazioni e vere e proprie rivolte di massa. Questa strategia dei nei-fascisti secondo i giudici bolognesi avrebbe avuto avallo e accreditamento da parte dell’alleanza militare Nato, dei paesi aderenti al Patto atlantico, dei corpi politici e militari degli Stati Uniti.
Al di fuori della propaganda di basso conio del Cominform e dell’Urss, che essa lascia evocare, tale ricostruzione della storia d’Italia non ha trovato seguaci se non presso parlamentari e giornalisti della sinistra del vecchio Pci, nella saggistica sul complottismo allevata prima dagli Editori Riuniti e ora delle case editrici Chiarelettere e First, in organi di stampa come La Repubblica e Il Fatto Quotidiano, in autori come il senatore comunista Sergio Flamigni.
Il Pci si volle spendere rimodulando il passato. Un cronista ferrarese de l’Unità 102, ricostruisce il terrorismo delle origini da parte degli zar attribuendo questo rumoroso metodo di fare politica al vertice stesso del Potere. Anch’esso sarebbe interessato a creare dissensi nell’opinione pubblica annullando i movimenti e le lotte sociali. In realtà il Pci sa poco e nulla dei movimenti neo-fascisti fioriti dopo il 18 aprile 1945. Sarà un sociologo, esperto di terrorismo, collaboratore del Corriere della Sera, Franco Ferraresi, a fornire in quattro articoli, nel marzo 1987, una rappresentazione limpida, dignitosa e informata delle molte vite della nuova destra fino ai NAR.
La strada è così aperta perché anche attualmente Il Fatto Quotidiano possa ribadire la sua inveterata profilassi storiografica. Per la penna di un ex magistrato palermitano (ora parlamentare di Cinque Stelle) Roberto Scarpinato stabilisce un (poco resistente alla prova dei fatti) filo di continuità del massacro di Portella della Ginestra a quella di Bologna del 2 agosto 1980.Un bel fritto misto tra mafia, atlantismo, Nato e terrorismo fascista.
Anche la strategia della tensione ha un punto di partenza diverso.
Non più la periodizzazione consolidata della Banca dell’Agricoltura del 12 dicembre 1969, ma quello siciliano del 1° maggio 1947.L’elenco delle vittime comprendeva oltre a queste, quelle dei morti della strage di Milano in via Palestro, il 27 luglio 1993 e della violenza eversiva dell’Alto Adige negli anni Sessanta.
Roberto Scarpinato è stato preceduto nel segnalare quello milanese da un testo pubblicato nei mesi successivi alla lettura del dispositivo della Cassazione. A redigerlo furono le Associazioni di familiari delle vittime delle stragi di Bologna, dell’Italicus, del Rapido 904 e di via dei Georgofili103.
L’asse portante, quasi una sorta di paradigma, era la strage di Stato che veniva fatta iniziare con la violenza eversiva dell’Alto Adige negli anni Sessanta. In questo contesto si rilevava il comportamento difforme di alcuni suoi apparati dei pubblici poteri. Erano stati deviati per collegarli sinergica mente con appoggi di carattere sovranazionale, covi e cellule clandestine e vere e proprie articolazioni della massoneria. In altre parole, lo stragismo viene piegato ad un ruolo strumentale di natura politica, che consisteva nell’intento di intervenire, ribaltandoli o condizionandoli, i principali assetti del Paese. Dalla politica all’economia fino all’organizzazione della società.
Ad essere delineata è una traiettoria storico-politica e delle responsabilità che appaiono diverse, se non opposte, da quella prospettata nella relazione del presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo e le sue conclusioni sulle stragi, il senatore comunista Giovanni Pellegri no104. Cruciali sono nella sua analisi l’estrema giovinezza e incompiutezza, e quindi, l’organica debolezza della democrazia italiana, il suo sovranismo limitato e l’inevitabile dipendenza della classe politica dagli Stati Uniti.
Pellegrino, inoltre, differenzia il 1969-1974, come il quinquennio in cui l’epicentro fu dominato dalle stragi neofasciste, da quello che ad esso fece seguito segnato dal terrorismo rosso e da vampate meno decifrabili di eversione di destra, ma inferiori al sovrastare dei servizi segreti.105
L’eco pubblica delle conclusioni rimbalza su tutte le testate, suscitando non poche perplessità, soprattutto per una certa tendenza ad addossare le più gravi responsabilità ai soli servizi segreti, reiterando la narrazione dei misteri.
Il paradigma interpretativo offerto è quello delle stragi di Stato.
La strategia della tensione, in queste pagine, non si manifesta originariamente nell’eccidio alla Banca dell’Agricoltura, ma trova una sua prima espressione (seppur con minor brutalità) nella violenza eversiva dell’Alto Adige degli anni Sessanta.
Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bologna, dottor Giuseppe Amato, di fronte all’ammasso di carte a carattere politico-ideologico accreditate a spada tratta dall’Associazione dei famigliari, non esita ad assumere il coraggio di negare loro ogni importanza, e quindi ad archiviare.
A farle proprie, avocandole al proprio ufficio e dedicando loro indagini e attenzioni privilegiate, fu invece il Procuratore generale presso la Corte d’Appello dottor Ignazio De Francisci. C’è da chiedersi se egli e i suoi più stretti collaboratori si siano fatti una semplice domanda: che interesse avevano i defunti Lucio Gelli, Federico Umberto D’Amato, Mario Tedeschi e Umberto Ortolani a fare quello che la sentenza della Corte d’Appello attribuisce loro di avere fatto, cioè di avere cooperato al piano diabolico di far saltare in aria, con rumorosissime esplosioni di bombe, la stazione ferroviaria di Bologna per far capire ai comunisti che la pacchia era finita?
Che c’entrano in questa tumultuosa e sconclusionata turbolenza mentale da cui sembrano essere affette le motivazioni della sentenza, organismi sovranazionali come il Patto atlantico e la Nato?
I comunisti bolognesi, per accreditare tale situazione, fecero una ridicola gigantografia di un piccolo personaggio, Roland Stark, e vi vollero coinvolge re la John Hopkins University che a Bologna, oltreché a Baltimora, ha avuto una delle sue principali e autorevoli sedi.
Non solo lo staff della Procura generale né mai nessuno è riuscito a dimostrare che la principale alleanza militare post-bellica dei Paesi a regime liberal-democratico abbia invaso o mosso guerra a qualche paese, cioè abbia fatto quanto l’Armata rossa e i suoi eredi hanno diffusamente compiuto in Germania, Ungheria, Cecoslovacchia, Afganistan, eccetera, fino all’Ucraina.
Negli Stati Uniti, dove diversi governi hanno fatto un uso abusivo dei loro poteri e dell’immagine di Washington, sostenendo regimi dispotici o intervenendo militarmente in America Latina, in Africa, in Asia, il turn over alla te sta dei servizi di sicurezza è continuo. La libera stampa e i ricercatori hanno potuto, sia pure poco speditamente, avere accesso agli archivi e documenta re episodi gravi di macro e micro-imperialismo.
Né è male, ma opportuno, rilevare una certa trasparenza e visibilità dei poteri negli Stati Uniti, perché è quanto in Urss e nei paesi cosiddetti socialisti è impensabile possa essere consentita.
Lo svolgimento dei numerosi processi sulla strage di Bologna ha mostrato l’estrema sensibilità delle corti giudiziarie non a richieste formali o esplicite, ma a impalpabili suggerimenti, sollecitazioni dei governi e dei partiti politici. Si tratta di accertarne la misura e il volume, senza negare che in generale questo buon vicinato e reciproco interfacciarsi e intrecciarsi tra istituzioni giudiziarie e corpi politici è comune a moltissimi paesi.
Se la vicenda di Bologna non costituisce un’eccezione o un’innovazione, mi pare opportuno verificare se, e in che misura, non si sia trasmodato, cioè se non siamo in presenza non di una replica, di un comportamento di conformità, di omologazione dell’amministrazione della giustizia al potere politico. Sarebbe la conferma, un ulteriore riscontro di un fatto storicamente determinato, cioè che in Italia lo Stato di diritto continua ad avere un parto difficile.
La strage e i giudici
Credo valga la pena di esaminare quali sono stati gli eventi e le tematiche intorno alle quali si sono incorniciati, influenzandoli sensibilmente, i diversi processi che hanno cadenzato gli esiti delle indagini sulla carneficina avvenuta a Bologna il 2 agosto 1980.
Va precisato che il primo indizio di responsabilità della strage fu individuato inizialmente, cioè lo stesso giorno, in comunicati generici attribuiti ai NAR e a un organo politicamente opposto, l’OLP. Entrambi furono in prima fila nel rivendicarla. Non disponevano di nessun elemento probatorio e, pertanto, non ebbero nessuna ricaduta significativa nella stampa e nei partiti.
Il primo per quarant’anni, vale a dire fino ad oggi, ha occupato stabilmente la scena, con imputazioni iniziali plurime e condanne finali limitate ad una trimurti. Il secondo (che da Carlos portava al terrorismo arabo-palestinese e brigatista italiano) è stato fino al 2005 banalizzato e lasciato cadere.
Si combinarono una pressione tenace (a carattere difensivo, ma dando l’impressione – non so quanto fondata – che sia stata anche altamente invasiva) dell’associazione delle vittime, e uno scarso interesse dei magistrati indaganti. Valorizzare la presenza, per non dire il ruolo dell’OLP, significava alzare lo sguardo, aprendo un’indagine su un corpo emblematico della sinistra (quella filo-palestinese) che da Bologna e dalla Regione dell’Emilia Romagna aveva fruito di grande solidarietà, assistenza sanitaria e cospicua mole di servizi e finanziamenti.
Non si andò oltre indizi, responsabilità sempre negate e quindi repentine archivi azioni. Per rendersi conto dell’estensione e dell’importanza basta ricordare il modo (e gli argomenti a valenza prevalente mente formale-burocratica) con cui fu liquidato il cosiddetto “lodo Moro”.
Tra il 1973 e il 1986, terroristi e loro alleati dell’OLP uccisero 83 persone e ne ferirono, anche gravemente, oltre 227.106
L’alto funzionario Giovannone che – come già ricordato – teneva i legami con loro era vicinissimo ad Aldo Moro, ma è stato oggetto solo tardivamente di interrogatori sul ruolo avuto come esponente del Sismi a Beirut. E’ morto testimoniando la sua solitudine.
La mancata tempestività nelle indagini e il loro carattere che non è sembrato esaustivo su questi interrogativi cruciali ci lascia perplessi e anche insoddisfatti, anche se non pare si possa parlare di un’omissione.
La sentenza finisce per accreditare interpretazioni assai opinabili. Penso a quella recentissima ripetuta anche di recente dal parlamentare di Forza Italia Carlo Giovanardi. Contrastando altre e assai diverse, anzi opposte, opinioni di parlamentari, ha dichiarato di aver consultato, nella veste di commissario della seconda commissione d’inchiesta parlamentare Moro (la Fioroni), documenti esplosivi, ma non divulgabili. Essi dimostrerebbero la decisione dei leader del terrorismo arabo-palestinese di voler colpire stazioni ferroviarie (Bologna) e vettori aerei italiani (il DC-9 inabissatosi a Ustica, a causa di una bomba forse esplosa all’interno). Sono dell’idea che niente, nessuna minaccia e sanzione, dovrebbe impedire di renderli di pubblico dominio.
Alla magnitudine dei processi (che hanno investito personaggi come Enzo Tortora, Giulio Andreotti e Silvio Berlusconi, noti giudici come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, killer efferati come Totò Riina, le stragi di Piazza Fontana a Milano, a piazza della Loggia a Brescia, il mare di Ustica e la stazione ferroviaria di Bologna) non si può dire sia seguito un grande investimento fiduciario dell’opinione pubblica nei confronti dei giudici.
L’amministrazione della giustizia è stata, e resta, una meteora, un tratto remoto e negativo nel sentimento della gente comune.
Un segno appunto dell’incompiutezza, della crisi, dell’inaffidabilità della giustizia italiana. Fino a legittimare l’avvio di un discorso, ad opera di un avvocato di cultura liberale, sulla curvatura eversiva dei magistrati107.
Per rimediare ai suoi guasti secolari, all’immagine negativa (di malagiustizia) che la circonda, ben pochi passi hanno mosso il parlamento, il governo, la Corte costituzionale, il Presidente della repubblica che presiede il CSM, le grandi associazioni dei giudici e degli avvocati.
Pertanto non trova smentita un vecchio e persistente luogo comune: in Italia (come in India o in Egitto) la ricerca dell’innocenza funziona bene solo per chi ha molti soldi per assicurarsi i servizi di grandi avvocati e ha molto tempo per attendere una sentenza dai tempi biblici.
Si tratta di una ferita gravissima che fa morire una democrazia, riducendola ad una fiera e all’esercizio di un rito farsesco.
I fascisti continueranno sempre a sperare di poter creare sfiducia e smarrimento nell’opinione pubblica.
Di seguito offro una sintesi dei commenti, emblema di uno stato d’animo vilipeso e dolente, con cui sono stati accompagnati gli atti relativi alla strage di Bologna.
Una lunga e vecchia e storia: la diffidenza verso i magistrati.
E’ scomparsa la riserva di caccia dell’antifascismo perché la gente non si lascia più accalappiare da questi trucchi inverecondi, e si muove lungo un itinerario in cui non ci sono più i partiti, le istituzioni dello Stato, le ideologie come vecchie bandiere identitarie. A sostituirle saranno il micro-nazionalismo chiamato sovranismo (da piede di casa), l’assalto alla diligenza europea, in qualunque modo e con qualunque alleato, per ricevere buone scorte di Euro, lo schieramento col blocco degli Stati ex sovietici (o con la sola Russia) o con le Nazioni Unite e la Nato a seconda della convenienza, il degrado della politica a cortile del “fare” rifuggendo da ogni visione del mondo e del futuro eccetera.
Una linea di demarcazione viene segnata. A destra tra chi come i fascisti, volgendo lo sguardo al 1922, punterebbero alla conquista dello Stato (per cercare di cambiarlo dall’interno), e
“ricorrono a stragi […] poiché sperano di mettere l’opinione pubblica contro la democrazia, resa responsabile dell’impotenza dello stato».
E a sinistra, dove si è pronti a giocare la carta della guerra civile, allo «scatenamento della guerra civile, per il tramite dell’indebolimento sistematico dello Stato», allo scopo di rovesciarlo e di instaurarne uno nuovo, diverso, a tinta rosso scarlatta.
Strage di Stato o contro lo Stato?
Ma davvero uomini dello Stato, cioè governanti e agenzie di sicurezza, possono pensare ancora di ergersi a «maggiore baluardo delle nostre istituzioni»? Il dubbio percorre come una vena carsica la grande stampa (come Il Corriere della sera) e di partito (mi riferisco a l’Unità), che sentono l’indignazione popolare contro le istituzioni montare nei cittadini diventati preda della follia stragista. La lettura di quanto avviene ruota intono al dilemma: strage di Stato (come tentano di rassicurare i giudici di Bologna) o contro lo Stato?
Leo Valiani, un vecchio antifascista del Partito d’Azione, temette che lo scoraggiamento popolare per l’inefficienza e la corruzione dello Stato (avrebbe combattuto più i brigatisti rossi che quelli neri), finisse per togliere credibilità alla repubblica e spogliare di ogni dignità la Nazione, quindi, alla fine, favorire l’intento dei terroristi. Il timore diffuso è che la legittima l’insofferenza di massa nei confronti delle istituzioni finisca per favorire il gioco dei terroristi, togliendo «ogni credibilità all’Italia repubblicana.»108. A muoversi in questa direzione è Alberto Moravia. Egli sintetizza in questo passaggio l’educazione politica e sentimentale maturata nell’ultimo decennio:
«Gli italiani […] vedono, riflettono, non si lasciano più destabilizzare sia individualmente, sia collettivamente»109.
Dunque, sono essi e non lo Stato e le istituzioni, oramai vulnerabilissime, a far vivere la democrazia. Un valore dello spirito più che della realtà. E il candidato ministro dell’Interno comunista parla anch’egli di «un’autentica lunga prova di eroismo di popolo» come aspetto saliente della crisi del Paese, nonostante la quale i fascisti continueranno sempre a sperare di poter creare sfiducia e smarrimento nell’opinione pubblica110.
In questa nuova consapevolezza del tessuto sociale consisterebbe il «maggiore baluardo delle nostre istituzioni», difese più dai cittadini che dagli uomini di governo e dalle agenzie di sicurezza. La politica è posta sotto accusa da “l’Unità”, che al “Sono stati i fascisti” del titolo in prima pagina, fa seguire la propria sintesi interpretativa della strage:
“un nuovo feroce assalto contro la democrazia mentre manca una guida politica seria e si fa sempre più acuta la crisi economica e sociale”.
Bastava, dunque, cambiare governo, chiamare i comunisti a farne parte.
La spinta a riproporre un rilancio dell’antifascismo coincide con la linea, proposta dal premier Cossiga e dal quotidiano La Stampa, di attribuire la strage ai fascisti. L’intero decennio è ripercorso mettendo in fila gli episodi più eclatanti della criminalità “nera”, distinguendola da quella “rossa” per la sua maggiore violenza.
La prima colpiva dirigenti di partito o rappresentanti dello Stato, la seconda era volta a sterminare la gente, il popolo: le bombe di piazza Fontana a Milano nel 1969, di Piazza della Loggia a Brescia e dell’Italicus a San Benedetto Val di Sambro nel1974 (dove l’istruttoria appena conclusa aveva rinviato a giudizio i terroristi neri Mario Tuti, Luciano Franci e Piero Malentacchi quali esecutori materiali).
Il decennio degli anni Settanta, se offre lo spunto per mostrare una certa efficienza della magistratura, conferma la presenza ovunque della mano nera del terrorismo, e deve arrendersi di fronte alla diffidenza e alla lontananza della gente.
La testimonianza più potente e dolorosa non è nell’immensa folla che a Bologna occupa piazza Maggiore, ma negli insulti di cui sono fatti bersaglio Cossiga e i ministri. Direi che soprattutto è nel rifiuto dei famigliari delle vittime. Dichiarano di non voler esporre il feretro dei congiunti nelle commemorazioni istituzionali e di non intendere partecipare ai funerali solenni previsti a Bologna per il 6 agosto 1980.
Nella principale chiesa di Bologna questa lacerazione è di un’evidenza impressionante. La quasi totalità delle salme, infatti, non sarà presente in San Petronio. In questa mesta celebrazione si mescolano, diventando inestricabili, da una parte la paura che possano aver luogo altri incidenti e disordini creando nuove tragedie; dall’altra un consapevole ed esibito “rifiuto politico” del rito religioso. Grazie al virus inoculato dal Pci e dai partiti di sinistra, anch’esso finì per tramutarsi in un prolasso retorico di promesse e una fiera di impegni mille volte ripetuti e ascoltati. In breve qualche e, una cerimonia piegata a celebrare il ballo irrefrenabile del luogo comune.111
Intanto la strategia eversiva viene concepita dai magistrati interessati di Bologna e Brescia riuniti a convegno come un disegno unico che giustappone le intenzioni dei nei-fascisti con quelle della massoneria rappresentata da Licio Gelli e di un servizio segreto parallelo. Gli esponenti di quest’ultimo (Gelli, Francesco Pazienza, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte) inventarono il “terrore nei treni” e un “Super Sismi” per fini che si riveleranno essere di un vero e proprio depistaggio delle indagini sulla strage del 2 agosto. Si volevano orientare le indagini verso la criminalità politica “nera”, ma per distogliere l’attenzione da quella perseguita dagli inquirenti.
Il “Super Sismi” verrà infine condannato per deviazioni gravi e reiterate compiute fra il 1980 e il 1981. Dunque, il mostro ha tre volti: terrorismo neo-fascista, servizi segreti e poteri occulti.
Ad essere delineata è la narrazione di una rivolta, una forma di assedio dall’interno. Non dello Stato, ma contro lo Stato. A conferma di quanto militanti di Lotta continua, giornalisti e intellettuali milanesi, sulla scorta probabilmente di un canovaccio fornito dagli stessi servizi, esporranno in un libretto dedicato alla carneficina di Piazza Fontana a Milano, intitolato Strage di Stato.112 Una formula e un’analisi che il tempo non ha appassito né fatto uscire di scena.
Contro la lontananza siderale della politica, la debolezza e gli esempi di connivenza delle istituzioni, gli indicibili ritardi e scompensi, con pochi passi avanti vanificati dai molti indietro con cui si muove la macchina della giustizia, a salvarsi sono personaggi unici e minoranze.
Da un teorico del complottismo come qualche PM, il suo inizio viene fatto risalire all’inizio degli anni Sessanta a Palermo, quando all’Hotel Parco dei Principi, si tenne un convegno di studiosi, militari e giornalisti sui modi più efficaci con cui contrastare il comunismo. Ma grazie al contributo del deputato del Pci e poi vice-presidente della Commissione presieduta da Tina Anselmi, Alberto Cecchi113, anche presso La Repubblica scatta il proclama per cui il Parlamento dovrà prendere atto «di tutti i segnali che indica no nella P2 il principale centro eversivo di questi anni»114.
La nuova linea del PCI
Dunque i comunisti tortuosamente abbandonano la linea che attribuiva all’estrema destra il primato nella de-stabilizzazione del regime repubblicano, e concentrano ogni attenzione su un a struttura occulta e clandestina considerata maggiormente influente e pericolosa come la P2.
Il 15 giugno 1986 il quotidiano del PCI sintetizza in questi termini115 il deposito-avvenuto un mese prima- della requisitoria per la strage del 2 agosto: “È una strage firmata P2. Ed il Sismi «deviato» coprì i responsabili”116. Siamo assai lontani dalla riflessione storica in cui Giuseppe De Lutiis inquadra i diversi aspetti della strategia della tensione sottesa alla politica piduista. Come ha mostrato il giornalista del settimanale L’Espresso Pietro Calderoni, bisogna prendere atto che essa
“si svolse in più tempi, che si è esplicitata inizialmente nella protezione dei gruppi destinati a compiere l’attentato prima che esso avvenisse, poi nel depistaggio delle indagini […] infine nel salvataggio dei presunti responsabili»117.
Questo secondo aspetto s’imporrà, gli il segno, al decennale della strage. Il Pci, infatti, optò per organizzare festival, balli e canti invece che chiudersi nelle lacrime di in un rito funebre prolungato. In realtà della nuova destra, della sua composizione sociale, di quanti lo manovravano non sapeva molto. Nel mese di marzo Franco Ferraresi, sociologo cui dobbiamo molte delle più articolate e lucide analisi della violenza e del terrorismo di destra in Italia, cura per Il Corriere della Sera una serie di articoli di approfondimento sul tema: “La destra eversiva alla sbarra.”.
Il primo dei quattro contributi si concentra sulle radici del neofascismo italiano e, molto lucidamente, evidenzia come la destra costituisca in Italia «un settore politico fra i meno studiati», in cui il Movimento Sociale Italiano «è quasi del tutto trascurato da storici e politologi», e rispetto ai gruppi extra parlamentari di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale.
L’11 luglio 1988 si ebbe la prima sentenza. Erano passati otto anni, duecento cinque udienze, diciotto giorni di camera di Consiglio. Malgrado i quattro ergastoli per gli esecutori (individuati in Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Massimiliano Fachini e Sergio Picciafuoco) e i dieci anni per calunnia aggravata dalla finalità di eversione per il capo della Loggia P2 Licio Gelli, Francesco Pazienza insieme agli ex ufficiali del Sismi, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte, il sentimento che giustizia sia stata fatta non è facile rinvenirlo. A venir fuori è una soddisfazione ambigua.
Ma la doccia fredda arriva un anno dopo, il 18 luglio 1990, quando l’assoluzione è la sentenza fatta valere per tutti gli imputati. L’Unità esce con la prima pagina quasi interamente in bianco. Le poche righe di commento contengono ira e indignazione: Bologna, una strage nel nulla, commenta Ibio Paolucci. L’aveva preceduto Licia Pinelli, moglie di un notissimo ferroviere anarchico (accusato, senza uno straccio di prova, dell’assassinio del commissario Luigi Calabresi) che dalla questura di Milano uscirà scaraventato sul piazzale da una finestra da dove non era entrato:
«uno Stato che non ha il coraggio di riconoscere la verità è uno Stato che ha perduto, uno Stato che non esiste»118.
Sgomento per una sconfitta e determinazione nel cercare la verità sono anche la reazione dei comunisti.
Ma dove cercarla, a questo punto? A Botteghe oscure non se la sentono di mentire, trovare attenuanti, esortare alla solita liturgia dell’attesa. Dicono chiaro e tondo che la magistratura ha fatto fallimento:
“La verità, da vent’anni, non sta nei cassetti dei giudici ma giace negli archivi dei servizi segreti italiani”.
Dunque, un altro e nuovo, anche se non nuovissimo, attore viene promosso Mai questo partito di opposizione sia era spinto a tanto. Dunque, la verità su Bologna bisogna cercarla fuori delle aule dei tribunali:
“Tutti assolti. Dopo dieci anni la strage di Bologna non ha alcun colpevole. Resta il ricordo di 85 morti e 200 feriti. Dal ’69 ad oggi vi sono state cinque stragi, centinaia di vittime e di feriti e nessun mandante accertato, nessun esecutore in carcere”.
E’ anche la chiusa del commento non fa nessuna concessione alle autorità giudiziarie. L’organo del Pci respinge ogni
“possibile rettorica. È il segno dell’indigna zione e dell’ira. È la testimonianza dello sgomento”.
E’ un atteggiamento che induce ad una polemica aspra, dura. Il Corriere della Sera si chiede, con Giuliano Zincone, se al Pci in fondo non basti, e quindi non cerchi, un colpevole, indicandolo in Gelli o in qualche esponente del neofascismo, da dare in pasto per soddisfare, o solo sedare, la domanda crescente di giustizia di elettori, iscritti e in generale dell’opinione pubblica.
E’ una comprensibile e seria domanda liberale.
In realtà, in seguito al fallimento della verità sulle stragi cercato nei tribunali, dal Pci il terreno dello scontro, della rivalsa, del riscatto viene interamente trasferito sul piano dei rapporti di forza nella società. Di qui l’affermazione e una sorta di appello “anche di una battaglia civile che continua più forte”.
Non si tratta di reazioni individuali, isolate. Nei racconti dello stragismo sono ricorrenti e alludono all’inenarrabile lontananza dello Stato e all’iniquità degli esiti giudiziari (la mala giustizia appunto)119.
Senza tempo, senza misura la tragedia di Lia Serravalli. Nell’esplosione presso la stazione ferroviaria di Bologna a scomparire nel nulla sono state due figlie adolescenti (Patrizia di 18 anni e Sonia di 7) e la sorella Silvana con un bambino in grembo. A cedere ad un dolore demoniaco e irremovibile è stato il padre che ha finito per suicidarsi gettandosi dal sesto piano dell’alloggio in cui abitava. E’ stata la protesta estrema contro lo Stato (magistratura, servizi, politica ecc.).
Lo Stato per questo vecchio era un guscio lessicale, la consistenza di una macchia nera, uno spettro che si aggirava indolente ed enigmatico, perché non cercava la verità della strage.
“non riusciva a farsi una ragione del fatto che non si trovasse un colpevole. Che non ci fosse giustizia. Che non si capisse perché era stata compiuta quella strage, un’altra strage dopo tanti morti. La bomba mi ha tolto le mie figlie. Lo Stato mi ha tolto mio padre”120.
Nessuno poteva testimoniare di averlo mai visto. Né a rovistare tra le macerie di quella trincea devastata che fu la stazione ferroviaria, né nelle aule del tribunale dove i ghigni e le irrisioni dei neofascisti chiusi in un gabbione non vennero sedate nel ricordo delle figlie, della sorella e del padre.
Tutti morti innocenti:
«Non siamo mai stati protetti, non siamo mai stati aiutati. Ma soprattutto non siamo mai stati rispettati […] nessuno mi venga a parlare di perdono.»121
L’impunità decretata dallo Stato quando non riesce a trovare i colpevoli e a punirli, cioè ad emettere sentenze, è il solvente micidiale che in maniera lenta ma ineluttabile distrugge un regime democratico. “Non vogliamo un’altra Catanzaro” grida l’appena costituita a Bologna Associazione dei parenti delle vittime al Convegno delle città colpite dal terrorismo, promosso dalla Federazione unitaria Cgil, Cisl e Uil, tenuto il 2 giugno 1981. Il riferimento era al processo non ancora concluso per la strage di Milano presso la Banca dell’Agricoltura.
“Non ci sarà una seconda Piazza Fontana” fu l’orgoglioso impegno, la grande sfida politica lanciata dal Comune di Bologna. Nel dodicesimo anniversario della strage dal Corriere della Sera a La Stampa fino all’Associazione dei parenti delle vittime sono in prima fila nel denunciare l’immobilismo delle indagini. Non riguarda solo Bologna. Tutte le carneficine da Piazza Fontana all’Italicus, da Piazza della Loggia a Brescia sono indagini rubricabili come “passi perduti”. A rendere esterrefatti e indignati è la lentezza a carattere permanentemente cronico dell’amministrazione della Giustizia italiana; la scarsa comunicazione, e quindi la quasi non collaborazione tra magistrati e i dirigenti della nostra security; la trama dei rapporti impropri delle aree ad alto tasso di criminalità col terrorismo nero-fascista, che si sommano ad un fenomeno endemico, cioè agli scambi e coperture tra l’eversione di estrema destra con i servizi segreti e in generale la sfera del potere politico. Per non parlare delle assoluzioni, accompagnate da riesami, e trasferimenti ad altre sedi dei giudici. A Bologna furono coinvolti dal provvedimento ben quattro dei giudici coinvolti sino ad allora nell’inchiesta per la strage del 2 agosto, cioè Angelo Vella, Aldo Gentile, Luigi Persico e Guido Marino. Manlio Milani ha saputo cogliere un elemento decisivo quando ha vissuto, e reso pubblico, la distanza tra le istituzioni dello Stato e il mondo dalle pene inconsolabili e non risarcibili delle vittime. E’ un conflitto che ha vissuto dentro di sé e lo ha reso pensoso, e insoddisfatto, di tutte le semplificazioni, le stesse verità uniche:
“da un lato sono consapevole che se voglio mantenere viva la memoria e il messaggio di quella mattina devo difendere le istituzioni, dall’altro vedo le istituzioni che sono lontane, come volontà politica, da questa ricerca. Vivo ancora oggi sul la mia pelle una conflittualità enorme anche se, rispetto ad allora, abbiamo fatto notevoli passi in avanti”122.
La sua mitezza personale non ha nulla, proprio nulla, da spartire con una forma di giustizia (verità giudiziaria) che alla fine affida la complessità della verità storica (non riducibile ad un valore interpretativo e anzi ricca di contrasti e tensioni del presente) all’insinuarsi dell’impu nità. Il perdono presuppone sicuramente il rifiuto della sanzione estrema (la condanna a vita del colpevole), ma a Milani sembra improponibile senza un’assunzione di responsabilità individuale. dell’innocenza di cui si è fatto strame.
” Trasmettere la memoria significa trasmettere questo senso del tempo storico, cogliere i percorsi da dove veniamo: sta qui l’essenza, il valore della ricerca della verità, che deve essere costante, continua, da non abbandonare. Dietro al ricordo c’è una cultura e soprattutto il non accettare di adagiarmi perché le cose sono andate così”123.
Dieci anni dopo, cioè nel 1990, i nove giudici della Corte di Cassazione individuano troppe falle nel processo d’appello che aveva annullato le condanne inflitte in primo grado comminando l’assoluzione di molti neo-fascisti. A prevalere è la necessità di rimettere al centro l’ipotesi di un’azione terroristica fascista in collegamento con servizi segreti e loggia P2.E il presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi Libero Gualtieri (esponente del Pri) introduce un altro protagonista:
“Quello di Bologna è un processo chiave, perché riguarda un fatto quasi conclusivo della strategia della tensione, di cui Gladio è stato parte»124.
E’ l’ultimo attore a comparire in uno scenario in cui si sono alternati fino ad allora agenzie e interessi locali. Anche il nuovo venuto, pur avendo avuto i natali nel 1951, sarà cucinato, quel che in Italia è peccato mortale dire a voce alta, in pubblico, con orgoglio, di essere stato concepito come uno strumento della lotta popolare per non finire come l’Urss, la Cina, i paesi del Patto di Varsavia o Cuba. Precisamente per non subire, dandosi anche una struttura extraparlamentare (purtroppo a volte in combutta con gruppi di destra), l’invasione delle forze armate di quei paesi in cui ogni libertà ed eguaglianza è stata spazzata via per molti decenni.125
Silendo libertatem servo126 è scritto nella piccola spada a doppia lama del simbolo italiani, Gladio, di Stay Behind. Era un organo della Nato anche se non di rado troppo vicino alla Cia.
Perché Bologna nel mirino?
La città di Bologna era considerata l’epicentro, e non solo il perno del l’antifascismo, del progresso e della solidarietà. Mai nei confronti dello Stato di Israele aggredito e diffamato, ma sempre a favore dell’estremismo arabo-palestinese dell’OLP.
Arafat dopo l’ennesima débâcle nella Guerre dei Sei Giorni nel 1967 col rinnovato intervento armato contro lo Stato ebraico si esibirà in forme di vero e proprio terrorismo e belletto anti-imperialista.
Le forze politiche che hanno governato la città (comunisti e socialisti) non hanno mai avuto una parola, e tanto meno organizzato una manifestazione, a favore degli Stati Uniti (allora impegnato in una guerra sub-imperiale indifendibile come quelle del Vietnam) avendo deciso di esaurire ogni sforzo e plauso a favore dell’Unione sovietica e dei paesi comunisti in ogni parte del mondo.
In passato, durante il ventennio, la città era stata tra le più devote e appassionate nel tributare fiumane di oceanico consenso al regime mussoliniano. Durante la guerra di liberazione del 1943-1945, malgrado le difficoltà incontrate dai gruppi partigiani – per la conformazione geografica pianeggiante e poco montagnosa della provincia – di poter svolgere un’azione clandestina non solo di infiltrazione, ma anche di carattere militare, fu un centro di organizzazione e propulsione dell’anti-fascismo combattente. Com’è (poco) noto, qualcuno dei suoi organismi si spinse fin nelle valli del Bellunese occupate da reparti nazi-fascisti127.
Nel dopoguerra la città sul piano elettorale, della cooperazione economica, della mobilitazione dei ceti sociali, grazie ad una politica comunale attenta all’assistenza e al sostegno degli strati popolari più diseredati, seppe eccellere, fino ad essere additata come un esempio, nel buongoverno. Con un occhio impavido nel soddisfare le esigenze delle corporazioni, mondi associati come i commercianti, gli artigiani, le cooperative e il micro-padronato. Erano la base del suo nuovo blocco sociale dopo il fallimento dell’industrializzazione, insieme a ceti che, al pari di quelli dei Cinque Stelle, oggi si chiamerebbero populisti.
A diventare sempre meno presenti, se non passivamente, nell’armamentario politico dei comunisti emiliani furono i monopoli. Assomigliano ad un tema diventato desueto, perché a rinnovare la nuova strategia vengono schierati il reticolato imprenditoriale di piccolo calibro pullulante proprio nello spazio territoriale ed elettorale in cui il Pci dominava (Emilia, Toscana, Umbria e Marche).
Di qui la tendenza a voler modificare ben poco nel sistema policentrico e per nulla a dominanza proletaria delle alleanze fino a voler convivere col tessuto una volta esecrato delle grandi imprese.
Il servizio privato del traporto pubblico è un collo di bottiglia che le amministrazioni comunali di Bologna non sono riuscite, anzi non hanno mai osato, scalfire. Ancora oggi, essendo la città, diventata meta di grandi fiere internazionali, si può assistere, esterrefatti ed estenuati, allo spettacolo di interminabili file di persone che nelle stazioni ferroviarie e negli aeroporti attendono l’arrivo di un taxi. Era, questa, una politica che fin dal 1982 mi sono permesso di delineare, non tenendo conto della differenziazione costituita dal sigillo ideologico sovietico, come una prassi socialdemocratica128. Non riusciranno a piegarla il tallonamento martellante e i controlli esosissimi che il governo centrale impose servendosi dei meccanismi di contropotere attribuiti alle prefetture e alle questure. La città fu progressivamente assoggettata ad un processo – certamente non energico né impetuoso, e tantomeno totalitario – di sovietizzazione. Debole e poco duratura fu la maschera propagandistica con cui venne ricoperta, cioè la gratuità del servi zio pubblico di trasporto.
L’antisemitismo fascista era sopravvissuto alla caduta del regime. I docenti e il personale universitario che avevano perso ogni incarico per la loro fede, alla débâcle della dittatura non vennero ripristinati nei loro vecchi ruoli129.
Lo squadrismo comunista contro i profughi istriano dalmati.
A Bologna e a Roma il Pci scelse la via sobria del riserbo, cioè si guardò bene dal l’esprimere disapprovazione e condanna contro una discriminazione che il fascismo aveva reso norma.
Nell’urbe petroniana gli ebrei erano numerosi tra gli iscritti e i dirigenti del Pci. Ma a prevalere fu il conformismo più tragico ad un passato-che-non-passa. Infatti, nessuno dei leader con simpatie e origini semitiche del partito bolscevico poté fregiarsi dell’onore di essere morto nel proprio letto.
La sudditanza a Mosca comportava anche efferatezze e disumanità. Per alcuni giorni una folla di militanti e di elettori si scatenò contro il treno che da Trieste trasferiva a Roma centinaia di sopravvissuti alle foibe e ai maltrattamenti dei comunisti jugoslavi. A questi viaggiatori negarono acqua e pane, ma li rifocillarono di scorte di insulti cocenti. Fu un’azione indecente di squadrismo comunista. Ad esserne vittime furono numerosi abitanti di una regione italiana, la Venezia Giulia. Il legame fraterno con Stalin e con Tito, entrambi riveriti da Togliatti, li aveva tramutati in una folla di profughi in patria. Ignorati dallo Stato, criminalizzati come fascisti dalle sinistre, accampati nelle case popolari delle grandi periferie urbane per molti decenni furono costretti a vivere nella condizione miserabile e penosa di poverissimi esuli. Nella storia dell’Italia monarchica e repubblicana, non si era mai vista una così imponente de-nazionalizzazione di un segmento della popolazione, per di più proveniente dai confini, imposta da un partito legato a filo doppio a Mosca. Stipati nei vagoni di una tradotta delle Ferrovie dello Stato, fuggivano da un destino certo di perdita ogni identità nazionale e di ogni libertà. Avevano due colpe che non verranno loro mai perdonate. In primo luogo aver voluto preservare, difendendola con grandi sacrifici di vite umane, espropriazione di beni, aggressione alle loro ancestrali memorie, a loro identità nazionale. L’esercito e la polizia politi a rossa del maresciallo jugoslavo li avevano banditi, armi in pugno, dalle proprie città e case. In secondo luogo avevano rivendicato il diritto a non subire, dopo quella fascista, l’oppressione di una dittatura anche peggiore come quella di Stalin, auspice Togliatti. I comunisti bolognesi saranno sempre in prima fila nell’assecondare ogni decisione e impulso ostile alla democrazia degli Stati Uniti e dei paesi aderenti al patto atlantico, nel cantare le lodi di quanto -anche di peggio – veniva imbandito dalla propaganda sovietica.
Ian Palach, “eroe negativo”
Il punto più basso, la pagina cioè più degradante e infame, fu toccato da un uomo di potere, sempre molto attento alla propria immagine (non di trasandato e improbabile compagno comunista, ma di sé stesso), il sindaco Renato Zangheri.
Si volle spingere all’estremo del filo-sovietismo, nella difesa di una misura semplicemente reazionaria come l’invasione della Cecoslovacchia da parte di reparti del l’Armata Rossa, l’uso dei carri armati per debellare la domanda di autonomia e di libertà dei cittadini cecoslovacchi. Lo fece bollando come “eroe negativo” il suicidio del giovane studente Ian Palach. Piuttosto che vivere in una città occupata dall’esercito e governata dal partito dell’Urss, come Praga, optò per darsi la morte. Era il segno del dolore infinito, della disperazione alla quale i metodi e le idee del comunismo condannavano le nuove generazioni. Ma il sindaco di Bologna e il suo partito non esitarono a schierarsi dalla parte di chi, facendo sfilare colonne di tanks e uomini armati, pensarono di ipotecare il loro futuro.
Sempre a Bologna, anche nei confronti della rivolta studentesca degli anni Settanta, l’atteggiamento è che fosse un “nuova peste”, cioè un fascismo rivestito a nuovo, ma sempre di vecchio conio130. Quello che nel 1919-1920 aveva bruciato le copie del quotidiano socialista Avanti!, messo a ferro e a fuoco le sedi del Psi e delle cooperative, malmenato e costretto all’emigrazione braccianti e operai, spesso con le loro famiglie al seguito.
Perché questa storia non si ripetesse, anche se non ce n’era il minimo indizio, i leader comunisti bolognesi, con alla testa il sindaco prima citati, invocheranno, in maniera impropriamente indiretta l’intervento repressivo della polizia per ripristinare il vecchio ordine accademico. Guido Viale lo aveva devastato sui Quaderni Piacentini mostrandone il vecchiume, l’arretratezza e la distanza siderale dai bisogni della gente e delle stesse imprese.
C’erano stati episodi di violenza a carico di qualche ristorante, non poche occupazioni di strade e biblioteche di Facoltà, scambi di insolenze eccetera. L’esercito inviato da Cossiga, allora ministro dell’Interno, militarizzò la zona universitaria. Solo la sindrome pervasiva del complottismo dominante nella testa del gruppo dirigente del Pci poteva spiegare che senso avesse criminalizzare gli studenti accusandoli di essere terroristi di destra, addirittura manovrati dagli Stati Uniti, insieme ai movimenti politici di estrema sinistra che li sostenevano. Negli atenei di Berkeley, di Parigi e di Nanterre eccetera succedeva di peggio.
Per la verità non si poteva esigere né pretendere molto. La federazione comunista di Bologna per conto suo e non aveva mai dato prova di eccellere in capacità di analisi. Era uno scrigno prezioso di voti, una chiesa di grande fedeltà a Roma, e subiva passivamente la sindrome universal-complottistica permanente che aveva pervaso a Roma il ministro dell’interno in pectore, Luciano Pecchioli. Subirà anche la fascinazione dell’idea di Luciano Violente di appiattirsi sulle procure, dando vita alla famosa via giudiziaria al socialismo131.
Il fascismo eterno, un’invenzione dei comunisti
L’idea del fascismo che torna, cioè del fascismo eterno, fu inventata dai comunisti, per esorcizzare la formazione di una destra liberale.
Venne agitata in ogni occasione dopo l’esclusione del Pci dal governo nel 1948. Ad essa ha sempre corrisposto l’esibizione – non senza una certa ridondanza – dei simboli dell’antifascismo e della Resistenza.
Ricordo che nel 1977 gli iscritti al Pci furono mobilitati a difesa del sacrario e dei cippi delle vittime partigiane nella guerra di Liberazione. I loro nomi e le relative foto erano esposti a Piazza Maggiore. Ci fu inoltre imposto di recidere qualunque legame amicale con militanti o sospettati di essere tali delle Brigate rosse e simili. Nessuno aveva minacciato questo e altri luoghi di rimembranze antifasciste, ma il segnale che si voleva dare era che il movimento degli studenti voleva regolare dei conti col passato antifascista (peraltro recentissimo) di una città che tra quelle emiliane, e anzi italiane, era stata sempre orgogliosamente fascistissima.
Per i giovani di destra, la vita a Bologna è stata grama, impervia, una sfida e un pericolo continui. Girare da soli in città, ed essere riconosciuti dai giovani della FGCI, significava esporsi a incidenti, quando non una catena, di violenze e provocazioni.
Non diversa mente da quanto era avvenuto nel biennio 1920-1921 ai giovani socialisti e comunisti assunti a bersaglio delle squadracce fasciste e costretti ad emigrare. Di qui la necessità per i militanti neofascisti di fare gruppo, incontrarsi collettivamente e quindi cadere nel pericolo che si voleva evitare. Una guerra civile a bassa intensità, ma permanente.
Un parlamentare di Alleanza Nazionale, Enzo Raisi, in un passaggio auto biografico ricorda
“i tanti scontri che noi giovani di destra, sparuta e coraggiosa minoranza, ingaggiavamo al Liceo Fermi con i nostri coetanei di sinistra. Non c’era storia, il rapporto era uno a cento e la nostra attività politica era mera testimonianza”132.
Anche andare e uscire di scuola era un’avventura simile ad una lotta per esistere:
“Ogni giorno, quando la campanella diceva che era ora di andare a ca sa, si ripeteva sempre lo stesso scema: si guardava fuori dalla finestra, si controllava l’atmosfera e al minimo sospetto di pericolo o di agguato o di assembramento della controparte si optava per l’unica scelta possibile: uscire dalla finestra di dietro. Sopravvivenza pura”133.
E non si sono mai contati i morti ammazzati per mano delle forze dell’ordine o in scontri con militanti della federazione giovanile comunista. Davvero una guerra civile a bassa intensità, ma permanente.
A Bologna, come in Emilia, la narrazione di un’epoca è stata sintetizzata Il Fatto Quotidiano
“il papà, la mamma, la famiglia: in Emilia il PCI fu davvero tutto”134.
In segno di gratitudine e devozione ad esso, nel primo dopoguerra gli assunti negli enti comunali hanno per un certo arco di anni versato il primo stipendio al partito. Aveva cercato di creare un contro-potere e un contro-Stato sull’esempio di quanto aveva fatto alle origini la socialdemocrazia tedesca e lo stesso socialismo evangelico di Camillo Prampolini e Andrea Costa. Questa tradizione viene meno quando il PCI cessa di essere di opposizione e diventa una forza di governo.
L’antifascismo veniva arroventato come un ferrovecchio per far fronte a un pericolo che non è mai esistito se non nella mente di chi lo aveva posto alle gambe della strategia per ripristinare quel che nel 1948 era stato dissolto, cioè la presenza del PCI al governo come se fosse una reincarnazione del CLN. Suonava un po’ curioso, paradossale e ridicolo, che venisse attribuito un tale potere di veto e di forza eversiva ad un partito come il Msi. Era liberamente rappresentato in parlamento e in tutte le sedi elettive (Comuni, Province e Regioni), partecipava all’elezione dei presidenti del Consiglio e dei ministri, come a quello del capo dello Stato, dei membri della Corte Costituzionale, del Consiglio Superi ore della Magistratura eccetera 135
C’è da stupirsi che con queste caratteristiche Bologna sia stata designata a diventare oggetto di una punizione esemplare, massacrandone la popolazione che affollava la stazione ferroviaria del 2 agosto 1980? E’ una domanda che deve essere posta di fronte al carattere primordiale, barbarico di chi l’ha concepita e ancor peggio eseguita. Meno rappresentabile come un’azione irrazionale e folle è, invece, l’eventuale decisione sia dei terroristi palestinesi sia, e soprattutto, di quelli di Gheddafi, magari in maniera concertata, per essere stato spodestato dal governo italiano del potere di controllo di Malta.
Bologna, luglio 2023
NOTE
1 ivi, p. 483.
2 ibidem
3 Mi corre l’obbligo di precisare, quanto meno, che non fui “consulente” della Commissione Stragi bensì documentarista, ovvero membro dello staff di supporto alla Commissione fornito dall’amministrazione del Senato, con compiti di documentazione. I consulenti erano scelti dall’autorità politica, a differenza del personale dell’amministrazione parlamentare.
4 Non è questa la sede per una recensione esauriente de La strategia della paura. Piuttosto, da parte mia è doveroso soggiungere che mentre ho un’opinione profondamente negativa de La strategia della paura, apprezzo invece altre opere dello stesso Ventrone quali “Vogliamo tutto” (Laterza, Roma-Bari 2012), libro dedicato all’ultrasinistra dal 1960 al 1988.
5 Posso indicare almeno un paio di discussione ampie e articolate che ho avuto con Giannuli e Ventrone nel 2019. La prima è un dialogo con il solo Giannuli, moderato da Antonio Carioti, trascritto e pubblicato nel volume La strage di Piazza Fontana. L’eccidio, i processi, la memoria, RCS, Milano 2019. La seconda, una tavola rotonda sulla strage di Piazza Fontana e quel che ne seguì, organizzata a novembre 2019 dalla Fondazione Spirito-De Felice di Roma, con interventi di Paolo Morando, Gianni Oliva e Nicola Rao, oltre a Ventrone e a me, nonché domande del pubblico e risposte; gli atti del convegno furono poi pubblicati negli annali della Fondazione, anno XXXII, fascicolo n. 2/2020.
6 Dichiarazioni testuali di Vinciguerra, riportate a pagina 162 della sentenza Cenni-Caruso
7 Cfr. Gianni Barbacetto, “Dopo ben 43 anni di carcere l’Italia liberi Vinciguerra”, Il Fatto Quotidiano, 12 maggio 2022. Replicai a Barbacetto il 16 maggio seguente con un articolo intitolato Stragi: la proposta indecente di Barbacetto pubblicato dall’Avanti” online. Tornando al titolo dell’intervento di Barbacetto, è bene puntualizzare che se Vinciguerra era in carcere da 43 anni (adesso sono 44) non era (e non è) per accanimento contro di lui da parte dello Stato italiano, bensì perché è stato lui stesso a rifiutarsi di accedere ai benefici e alle misure alternative alla detenzione cui avrebbe avuto ai sensi della normativa.
8 Per i contenuti delle critiche di Casson e Ferraresi alla versione di Vinciguerra nonché per i riferimenti bibliografici al riguardo, si veda Vladimiro Satta, I nemici della Repubblica, Storia degli anni di piombo, Milano, Rizzoli, 2016, 894 p. [si vedano le pp. 377-378 e note].
9 Paolo Morando, L’ergastolano, Laterza, Roma-Bari 2022. Le incongruenze rilevate da Morando sono illustrate nelle pp. 252 e 255-256 del libro. Da notare che Morando è un sostenitore a spada tratta dell’impianto accusatorio del “processo-mandanti”, come si vede sin troppo bene dal suo successivo libro La strage di Bologna, Feltrinelli, Milano 2023.
10Cfr. Franco De Felice, “Doppia lealtà e doppio Stato”, Studi Storici, luglio/settembre 1989, pp. 493-563.
Tra gli innumerevoli critici di De Felice mi piace citare il saggio di Giovanni Sabbatucci Il golpe in agguato e il doppio Stato, facente parte del citato volume Miti e storia dell’Italia unita. Tra i contributi miei, il capitolo intitolato Terrorismo rosso, caso Moro e teoria del “doppio Stato” nelle pp. 399-437 del volume Vladimiro Satta, Il caso Moro e i suoi falsi misteri, Soveria Mannelli Rubbettino, 2006, 514 p. e Vladimiro Satta, “Il ‘doppio Stato’ si è estinto? Riflessioni sulla Giornata della Memoria 2009”, Nuova Storia Contemporanea, XIII, fascicolo settembre-ottobre 2009, pp. 89-103.
11 Il Deep State viene evocato anche a pagina 1052. Nel Deep State “nulla è come appare”, scrivono suggestivamente i giudici.
12Mi attengo alla scelta iniziale di non aggiungere all’analisi delle 1.714 pagine del “processo-mandanti” quello delle 2.154 del processo Cavallini, benché anche quest’ultimo offra spunti, come si vede. Sulla sentenza Cavallini qui mi limito, pertanto, a riportare il commento del deputato Luigi Marattin al momento in cui essa fu resa nota: «fa riflettere il che l’Italia sia l’unico Paese avanzato in cui il fatto che le stragi abbiano avuto conniventi nelle istituzioni non è una cosa che si legge nei blog deliranti dei complottisti, ma nelle sentenze dei tribunali» fonte: Mauro Giordano, “Il plauso ai giudici di Pd e 5S, destra all’attacco”, Il Corriere di Bologna, 10 gennaio 2021. Cf. https://ristretti.org/index.php?option=com_content&view=article&id=96838:processo-strage-di-bologna-il-plauso-ai-giudici-di-pd-e-5s-destra-allattacco&catid=220:le-notizie-di-ristretti&Itemid=1).
13 Escludendo le persone chiamate a parlare di questioni che non sono di storia (tra loro anche Cinzia Venturoli, una storica che però è intervenuta per parlare di vittime e dei problemi dei sopravvissuti), furono chiamati a testimoniare, in ordine alfabetico: Piera Amendola, Gianni Barbacetto, Antonella Beccaria, Paolo Bolognesi, Giorgio Gazzotti, Massimo Giraudo, Leonardo Grassi, Gigi Marcucci, Ilaria Moroni, Claudio Nunziata, Roberto Scardova, Giovanni Tamburino, Giuliano Turone. Giovanni Tamburino, Giuliano Turone.
14 L’errore di forma rende viziata la motivazione dell’assenza di Pellegrino fornita da Cenni-Caruso a pagina 152, dove essi scrivono che l’audizione del Presidente della Stragi, richiesta dalla difesa dell’imputato Bellini, fu esclusa perché “rischiava di introdurre una valutazione di natura politica aggiuntiva” rispetto al “lavoro collettivo supportato da storici di professione” fissato negli atti della commissione acquisiti dalla Corte: come si è detto sopra, nessuna relazione fu frutto di “lavoro collettivo” dell’organismo parlamentare né tanto meno della totalità degli “storici di professione” che erano fra i consulenti della Stragi (altri consulenti non erano storici né di professione, né per vocazione).
15 Al secondo punto dell’elenco, “Beccarai” è un refuso, che sta per “Beccaria”. All’undicesimo, in realtà gli autori sono i giornalisti Giovanni Fasanella e Corrado Incerti, mentre Sofia è la città della Bulgaria presso la quale avvenne l’incidente stradale di cui parla il volume.
16 “TESTIMONE BOLOGNESI. Allora, tutti i libri, i libri che sono usciti, sono usciti fondamentalmente per fare in modo che le memorie che avevamo presentato diventassero il più possibile di dominio pubblico. Cioè, per intenderci, non puoi presentare la memoria di più di mille pagine per dire e fare in modo che diventi di dominio pubblico un volumone di questo tipo che è difficilissimo sia leggerlo che rimanere … Ecco, allora abbiamo radunato in vari libri, perché c’è prima “Strage e Mandanti”, poi “Italicus”, poi “Alto Tradimento”.
Ecco, questi tre volumi sono serviti fondamentalmente per fare in modo che ci fosse una divulgazione” (cfr. sentenza “processo-mandanti”, p. 494).
17 “La P2 fu oggetto tra l’altro di un’inchiesta bicamerale del Parlamento. (….) La relazione di maggioranza, come del resto quelle di minoranza salvo quella del radicale Massimo Teodori, sono tutte viziate nella loro impostazione dal proposito di voler mantenere distinta la classe politica dal sistema di corruzione e di deviazione istituzionale rappresentato dalla P2 (….) Si tende, a questo scopo, a presentare la loggia come un organismo sovrapposto alle istituzioni politiche, una sorta di cupola che si arroga anche funzioni di indirizzo politico. Mentre invece era un segmento di commistione purulenta tra politica, amministrazioni ed affari (…) Anche in questo caso non si può parlare di “doppio Stato”, ma di profonda corruzione interna allo Stato e alla classe politica” (Piero Craveri, L’arte del non governo, Marsilio, Venezia 2016, p. 363, nota 22).
18 “Una camera dell’eco è una struttura sociale che rinforza le credenze di un gruppo screditando ogni fonte di controprove. Per essere parte di una camera dell’eco bisogna condividere un insieme di credenze di fondo, le credenze che costituiscono l’identità del gruppo, fra le quali vi sono anche quelle che motivano la disparità di fiducia epistemica che il gruppo nutre verso certe fonti epistemiche, rispetto alle fonti dei membri del gruppo” (Filippo Ferrari – Sebastiano Moruzzi Verità e post-verità. Dall’indagine alla post-indagine, 1088press, Bologna, edizione 2022, capitolo 5).
19 Juan Avilés Farré, La estrategia de la tension, cit., pp. 228-229 e 252-253. A giudizio dell’autore, Gelli non avrebbe dovuto essere condannato nemmeno per l’operazione di depistaggio che prese il nome di “Terrore sui treni”e non era un Grande Vecchio coordinatore della strategia della tensione (ibidem).
20 Questa conclusione, che riporto e condivido, è di un “giornalista appassionato” e saggista che ha analizzato La spia intoccabile, Giorgio Boatti (cfr. “Nella Repubblica dei ricatti”, Doppiozero, 2 marzo 2021).
21 Al riguardo, richiamo un interessante contributo di Marco Grispigni Sull’abuso del concetto di strategia della tensione (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/sull-abuso-del-concetto-di-strategia-della-tensione, 2 marzo 2022), dove l’autore sostiene che sarebbe corretto parlare di “strategia della tensione” limitatamente al 1969 (tesi sulla quale concordo). Un altro noto studioso, Mirco Dondi, estende la “strategia della tensione” fino al 1974 ma non oltre e, per di più, vede differenze di scopo tra la strage del 1969 che considera “di provocazione” e le stragi del 1974, che definisce “di intimidazione” (L’eco del boato, Laterza, Roma-Bari 2015). Francesco Maria Biscione concorda con la delimitazione al 1974 (“Il partito del golpe nella strategia della tensione”, Dimensioni e problemi della ricerca storica, fascicolo n. 2/2020, pp. 43-73) e prima di lui si erano espressi nello stesso senso anche Franco Ferraresi (Minacce alla democrazia, Feltrinelli, Milano 1995) e Mimmo Franzinelli (La sottile linea nera, Milano, Rizzoli, 2008).
22 Si vedano, tra gli altri, Ernesto Galli Della Loggia, “Tensione senza strategia”, Il Corriere della Sera, 18 agosto 2000, e Massimiliano Griner, Piazza Fontana e il mito della strategia della tensione, Torino, Lindau 2011, 312 p..
23 Cinzia Venturoli, Storia di una bomba, Castelvecchi, Roma 2020
24 A pagina 208 della sentenza Cenni-Caruso si afferma che la formula “destabilizzare per stabilizzare” è “l’attuale spiegazione storicamente più accreditata delle vicende storiche di quel periodo”.
25 Danilo Coppe, Crimini esplosivi, Milano, Mursia, 2020, pp. 366-367.
26 Ibidem.
27 Cfr. l’intervista di Umberto Baccolo a Danilo Coppe datata 2 febbraio 2022 e intitolata Parla il perito del tribunale nella Strage di Bologna Danilo Coppe: la verità deve ancora uscire, in: www.spraynews.it/post/parla-il-perito-del-tribunale-nella-strage-di-bologna-danilo-coppe-la-verit%C3%A0-deve-ancora-uscire?fbclid=IwAR0nIxGRoIjfpVDSpFgLmjVwGYol_Ch1PoFTRK2epDBQQ5ztgMsFBNFrF_w
Di parere del tutto diverso da Coppe è un giornalista, Ugo Dinello, autore del libro La via delle armi (Laterza, Roma-Bari 2022. Egli, malgrado l’affinità tematica, non si confronta con il lavoro di Coppe in nessun punto. Dinello tende a imputare gli attentati avvenuti in Italia dal 1969 in poi ad una struttura unica, l’organizzazione comunemente chiamata Gladio (sezione italiana di una rete internazionale, Stay Behind, che faceva capo agli alleati dell’Occidente).
28 Aldo Giannuli, Bombe a inchiostro, op. cit., pp. 427-428.
29 Commissione creata nella legislatura XVII, istituita nel 2014, riunitasi per l’ultima volta in seduta a febbraio 2018, presieduta dall’onorevole Giuseppe Fioroni.
30 Franco Piperno: “Si poteva salvare Moro. Gotor? Scrive balle”, intervista di Paolo Persichetti a Franco Piperno, Il Dubbio, 26 aprile 2018”.
31 La preoccupazione di non esporsi al “revisionismo storico e giudiziario” è esplicita nelle pp. 124, 181, 208. A pagina 488, citando Paolo Bolognesi, tutti i <tentativi di introdurre piste alternative agli eversori neri” sono equiparati a depistaggi.
32 Ossia «Dicono tutti, più o meno, che la verità è ciò che siamo giustificati a credere o ad accettare”. Cf. Karl Popper, Conjectures and Refutations. The Growth of scientific Knowledge, London, Routledge and Kegan Paul, 1963, 412 p.
33 Marc Bloch, Apologie pour l’histoire ou métier d’historien, Paris, Armand Colin, 1949, XVII-110 Cahiers des Annales n. 3. Traduzione italiana Apologia della storia o del mestiere di storico, Presentazione di Lucien Febvre Torino, Einaudi, 1950, 178 p. Capitolo IV, L’analisi storica. Scritto fra il 1940 e il 1943 pubblicato postumo.
34 Piero Calamandrei, “Introduzione”, Rivista di diritto processuale civile, XVI Parte I, gennaio-marzo 1939, pp. 105-128.
35 Angelo Ventrone, La strategia della paura. Eversione e stragismo mell’Italia del Novecento, Milano, Mondadori, 2019, 312 p.
36 Federico Umberto d’Amato, Menu e dossier. Ricordi e divagazioni di un poliziotto gastronomo, Milano, Rizzoli, 1984, 183 p.
37 Giuseppe De Lutiis, Storia dei servizi segreti in Italia, Roma, Editori Riuniti 1984, 313 p. Poi con il titolo I servizi segreti in Italia. Dal fascismo alla seconda repubblica, 1998. Nuova edizione aggiornata: dal fascismo all’intelligence del 21. secolo, Milano, Sperling & Kupfer, 2010, XIX-649 p.
38 Giuseppe De Lutiis, Il lato oscuro del potere. Associazioni politiche e strutture paramilitari segrete dal 1946 a oggi, Roma, Editori Riuniti, 1996, XIV-203 p.
39 Aldo Giannuli, Il Noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro, Milano, Tropea, 2011; 445 p. Poi con il titolo il Noto servizio. Le spie di Giulio Andreotti, Roma, Castelvecchi, 2013, 423 p.
40 Sitratta dell’introduzione del Segretario Generale Manlio Brosio a NATO Documentazione, Roma, Associazione Italiana per la Comunità Atlantica (AICA) con l’ausilio dell’AGI, luglio 1969, 320 p.
41 Markus Wolf, Spionagechef im geheimen Krieg. Erinnerungen, München, Econ & List, 1998, p. 132.
42 Günter Guillaume, Die Aussage: Wie es wirklich war,München, Universitas, 1990, 436 p.
43 Colonnello Michel Manel, L’Europe face aux SS 20. Un projet de défense européenne, prefazione di Raymond Aron Paris, Istitutut des hautes études de Défense nationale, Verger-Levrault, Boréal Express, novembre 1983, 320 p.
44 Roberto Scardova, L’oro di Gelli, Roma, Castelvecchi, 2020, 160 p.
45 Edgardo Sogno con Aldo Cazzullo, Testamento di un anticomunista. Dalla Resistenza al golpe bianco, Milano, Mondadori, 2000, XII-177 p.
46 V. sopra la nota 9,introduzione del Segretario Generale Manlio Brosio a NATO Documentazione, cit., p. 5.
47 François Puaux, “Regards sur la politique étrangère de l’Italie”, Politique étrangère, XLVI (2), giugno 1981, pp. 307-322 (rivista dell’Istituto francese di Relazioni internazionali).
48 Antonella Beccaria, Giorio Gazzotti, Gigi Marcucci, Claudio Nunziata, Roberto Scadova, Altro tradimento. La guerra segreta agli italiani da Piazza Fontana alla strage della stazione di Bologna, Prefazione e cura di Paolo Bolognesi, Roma, Castelvecchi, 2016, 286 p.
49 Jacques Vernant, “Du ‘sommet’ de Moscou au dialogue franco-allemand”, Défense nationale, agosto-settembre, 1974; si veda anche D Mouzakis [pseudonimo di Jean-Claude Fouchet], “Etats-Unis: la détente en question”, Défense nationale, ottobre 1980, pp. 95-111.
50 Richard Clutterbuck,Guerrillas and Terrorists, Athens (Ohio), Ohio University Press, 1977, 120 p.
51 Lorenza Cavallo, “La conferenza di Yalta 75 anni fa, la leggenda e il caso Moro”, Avanti! (online), 11 febbraio 2020, https://www.avantionline.it/la-conferenza-di-yalta-75-anni-fa-la-leggenda-e-il-caso-moro/.
52 Bino Olivi, Carter e l’Italia. La politica estera americana, l’Europa e i comunisti italiani. Presentazione di Antonio Gambino, Milano, Longanesi 1978, VIII-244 p.
53 Due resoconti escono nell’organo ufficiale della Sed Neues Deutschland, il 4 e l’8 dicembre 1973. La visita di Berlinguer è citata in due articoli: “Konstruktives Dialog mit international Genossen”. Interview Mit Werner Felfe, Horizont, n. 25, 1977; Prof. Otto Reinhold, “Heisser politischer Sommer Italien”, Horizont, n. 29, 1977. I due articoli sono riprodotti nella rivista Deutschland-Archiv. Zeitschrift für das vereinigte Deutschland, 9, 1977.
54 Italo De Feo, Tre anni con Togliatti, Milano, Mursia, 1971, 300 p.
55 Edmondo Bruti Liberati, Magistratura e società nell’Italia repubblicana, Roma-Bari, Laterza, 2018, p.360
56 Saverio Gentile,La legalità del male. L’offensiva mussoliniana contro gli ebrei nella prospettiva storico-giuridica(1938-1945), Torino, Giappichelli, 2013, XIV-614 p.
57 Jean Lopez, Lasha Otkhmezuri, Les maréchaux de Staline, Paris, Perrin, 2023, 689 p.
58 fonte Giraudo, p. 864.
59 Adriano Viarengo, Cavour, Roma, Salerno Editrice, 2010, 564 p.
60 L’America nel Vietnam. Il dibattito della Commissione d’inchiesta del Senato americano. A cura di Alberto Benzoni. Prefazione di Altiero Spinelli, Bologna, Il Mulino, 1966, 190 p.
61 Si veda la ricostruzione su Wikipedia: https://en.wikipedia.org/wiki/Gravel_v._United_States. Di interesse rilevante il quinto volume: The Senator Gravel Edition, The Pentagon Papers. Volume 5: Critical Essays: Edited By Noam Chomsky and Howard Zinn, Boston, Beacon Press, 1972, 341 p.
62 Raoul Salan, Indochine rouge. Le message d’Hô chi Minh, Paris, Presse de la cité, 1975, 190 p.
63 Fabrizio Calvi, Frédéric Laurent, Piazza Fontana. La verità su una strage, Milano, Mondadori, 1997, 340 p. [il testo si trova riprodotto alle pp. 82-83].
64 Frédéric Laurent, L’Orchestre noir. Enquête sur les réseaux néo-fascistes, Paris, Nouveau Monde éditions, 2013, 415 p.
65 Fabrizio Calvi, Camarade P. 38, Paris, Grasset & Fasquelle, 1982, 252 p.
66 Italicus. L’anno delle quattro stragi. 1974, a cura di Paolo Bolognesi e Roberto Scordova. Prefazione di Claudio Nunziata, Roma, Editori Internazionali Riuniti, 2014, 427 p.
67 V. Lorenza Pozzi Cavallo, Luigi Cavallo. Da Stella Rossa alla rivolta operaia di Berlino, Torino, Golem, 2022, 714p. V. anche Est&Ouest ( Mensuel de l’Association d’Ètudes Politique internationales publié avec le concours de l’Institut d’Histoire sociale) “Hommage a Georges Albertini”, maggio-giugno 1983 https://www.bagdadbahn.com/BEIPI-est-et-ouest/1983/1983_674.pdf
68 Ossia «Origine dell’operazione Chaos … sulla scia della violenza razziale e dei disordini civili».
69 Ossia «Evoluzione dell’operazione Chaos – Disordini interni nel 1968».
70 National Governors’ Association (NGA) in accordo e stampato dalla “Defense civil Preparedness Agency”, Washington, dicembre 1978.
71 Angus MacKenzie, Secrets. The Cia’s War at Home, Berkeley, University of California Press, 1999, 260 p.
72 Nicola Tranfaglia, “La strategia della tensione e i due terrorismi”, Studi storici, XXXIX (4), ottobre-dicembre 1998, pp. 989-998.
73 La traduzione è mia.
74 Memoria Bellini, 9 febbraio 2022, p. 38,
75 Lorenza Cavallo, “Le stragi in Italia e il presunto [Field] Manual 30-31B della U.S. Army”, Avanti! (online), 13 novembre 2019, https://www.avantionline.it/le-stragi-in-italia-e-il-presunto-manual-30-31b-della-u-s-army/ Si veda anche Thomas Rid, Active Measures. The Secret History of Disinformation and Political Warfare, New York, Farrar, Straus and Giroux, 2020, 528 p. Traduzione italiana: Misure attive. Storia segreta della disinformazione, Roma, Luiss University Press, 2022, 496 p.
76 Lucien Labévière, Les dollars de la terreur. Les Etats-Unis et les islamistes, Paris, Grasset, 1999, 435 p.
77 Lettera di Lorenza Cavallo (settembre 2015) a Mario Almerighi, autore del libro La borsa di Calvi. Ior, P2, mafia: le lettere e i segreti mai svelati del banchiere di Dio, Milano, Chiarelettere, 2015, 352 p.
78 Carte false. Peccati e peccatori del giornalismo italiano, Milano, Rizzoli settembre 1986, nel capitoletto dal titolo “La borsa di Biagi”, p. 76.
79Ringrazio Alberto Comastri e Bruno Somalvico per i consigli e le precisazioni.
Una spia dei problemi è la ricerca curata da Giorgio Freddi, Conflitto e tensioni nella magistratura, Laterza, Roma-Bari, Laterza, 1978, VIII-308 p.
80Di recente si veda Gerardo Villanacci, “Autocritica per riformare la giustizia”, Il Corriere della Sera, 18 luglio 2023, p. 32.
81 Gian Paolo Pelizzaro, Lorenzo Matassa e Gabriele Paradisi, “Dalla crisi dei missili di Ortona al vertice di Venezia del 12-13 giugno 1980. Un quadro storico travisato in sentenza”, Reggio Report, 15 febbraio 2021.
82A prospettarla furono inizialmente due consulenti della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caro Mitrokhin, cioè il giornalista romano Gian Paolo Pelizzaro e il magistrato siciliano Lorenzo Matassa. La loro ampia e ben documentata (Relazione sul gruppo Separatista e il contesto dell’attentato del 2 agosto 1980, depositata il 23 febbraio 2006, ebbe l’approvazione di Giulio Andreotti. Seguirono i contributi di Gabriele Paradisi e Francois de Quengo Si veda a questo proposito il Dossier strage di Bologna. La pista segreta, Giraldi editore, Bologna 2010 e l’ampio respiro del volume di Valerio Cutonilli e Rosario Priore, I segreti di Bologna. La verità sull’atto terroristico più grave della storia d’Italia, Chiarelettere, Milano 2016.
83 Me ne sono occupato più volte in articoli su Il Mulino, Avanti!, Il Sussidiario e ampiamente in una lunga intervista a Roberto Rosseti, intitolata “Habbash, Carlos e Gheddafi, ombre rosse sulla strage”, Nova Historica“, XVIII (71), , marzo 2020, pp. 113-134.
84 Per un resoconto attendibile di questo delicatissimo affaire si veda il saggio, mai smentito, del nostro ex sottosegretario agli esteri, Giuseppe Zamberletti, La minaccia e la vendetta. Ustica e Bologna: un filo tra due stragi, Milano, Franco Angeli, 1995 e 2013
85Rimando alla ricostruzione analitica che ne hanno fatto Giacomo Pacini (Il lodo Moro.L’Italia e la politica mediterranea, in Aldo Moro e l’intelligence., a cura di Mario Caligiuri,Rubettino, Soveria Mannelli 2018) e Valentina Lomellini, Il Lodo Moro. Terrorismo e ragion di Stato, 1969-1986, Laterza, Bari-Roma e 2022.
86 Si veda la ricostruzione di Gian Paolo Pelizzaro, Lorenzo Matassa e Gabriele Paradisi, Dalla crisi dei missili di Ortona ecc. cit.
87 Comitato parlamentare di controllo sui Servizi segreti (COPACO)
88 Cfr. il testo uscito ne Il Velino, in data 12 luglio
89 Una denuncia di questo prevalere di pressioni e delle raccomandazioni, per non dire la contrattazione privata delle nomine tra politici e magistrati, è il libro di Luca Palamara e Alessandro Sallustri,Il sistema. Potere, politica affari: storia segreta della magistratura italiana,Milano, Rizzoli, 2021
90 Si veda l’intervista resa al Corriere della Sera
91 Stefano Levi Della Torre, “Raccontare per ricordare”, in Le ragioni della memoria: interventi e riflessioni a vent’anni dalla strage di Piazza della Loggia, Brescia, Grafo, 1994, 123 p. [pp. 109-121].
92 Fondazione Isec, Lo stragismo in Italia e il terrorismo internazionale, novembre 2006 Rapporto n. 118 – 2006.
93 Vladimiro Zagrebelsky, “Le spalle del giudice”, La Stampa, 13 luglio 1988, pp.1-2.
94 Per la sua ampia riflessione rimando a Per una storia del terrorismo italiano, a cura di Carlo Fumian, Roma, Donzelli, 2010.
95 Cfr. p.201 della ben documentata, e dalla tematica ricca, dissertazione di laurea di Claudia Sbarbati, Le stragi e lo Stato. Narrazioni su carta dello stragismo italiano: cronaca, memoria e storia, Università di Macerata, 2018.
96 Ringrazio l’Avvocato Massimo Pellegrini di Bologna per avermi fornito la citazione, che riprendo da una sua arringa.
97 Cfr. La strage. L’atto d’accusa dei giudici di Bologna, a cura di Giuseppe De Lutiis, con prefazione di Norberto Bobbio, Roma, Editori Riuniti, 1986.
98Comunicato dei NAR per l’omicidio di due agenti fatto rinvenire ad un redattore dell’agenzia Ansa. Si veda il testo integrale in Mario Caprara, Gianluca Semprini, Destra estrema e criminale, Newton Compton Editori, Roma, 2007, 380 p. [si veda p. 163]. La migliore ricostruzione di Giusva Fioravanti è quella di chi gli ha dedicato un. anno di lavoro, intervistandolo tutto questo tempo in carcere, Giovanni Bianconi, A mano armata. Vita violenta di Giusva Fioravanti, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 1992.
99 Un inviato del Corriere della Sera sostiene una tesi molto diversa rilevando ” il «filo conduttore ampiamente documentato, tra il vecchio Ordine Nuovo […] e le attuali strutture dei NAR e di Terza Posizione». Antonio Ferrari, “Il mutuo soccorso dei due terrorismi”, Il Corriere della Sera, 7 dicembre 1981, p.1:” i due opposti estremismi si aiutano, nei momenti di rispettiva difficoltà. Nel ’74 il declino del “progetto neofascista” fu compensato dall’esplosione dell’eversione rossa. Nel 1980, il favore fu indirettamente restituito. Mentre Patrizio Peci e numerosi brigatisti e piellini “pentiti” distruggevano (con le loro rivelazioni) intere colonne, i fascisti organizzavano la strage di Bologna”.
100 “I contatti di Gelli col terrorismo nero”, Il Corriere della Sera, 24 marzo 1984, p. 1.
101 Si veda Giacomo Pacini, La spia intoccabile. Federico Umberto D’Amato e l’Ufficio Affari Riservati,Einaudi, Torino 2021.
102 Giampiero Testa, La strategia che viene dall’alto, Bologna, Thyrus,1986, a cura dell’Associazione dei familiari delle vittime della strage di Bologna. Nel 1976 ha pubblicato per Einaudi La strage di Peteano, libro inchiesta sull’attentato avvenuto in Friuli il 31 maggio 1972 in cui persero la vita tre carabinieri (il brigadiere Antonio Ferraro, i carabinieri Donato Poveromo e Franco Dongiovanni).
103Il terrorismo e le sue maschere. L’uso politici delle stragi, a cura di Gianni Flamini, Pendragon, Bologna 1996. I
104 Si vedano in suoi Appunti per una relazione conclusiva, 9 gennaio 2001 Senato della Repubblica e Camera del Deputati, XIII legislatura, doc. XXIII, n. 64, vol. 1, tomo 1.
105 Gli scritti del senatore Pellegrino sono pubblicati da Einaudi e da Rizzoli in collaborazione con Giovanni Fasanella, La guerra civile, Milano, Rizzoli, 2005 con Giovanni Fasanella e Fasanella e Claudio Sestieri, Segreto di Stato, Einaudi, Torino 2000 e il recente Politica, terrorismo. Dieci anni di solitudine, memorie di un eretico di sinistra, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2023.
106 Enzo Raisi, op. cit, p. 21.
107 Mauro Mellini, Il golpe dei giudici, da “Giustizia giusta” 1991-1994, Milano, Spirali, 1994, 326 p.
108 Leo Valiani, “Più informazione e più decisione contro le tramefasciste”, Il Corriere della Sera”, 4 agosto 1980, pp.1-2
109 Alberto Moravia, “Ma il popolo non si destabilizza”, Il Corriere della Sera, 4 agosto 1980, p. 1.
110Ugo Baduel, “Conversazione con Pecchioli”, L’Unità, 4 agosto 1980, p.1 (continua a p.4, facendo seguito all’editoriale intitolato “Sono stati i fascisti!”, L’Unità, 4 agosto 1980, p.1.9)
111 A cogliere sinteticamente qualcuno di questi aspetti fu Marco? Benedetti, “A Bologna gente da tutta Italia per i solenni funerali delle vittime”, Stampa Sera, 5 agosto 1980, p.2
112Del fortunato volume, edito nel 1970, l’ultima edizione è stata curata da Aldo Giannuli, Storia della “Strage di Stato”, Firenze, Ponte alle Grazie, 2020.
113 Storia della P2, Roma, Editori Riunti, 1985.
114 Sandra Bonsanti, Entro l’86 chiuderemo le nostre inchieste sulle grandi stragi, La Repubblica, 14 dicembre 1985, p. 5.
115 Piercioccante, L’Unità, 15 giugno 1986, p.6.
116 Recava il titolo Il terrorismo e le sue maschere. L’uso politico delle stragi, Bologna, Pendragon, 1996.
117 La strage. L’atto di accusa dei giudici di Bologna, a cura di Giuseppe De Lutiis, prefazione di Norberto Bobbio, Roma, Editori Riuniti, 1986.
118 Licia Pinelli e Piero Scaramucci, Una storia quasi soltanto mia, Milano, Mondadori, 1982. 200 p. [la citazione è a p. 23]. Poi nell’edizione uscita per i tipi di Feltrinelli, Milano, 2010. 32.Si veda Giovanni Fasanella, Antonella Grippo, I silenzi degli innocenti, Milano, Rizzoli, 2006, 252 p.
119 Per la strage presso la stazione ferroviaria di Bologna sono state raccolte le testimonianze di Lia Serravalli e Anna Di Vittorio, madre e sorella la seconda.
120 Lia Serravalli, Dovrebbero guardarci con gli occhi bassi, e sperare che Dio non esista, cit. p. 193
121 Ivi, p. 96
122Testimonianza e riflessione che si possono rinvenire in Manlio Milani, Oltre l‘attimo che è stato. Dialogo con Manlio Milani, p. 130, in Alberto Conci, Paolo Grigolli, Natalina Mosna (a cura di), Sedie vuote. Gli anni di piombo: dalla parte delle vittime, Trento, Il Margine, 2009, 360 p.
123 Ibidem, p. 131
124 Maria Antonietta Calabrò, “Gualtieri: nel massacro c’entra Gladio, Il Corriere della Sera, 14 febbraio 1992, p.11.
125 Si veda, per un verso, l’impostazione di un giudice veneziano Felice Casson (al quale si deve la raccolta di documenti da cui emerge che Gladio “fu impegnata non solo per scopi difensivi, ma anche in chiave di opposizione anticomunista” per i quali ultimi egli era oltremodo sensibile (cfr. Banda armata. La sentenza del giudice Casson su Gladio, Roma 1991); e, per un altro verso la ricostruzione minuta di Giacomo Pacini, Le altre Gladio, Torino, Einaudi, 2014.
126 Ovvero “Tengo silenziosa la mia libertà”
127 La vicenda è richiamata nel saggio di Eugenia Scarzanella, Isabel e la sua ombra, Bari, Pellegrini, 2023
128 Rimando al mio saggio introduttivo (Il comunismo emiliano una variante del socialismo riformista) al volume mio e di Valerio Evangelista, Il galletto rosso. Precariato e conflitto di classe in Emilia Romagna (1880-1980), Marsilio, Venezia 1982. Vi è anticipata un’impostazione storiografica che avrà in seguito per protagonisti studiosi diversi. Dalla dimensione internazionale (il saggio a più mani I comunisti italiani e il riformismo, a cura di Leonardo Paggi e Massimo D’Angelillo, Torino, Einaudi, 1986) ad una (utile ma meno significativa) dimensione locale\regionale
129Si veda Roberto Finzi,L’università italiana e le leggi antiebraiche, Roma, Editori Riuniti, 1997 (II ed. ampliata 2003)
130 Rimando al testo in cui l’ho formulata Salvatore Sechi, “Il Pci: l’albero, la foresta e la nuova peste”, Il Mulino, XXVI (250), marzo aprile 1977, pp. 274-302.
131 Lo ricorda Giovanni Pellegrino, Dieci anni ecc. cit.,
132 Enzo Raisi, Bomba o non bomba. Alla ricerca ossessiva della verità, Bologna, Minerva edizioni, 2012, p. 59
133 Ibidem
134 Si veda l’intervista di Tommaso Rodano su Il Fatto Quotidiano a Fausto Anderlini che attribuisce al Pci un’idea di partito comunità e partito-Stato che notoriamente è stata della socialdemocrazia tedesca.
135 “Il MSI e le frecce spuntate dell’”arco costituzionale”, Il Corriere della Sera, 22 maggio 1985.