Il saggio di David Bidussa sul “ceto dei colti”, per Feltrinelli
Sedici/C Clio Storia del presente
Salvatore Sechi
Docente universitario di storia contemporanea
Salvatore Sechi prende spunto dal saggio di David Bidussa Pensare stanca. Passato, presente e futuro dell’intellettuale, uscito a Milano nel 2024 per i tipi di Feltrinelli, per una riflessione sulla parabola del “ceto dei colti” nell’articolo “L’elogio del tradimento”, Riprendendo il celebre pamphlet di Julien Benda, lo storico sardo si chiede, a proposito di tale tradimento: “È quanto resta all’intellettuale dopo la marcia trionfale del XIX° secolo, l’apocalisse del XX° e il silenzio di oggi?”.
12 dicembre 2024
La rovina dei templi
A chi se non agli intellettuali si deve chiedere ragione della rovina dei templi ridotti a foglie secche (cadono perché verso di essi la gente ha perso ogni interesse), ma anche dei tempi?
Idealmente hanno fatto da sfondo o sono stati offerti (costruiti o sognati e quindi intensamente auspicati) da Johann Gottlieb Fichte nell’Ottocento fino ai novecenteschi Giovanni Gentile, Martin Heidegger e- su un’altra sponda – Antonio Gramsci.
Quest’ultimo è stato dei pochi comunisti che, in rotta col suo partito stalinizzato, all’inizio degli anni Trenta cessò di essere il cantore inesausto dello “Stato operaio”, cioè del micidiale dispotismo sovietico.
Togliatti, invece, arrivò fino ad esaltare il patto di spartizione con Hitler del 1939 buttando alle ortiche l’antifascismo suo e del Comintern.
Non è mancata, seppure flebilmente, la paura che al secolo (il XIX°) della scienza e del progresso, dopo l’apocalisse totalitaria (di estrema destra e di sinistra) del XX°, potesse seguire-nel XXI°-un’inversione di rotta.
Quella del dopoguerra, direi fino al 1956, è ben rappresentata dal volume Il dio che è fallito[1]. Riguarda l’investimento fiduciario come in una religione, quindi pressocché assoluto, fatto da molti intellettuali nel comunismo.
Lo si era trattato con la passione e l’incanto di una fede, un po’ reiterando le emozioni e il trasporto del socialismo evangelico, quando le povere case dei braccianti e dei contadini dell’Emilia-Romagna pullulavano delle immagini di un Cristo socialista. Il che fu un prologo alla divinizzazione del partito attuata dai comunisti, questa volta con le fattezze di Lenin.
Di qui ben oltre la maledizione, la stessa interdizione dell’intellettuale che aveva tradito la macchina e i compagni di quella estesa comunità religiosa (più che laica) che era incarnata dai partiti comunisti.
A relativizzare l’impatto di quella raccolta di testimonianze molti decenni dopo sarà quanto ha osservato Edward Said:
“Come ha potuto un intellettuale credere in un Dio quale che fosse? E ancora: chi l’ha autorizzato a immaginare che la sua professione di fede, prima, o il successivo disincanto fossero tanto importanti?”.
Dopo aver contestato l’icona novecentesca dell’intellettuale impegnato, ribadisce in più occasioni che egli non doveva creare consenso, cioè mettere il pubblico a suo agio. Il suo compito, per Said, era di porre problemi e quindi di
“provocare, contrastare a costo di risultare spiacevoli”[2].
Amerà aggiungere, a mo’ di conclusione:
“ricordarsi sempre che l’intellettuale ha la facoltà di scegliere se rappresentare attivamente la verità oppure lasciarsi passivamente guidare da un padrone o da un’autorità. Per l’intellettuale laico, questi dei falliscono sempre”[3].
Con i diffusi regimi populisti oggi al potere nella stessa Europa all’intellettuale non sembra rimasto altro che segnalare, in forme radicali, il naufragio delle democrazie col proprio ritiro, la fuga e il silenzio.
Amos Oz, per fare un esempio, ha parlato di tradimento dando alla parola un significato più fine e profondo di quello che è sotteso al povero lessico di cui i politici si riempiono la bocca[4].
Siamo ben oltre le difficoltà, i grandi drammi che gli intellettuali dovettero fronteggiare (quando non ne furono soccombenti) nel corso degli anni Trenta. Allora furono chiamati ad una scelta drammatica: per arginare l’espansione a macchia d’olio del nazi-fascismo si costrinsero molti a optare di schierarsi con l’Unione Sovietica.
Non era il paradiso realizzato o il cantiere avanzato del socialismo, ma qualcosa di più modesto e anche insidioso per i pericoli ad esso sottesi, se si fosse realizzata la sua metastasi. Si trattava, ed era noto, del fatto che Lenin e i bolscevichi avevano dato vita ad un regime che aveva sterminato o reso impossibile ogni opposizione interna. Il che significa che aveva soffocato ogni barlume di libertà in un paese come la Russia che ne aveva avuto in misura assai malthusiana.
Le pagine che David Bidussa, nel suo saggio Pensare stanca. Passato, presente e futuro dell’intellettuale[5], riesce a dedicare a questo passaggio epocale della storia degli intellettuali, sono di un inedito fascino per la loro vividezza.
L’abilità dello storico livornese non è nella fattura espositiva, nella narrazione abile. Risiede piuttosto nella cultura con cui ha saputo assemblare la ricchezza dei materiali bibliografici rinvenuti. Anche se li ha offerti in guisa di frammenti (di brani di libri, articoli, lettere eccetera), ci restituiscono distesamente l’eco di un grande dibattito. Non mai definitivamente spento.
Fu quello che si sviluppò sulla tragedia di cercare di arginare una dittatura di estrema destra con un dittatura -n on certo meno peggiore – come quella bolscevica, vale a dire di sinistra.
Il coro delle voci raccolto da Bidussa ha protagonisti del rango di Victor Serge[6], Albert Camus, Walter Benjamin, Furio Jesi, Nicola Chiaromonte, Ignazio Silone, Hannah Arendt, Simone Weil, Gaetano Salvemini, eccetera. Avrei inserito anche quella di Antonio Gramsci che, seppure per qualche aspetto soltanto, è altamente significativa.
Con la sua eccezione, gli altri intellettuali prima citati diversi decenni prima del rapporto segreto di Nikita Krusciov (primavera 1956) non avevano esitato a denunciare che l’alleanza dei democratici (e delle democrazie) con l’Urss significava legittimare uno Stato, un partito e una leadership come quella sovietica. L’orrore nasceva dal fatto che sul principio dell’eguaglianza a Mosca si era costruito un regime di neo-dispotismo.
È il tema che attraversa e divide non solo Victor Serge da André Gide (appena reduce, entusiasta, da un viaggio in Unione Sovietica), ma domina il convegno internazionale degli scrittori tenutosi a Parigi nel 1935[7].
Fin dal 1918 (quando Lenin e i bolscevichi sciolsero l’Assemblea costituente perché avevano perso le elezioni a favore dei menscevichi) era cominciata la feroce repressione degli oppositori. Ogni sussulto di libertà veniva spento. Il cosiddetto ‘Stato operaio’ era diventato la macchina infernale di una nuova dittatura, il totalitarismo di sinistra. Da tempo la storiografia francese ha innescato il dibattito chiedendosi se i campi di concentramento in Urss non fossero peggiori, e non solo eguali, a quelli allestiti nella Germania nazista.
La narrazione di Bidussa si sposta e recluta atri protagonisti con l’estate del 1945.
La sconfitta militare del nazi-fascismo inaugura una nuova fase, la cosiddetta guerra fredda. Vale a dire la difficile coabitazione, a cortine abbassate, di realtà istituzionali che erano una rete di confini, delle vere e proprie frontiere non solo di Stati, ma addirittura di una diversa civiltà, come rilevò Lucien Febvre.
Tale fu il destino della giustapposizione (da non scambiare per convivenza) dei Paesi dell’Occidente liberal-democratico all’area dei Paesi del Patto di Varsavia. Fino alla caduta del muro di Berlino il 9 novembre 1989 insidiarono le democrazie occidentali sopravvissute o quelle di nuovo conio.
Dopo 35 anni, però, assistiamo all’impianto di nuovi muri. Come mi pare li abbia chiamati Claude Quétel[8] sono di separazione (a Gaza, in Cisgiordania a Hong Kong) e di protezione dei ricchi (dall’invasione e poi dall’assedio di folle sterminate di vecchi e nuovi poveri come negli Stati Uniti o in Egitto). Annota Bidussa:
“Forse è cominciata un’altra storia, e i muri di oggi sono destinati ad avere un futuro, più che essere un residuo del passato: non più segno della vergogna o dell’offesa, ma della tutela. La loro abolizione non è più una priorità. Anzi è un tema espulso dall’agenda, sostituito dall’altro: ognuno ha diritto ad un muro”[9].
Non so se pensi che questo muro può anche essere imposto da chi ne dovrebbe essere miliardi di chilometri lontano, cioè Israele.
Per vendicare l’infame massacro del 7 ottobre, e quanti gli negano – con la ferocia di esseri subumani, verrebbe da dire – il diritto di esistere come Stato, il governo Netanyahu bombarda e stermina senza limiti né scadenze. Lo fa spesso, come ha documentato Amnesty International, distruggendo, con l’ecatombe di donne, vecchi e bambini, un intero immobile alla ricerca anche di un solo terrorista presunto autore o sodale dell’immonda pulizia etnica esibita.
In questo modo su migliaia e migliaia di palestinesi (ripeto: bambini, donne e vecchi), annientati, storpiati, ridotti a macabri scheletri ambulanti o a folle di infanti rese mute dall’orrore delle armi israeliane, l’imperial-vincitore alza nuove frontiere. Sia all’interno sia verso i vicini del Libano, della Siria, dell’Iran eccetera, esercita il diritto di mettere fuori casa gli indesiderati.
Non a torto una nota storica ebrea dell’università di Roma come Anna Foa[10] (e non solo più lei ormai) si è chiesta, bandendo ogni paura di fare scandalo e di venire isolata dalla martellante propaganda di un criminale di guerra come Benjamin Netanyahu, se le stesse non siano un déjà vu, cioè non assomiglino alle pratiche dei nazisti. Sono tornate in voga purtroppo ad opera delle loro prime vittime ora diventate carnefici. Hanno esteso oltre ogni limite la resa dei conti per la carneficina del 7 ottobre 2023 dei tagliagole di Hamas e dei nemici giurati dello Stato degli ebrei.
Ma fino a quando? Mi pare opportuno chiederselo. Si parla di trascurare il povero e venerare il ricco e il potente. Siamo, dunque, di fronte alla replica della situazione descritta nel 1759 da Adam Smith, nella Teoria dei sentimenti morali?
Il saggio di Bidussa distilla passato, presente e futuro dell’intellettuale. Lo fa con lievità dello stile scelto per farsi leggere da un grande pubblico. Ma le 27 pagine dei riferimenti bibliografici sfidano ogni superbia e presunzione accademica. Finalmente, grazie a lui, si è cominciato a riempire un vuoto che sul passato e sul destino del ceto dei colti era arduo affrontare.
Nel lungo iter che ha deciso di compiere per rendere conto della storia degli intellettuali “impegnati”, David Bidussa sosta, ribandendone l’attualità, sui fini che meritano di essere perseguiti e che l’intellettuale dovrebbe riuscire a ridisegnare con gli strumenti della ragione e con le argomentazioni del pensiero critico. Solo così si può rispondere alla continua, quasi inarrestabile. riduzione dell’intellettuale a brontolone televisivo.
Qui le idee del 1927 di Julien Benda[11] si incontrano felicemente con la proposta di Salvatore Veca[12] nell’inventario dei valori universali da difendere contro fascismi, comunismi, razzismi, sciovinismi, cioè la ragione, la verità e la giustizia.
Che cosa nell’assumerli ha determinato una metamorfosi collocabile tra gli anni Trenta e l’attualità, uno smarrimento e un’estraniazione su cui Bidussa concentra il suo maggior interesse?
Mi chiedo quanto sia opportuna, realistica, oltre un certo limite, l’esclusione dalla categoria di intellettuali di alcuni ideologi. In qualche caso (mi pare il caso di Benedetto Croce, Luigi Einaudi o Antonio Gramsci), anche quando hanno potuto servire dei partiti (o da essi sono stati asserviti), avevano elaborato una propria concezione del mondo che si è giustapposta al lavoro critico, all’analisi filosofica o storiografica. Per esempio, il liberismo di Luigi Einaudi ha ben poco a che fare col laissez-faire; e il comunismo e la visione gramsciana dell’Urss (che a ragione Silvio Pons ha identificato in una forma di neo-bonapartismo) è dall’inizio degli anni Trenta sempre meno sussumibile nelle categorie del Comintern alle quali il dirigente italiano e aveva inizialmente aderito.
Mi chiedo anche quale influenza hanno potuto esercitare gli intellettuali citati da Bidussa e in generale l’intero ceto?
Ci si dovrebbe forse focalizzare su quelli che hanno creato un’opinione pubblica con la vendita di molte migliaia di copie dei loro saggi. Con questo metro in una storia degli intellettuali andrebbero presi in considerazioni personaggi come Giuseppe Vacca. In quanto direttore, presidente della Fondazione Istituto Gramsci e curatore di una anche minuta saggistica su di lui, ha prodotto nell’opinione pubblica un consenso, che costituisce la misura della sua capacità, come intellettuale, di orientarla.
Penso anche ad Alberto Asor Rosa e a Massimo Cacciari che hanno offerto ad alcune generazioni un’immagine rispettivamente di Gramsci e della cultura della crisi assai prolungata nel tempo.
Ma il discorso sul potere di influenza a questo punto dovrebbe essere esteso sia ai direttori di collane sia a responsabili editoriali veri e propri (da Giulio Einaudi a Walter Barberis, per fare un esempio).
Non intendo ridurre l’importanza del lavoro di David Bidussa, ma chiedere a me stesso se abbia interamente senso per descrivere un processo, occuparsi degli intellettuali che vollero restare distinti dalle proprie opere, schierandosi per esempio da una parte o dall’altra dei due poli della guerra fredda. Nel loro impegno nell’agone politico sono riusciti a trascinare la maggioranza dei loro lettori?
Di qui la domanda. Quale fu il reale potere di influenza di Simone Weil, Victor Serge, Hannah Arendt, Albert Camus, Ignazio Silone, Nicola Chiaromonte, Furio Jesi, che Bidussa cita come esempi di un’intellighentsia infedele al partito?
Non penso sia stata più efficace e mobilitante di quella di docenti universitari come Delio Cantimori, Norberto Bobbio, Franco Venturi o Giuliano Procacci.
La notizia che il professore era iscritto al Pci o facesse proprie le ragioni dell’Urss non poteva essere politicamente pericolosa, cioè poteva allargare il potere politico dell’opposizione ai governi in carica fin quando chi faceva questa scelta restava nel perimetro del proprio insegnamento liceale o universitario.
Il resto era solo rumore di cucina, polvere di stelle, gioco tra élites, episodi minoritari. Efficace e puntuale la notazione critica di Said prima citata dallo stesso Bidussa dall’egemonia dei partiti di massa fino alla loro dissoluzione che fa coincidere con l’attuale balbettio nei talk show televisivi.
L’intellettuale collettivo: Fondazioni, Istituti, eccetera
Oltre al ruolo privato, personale, gli intellettuali ne hanno giocato uno istituzionale. Mi riferisco alle numerose fondazioni e istituti in cui i partiti di riferimento li hanno raccolti, offrendo sedi, giornali, e soprattutto (anche se assai contenuti) fondi.
L’attività degli stessi principali gruppi intellettuali in Italia è disciplinata dal finanziamento pubblico. A ricevere i contributi maggiore credo sia la Fondazione Antonio Gramsci, che è anche quella più presente nei cataloghi di alcune case editrici.
L’attuale ministro della cultura, Alessandro Giuli, dovrebbe creare un gruppo di lavoro che esamini l’insieme dell’attività di promozione delle ricerche, di socializzazione di quelle esistente, eccetera, svolte. Penso avrebbe dovuto farlo in passato l’opposizione, e non solo la nuova destra oggi ascesa al potere. Ma in Italia purtroppo ha avuto un interesse minimo per la cultura, al di là di quello per la macchina ministeriale che ripartisce mance e mancette.
Bidussa non affronta, ma finisce per sfiorare il tema della ricerca organizzata attraverso la rete di istituzioni vere e proprie di ricerca pubblica e privata. È prevalentemente costituita dal Croce, dal Gramsci, dallo Sturzo/De Gasperi, Ugo La Malfa, Luigi Einaudi, Centro Sraffa e Garegnani, eccetera.
Voglio dire che l’attività dei principali gruppi intellettuali in Italia è disciplinata dal finanziamento pubblico. Quello che riceve i contributi maggiore penso sia la Fondazione Gramsci che è anche quella più presente nei cataloghi di alcune case editrici.
Qualche radiografia ancora parziale, cioè limitata a periodi o direttori circoscritti, è disponibile per l’Istituto Croce e per la Fondazione Istituto Gramsci (con i saggi di Fiamma Lussana e Albertina Vittoria).
Non si può ancora parlare di un’analisi orizzontale e verticale per capire quale sia stato il rapporto con la storia e quindi potere giudicare linee d’intervento, silenzi, omissioni o addirittura falsificazioni (per usare il termine maggiormente in uso per alcuni aspetti della storia dell’Urss).
Il “fuoco amico” sul patto Molotov-Ribbentrop e su Gramsci.
Bidussa non si sofferma sulle origini, e sulle responsabilità della Seconda guerra mondiale (Francia e Regno Unito oppure l’Unione sovietica stalinista). Il responso di carattere storico gli studiosi se lo debbono dividere con le narrazioni di Stato.
Queste ultime sono da una parte la Comunità Europea di Bruxelles (che avrebbe minimizzato le responsabilità del “tradimento” consumato alla conferenza di Monaco del 29-30 settembre 1938, conferenza dalla quale l’Urss fu esclusa) e dall’altra il presidente della Federazione russa Vladimir Putin. La sua posizione formulata nella brochure (22 luglio 2020) intitolata 75 anni di una grande vittoria: la responsabilità comune di fronte alla storia e al futuro[13] si snoda lungo una linea di continuità storica.
Il saggio più interessante, ricco di documenti, fondato su una storiografia di prima mano, e animato da equilibrio su un terreno irto di pregiudizi, esecrazioni e falsificazioni, è stato scritto da una delle migliori studiose di storia dell’Urss, Antonella Salomoni[14].
A suo avviso, l’interpretazione di Putin non differisce da quella proposta dal leader della Perestrojka Michail Gorbacev al Plenum del Comitato Centrale del Pcus nel 1987:
“si ricorre ad ogni tipo di menzogna per scaricare sull’Unione sovietica la responsabilità della seconda guerra mondiale, la cui strada sarebbe stata aperta dal patto di non aggressione Ribbentrop-Molotov”.
La circostanza evidenzia la pericolosa rotta che sta prendendo sempre più piede: vale a dire l’imporsi del primato del potere politico anche in tema di ricerche storiche. Il che non significa altro di diverso dal prendere atto dell’ininfluenza degli intellettuali.
A dire il vero, però, la delegittimazione degli studiosi, almeno per la Russia, non è limitata alla specifica vicenda dell’ultimo conflitto mondiale. Ad essere investito è, infatti, l’insieme dei rapporti tra la politica e la cultura. Nell’immenso territorio che dall’Europa si stende fino alla Cina non mi pare sia comparso qualche Norberto Bobbio[15] a cercare di precisarli e in qualche modo disciplinarli. Ma se al posto dello Stato mettiamo i partiti, cioè descriviamo la natura delle relazioni che dopo il secondo dopoguerra si sono stabiliti con gli intellettuali, non è difficile riconoscere che quanto ha luogo nella Russia putiniana ebbe un precedente in Italia (e non solo in Italia). Mi riferisco ai rapporti tra il Pci e il mondo degli scrittori e dei ricercatori.
Le vittime del “fuoco amico” si contano in casa.
Nei confronti degli stessi manoscritti di Gramsci non si esitò a ricorrere a quanto viene ancora oggi messo in opera per negare o minimizzare il “protocollo segreto” aggiunto dai ministri degli esteri tedesco e russo al patto di non aggressione del 23 agosto 1939: una serie di misure discrezionali che si sono tradotte nella prassi di esercitare aggiustamenti sui manoscritti anche nella forma di tagli ed omissioni.
Una delle più consistenti fu quella operata dal suo compagno più generoso, l’economista Piero Sraffa, quando dai Quaderni dal carcere fece stralciare l’inserimento della nota sulla caduta tangenziale del saggio di profitto. Sraffa la ritenne poco idonea e significativa per le fonti (per lo più le traduzioni di Marx ad opera di Benedetto Croce) di cui Gramsci poté avvalersi durante la detenzione in carcere[16].
In realtà, se si ricorre alla memoria storica, come suole fare Putin, anche quanto ha avuto luogo nel nostro secondo dopoguerra, si può dire abbia avuto un prologo nei rapporti tra il leader comunista Palmiro Togliatti ed esponenti del Comintern. Tutto era stato previsto e preannunciato nella lettera da lui inviata il 25 aprile 1941 a Dimitrov:
“i quaderni di Gramsci, che io ho già quasi tutti accuratamente studiato, contengono materiali che possono essere utilizzati solo dopo un’accurata elaborazione. Senza tale trattamento il materiale non può essere utilizzato e alcune parti, se fossero utilizzate nella forma in cui si trovano attualmente, potrebbero non essere utili al partito. Per questo io credo sia necessario che questo materiale rimanga nel nostro archivio per essere qui elaborato”.
Lo stesso problema di gestione e di controllo veniva posto, alcuni mesi dopo (novembre 1941), per le Lettere dal carcere. Erano a Mosca nello scantinato di una casa editrice, custodite in un armadio di ferro. Togliatti chiese al segretario del Comintern, Georgi Dimitrov, di intervenire perché gli venissero inviate a Ufa, la città russa dove era stato spedito per espiare errori e peccati di diverso genere. La scelta delle lettere fatta per la pubblicazione avrebbe dovuto essere rifatta, in quanto non utile al partito, se egli non le avesse ricevute presso gli Urali, nella capitale della repubblica sovietica della Baskiria, Ufa appunto.
Aldo Natoli ha enucleato una serie di esempi per documentare la fondatezza di una tesi da lui esposta. Si era convinto che la pubblicazione delle Lettere edite da Giulio Einaudi nel 1947 e dei Quaderni negli anni successivi
“sia, in sostanza, quella già preparata a Mosca fra il 1940 e il 1941”, proprio per “la sua esatta coincidenza con il criterio togliattiano dell’’utilità per il partito’ prima di tutto”.
Può essere una ragione diversa da questa la mancata pubblicazione, nell’edizione del 1947, delle lettere di Gramsci datate 5 dicembre 1932, 27 febbraio e 6 marzo 1933? Sono quelle in cui lamenta, anzi denuncia, in maniera pesante la sua mancata liberazione dal carcere fascista.
Questo uso politico delle opere di Gramsci orientò, cioè giustificò, come una bussola, sin dal primo momento, gli interventi di Togliatti presso i dirigenti del Comintern per impedire a Tatiana e alla famiglia Schucht di potere essere gli eredi testamentari dei manoscritti di Gramsci:
“Per il nostro partito e per il Comintern è della massima importanza che questi quaderni arrivino nelle nostre mani intatti e il più rapidamente possibile. Ti prego perciò di voler inoltrare la relativa istanza del Commissariato del popolo per gli Affari esteri all’ambasciatore a Roma, in modo che sia fatto di tutto per spedire qui al Comintern questa eredità letteraria di Gramsci per la via più sicura”.
Fino all’inizio degli anni Sessanta l’Istituto Gramsci, di concerto con la redazione dell’editore Giulio Einaudi, lavorò su fonti costituite dai manoscritti di seconda mano, trascritti. Solo nel 1963 gli originali delle Lettere e dei Quaderni faranno l’ingresso definitivamente nell’archivio dell’Istituto Gramsci. Ad essi seguono in primo luogo le lettere di Tatiana. Fu nel 1964 che Togliatti offrì la sua disponibilità a cedere le copie autentiche delle lettere di Tania al Centro estero del partito.
Dunque, il criterio politico deve prevalere su quello filologico anche nell’esercizio della facoltà di pubblicare integralmente o meno gli scritti di Gramsci. Nel caso in cui, ad avviso della leadership politica, questa impostazione avesse potuto nuocere al partito, si riteneva opportuno rinunciare al principio del pieno rispetto filologico del testo gramsciano.
Riferimenti bibliografici
AA. VV., Testimonianze sul comunismo (Il dio che è fallito), Milano, Edizioni di Comunità, 1950, 382 p
Julien Benda, La trahison des clercs, Paris, Grasset, 1927, 306 p. Traduzione italiana Il tradimento dei chierici, Il ruolo dell’intellettuale nella società contemporanea. Prefazione a cura di Davide Cadeddu, Torino, Einaudi, 2012, XXVIII-260 p.
David Bidussa, Pensare stanca. Passato, presente e futuro dell’intellettuale, Milano, Feltrinelli, 2024, 224 p
Norberto Bobbio, Politica e cultura, Einaudi, Torino, 1955, 282 p. Oggi: Politica e cultura. Introduzione a cura di Franco Sbarberi, Torino, Einaudi, 2013, 316 p.
Claude Quétel, Murs. Une autre histoire des hommes, Paris, Perrin, 2012, 320 p. Traduzione di Margherita Botto: Muri. Un’altra storia fatta dagli uomini, Torino, Bollati Boringhieri, 2013, 257 p.
Edward Said, Culture and Imperialism, New York, Vintage, 1994, 380 p. Traduzione italiana: Cultura e imperialismo. Letteratura e consensi nel progetto coloniale dell’Occidente, Milano, Feltrinelli, 2023, 469 p
Edward Said, Humanism and Democratic Criticism, New York, Columbia University Press, 2004, 192 p. Traduzione italiana: Umanesino e critica democratica. Cinque lezioni, Milano, Il Saggiatore, 2007, 175 p
Antonella Salomoni, Il protocollo segreto. Il patto Molotov-Ribbentrop e la falsificazione della storia, Bologna, il Mulino, 2022, 280 p.
Sandra Teroni (a cura di), Per la difesa della cultura. Scrittori a Parigi nel 1935, Roma, Carocci, 2002, XXII-223 p.
Salvatore Veca, Qualcosa di sinistra. Idee per una politica progressista, Milano, Feltrinelli, 2019, 252 p.
[1]Pubblicato inizialmente col titolo AA. VV., Testimonianze sul comunismo (Il dio che è fallito), Milano, Edizioni di Comunità, 1950, 382 p. recava le testimonianze di Arthur Koestler, Louis Fischer, Richard Wright. André Gide, Ignazio Silone, Stephen Spender. È più volte riedito, dal 1997 dall’editore milanese Dalai Lama.
[2] Edward Said, Culture and Imperialism, New York, Vintage, 1994, 380 p. Traduzione italiana: Cultura e imperialismo. Letteratura e consensi nel progetto coloniale dell’Occidente, Milano, Feltrinelli, 2023, 469 p. [il passo citato è a p. 27].
[3] Edward Said, Humanism and Democratic Criticism, New York, Columbia University Press, 2004,192 p. Traduzione italiana:Umanesino e critica democratica. Cinque lezioni, Milano, Il Saggiatore, 2007, 175 p [si vedano p.118 e p. 125].
[4] Mi riferisco ai suoi due volumi, entrambi tradotti da Elena Loewenthal: Amos Oz, Giuda, Milano, Feltrinelli, 2014, 329 p. e Amos Oz, Cari fanatici, Milano, Feltrinelli, 2017, 112 p.
[5] David Bidussa, Pensare stanca. Passato, presente e futuro dell’intellettuale, Milano, Feltrinelli, 2024, 224 p.
[6] Di Victor Serge si vedano, nel periodo, le sue “Lettres à André Gide”, Esprit, giugno 1936 e “Seize fusillés: où va la Révolution russe? Préface de Magdeleine Paz”, Paris, Cahiers Mensuels Spartacus (1) nouvelle série, ottobre 1936, 76 p.
[7] Si veda la raccolta di saggi curata da Sandra Teroni, Per la difesa della cultura. Scrittori a Parigi nel 1935, Roma, Carocci, 2002, XXII-223 p.
[8] Claude Quétel, Murs. Une autre histoire des hommes, Paris, Perrin, 2012, 320 p. Traduzione di Margherita Botto: Muri. Un’altra storia fatta dagli uomini, Torino, Bollati Boringhieri, 2013, 257 p.
[9] David Bidussa, Pensare stanca. Passato, presente e futuro dell’intellettuale, op. cit. alla nota 5, p. 183.
[10] Mi riferisco al saggio di Anna Foa, Il suicidio di Israele, Roma-Bari, Laterza, 2024, 104 p.
[11] Julien Benda, La trahison des clercs, Paris, Grasset, 1927, 306 p. Traduzione italiana Il tradimento dei chierici, Il ruolo dell’intellettuale nella società contemporanea. Prefazione a cura di Davide Cadeddu, Torino, Einaudi, 2012, XXVIII-260 p. p. Pur essendo stato tradotto in italiano solo nel 2012, il testo era ben noto avendolo fatto conoscere in Italia, nelle sue polemiche con Togliatti, Norberto Bobbio.
[12] Salvatore Veca, Qualcosa di sinistra. Idee per una politica progressista, Milano, Feltrinelli, 2019, 252 p.
[13] Si veda “The Real Lessons of the 75 Anniversary of the World War II”, The National Interest, 18 giugno 2020.
[14] Antonella Salomoni, Il protocollo segreto. Il patto Molotov-Ribbentrop e la falsificazione della storia, Bologna, il Mulino, 2022, 280 p.
[15] Il riferimento è al celebre volume di Norberto Bobbio, Politica e cultura, Einaudi, Torino, 1955, 282 p. Nel 2013 è uscita la nuova edizione del saggio: Politica e cultura. Introduzione a cura di Franco Sbarberi, Torino, Einaudi, 2013, 316 p.
[16] Nel marzo 1947, correggendo le bozze del volume di Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, informa Felice Platone (che, su delega di Palmiro Togliatti, curava la pubblicazione dei Quaderni del carcere) di una proposta di mutilazione (se non si vuol dire censura) del manoscritto di Gramsci:
”Vi è una sola tra le note di contenuto economico che raccomando di non pubblicare: è quella intitolata ‘Economia classica ed economia critica”.
La si può leggere nel volume, curato rigorosamente da Tommaso Munari, Piero Sraffa, Lettere editoriali (1947-1975), Torino, Einaudi, 2017, XIX-185 p. [si veda p. 3].