L’EVOLUZIONE GEOPOLITICA E GEOSTRATEGICA DEL MEDITERRANEO: DAL SECONDO DOPOGUERRA A OGGI

Il ruolo del Mediterraneo nella geopolitica e nella geostrategia Parte II

Sotto il profilo strettamente geopolitico e geostrategico, il “Mediterraneo allargato”, felice definizione creata dallo Stato Maggiore dell’Esercito italiano, che include non solo la geografia fisica, ma anche quella umana, ha subìto una profonda evoluzione, dal secondo dopoguerra a oggi. Agli inizi, il Mediterraneo registrò una prevalente presenza aereonavale della NATO, senza alcuna ingerenza sovietica (Accordi di Yalta), per cui l’Alleanza Atlantica e le grandi potenze occidentali (USA, Gran Bretagna e Francia) esercitarono un controllo su tutti i Paesi nord-africani e medio-orientali, con relativa stabilità dell’area, che risultò indenne dal confronto diretto Est-Ovest (guerra fredda), baricentrato nel cuore nell’Europa continentale. Questa relativa stabilità non durò molto e cominciò ad andare in crisi non appena la Russia sovietica inaugurò una politica di potenza, che spostò la “confrontation” dal centro Europa verso nuovi obiettivi, come lo sbocco sul mare aperto e, quindi, il libero accesso al Mediterraneo e all’Oceano Indiano, attraverso il ricorso all’insediamento di basi sovietiche nei Paesi politicamente vicini all’URSS (India, Etiopia, Algeria e Siria). Questa politica di potenza, insieme con i processi di decolonizzazione, con l’emergere del conflitto arabo-israeliano e con la progressiva instabilità degli assetti geopolitici locali, trasformò rapidamente anche il Mediterraneo nella nuova area della competizione bipolare Est-Ovest. Ulteriori cause di instabilità derivarono anche dalle caratteristiche dei nuovi soggetti statuali, che vennero a formarsi nella regione mediterranea: la modernizzazione non omogenea delle comunità; il carattere oligarchico dei gruppi dirigenti; gli apparati partitici-statuali, come esclusivi centri di potere; la politicizzazione, come identità nazionale, della lingua e della religione e, non da ultimo, l’incapacità di includere tutte le espressioni politiche, religiose, sociali e culturali, presenti sul territorio.

Le conseguenze furono (e sono ancora) inevitabili: nazionalismi, radicalismi e fondamentalismi dei gruppi etnico-religiosi minoritari, esclusi dalla gestione del potere; urbanizzazione accelerata ed esplosione demografia; disoccupazione e fuga dalle campagne per il fallimento delle politiche agricole e la scelta di politiche industriali. In poche parole, una serie di focolai di tensioni e di conflitti endogeni, nel quali si inserì la contrapposizione Est-Ovest.

Con la caduta successiva del regime sovietico e la fine della contrapposizione bipolare Est-Ovest, invece di ricomporsi, l’instabilità si è ulteriormente accentuata con l’acutizzarsi delle spinte etnico-religiose, accompagnata dalla crisi di transizione alle economie di mercato, con nuovi focolai di tensione che hanno travolto alcune sub-regioni. Un esempio per tutti: l’ex-Jugoslavia e il Caucaso. Il provvidenziale intervento politico, economico-finanziario e militare dell’Occidente (la NATO) ha evitato l’estendersi di questi focolai, che avrebbero portato, altrimenti, alla destabilizzazione dell’intera area. La fine del confronto Est-Ovest, tuttavia, non ha impedito, specie nel Corno d’Africa, che, con la fine degli aiuti politici, economici e militari, forniti dai due contendenti, si disgregassero gli apparati statuali, con conseguenti guerre civili (Etiopia e Somalia) e conflitti armati (Etiopia ed Eritrea). Nel Grande Medio Oriente, poi, la caduta delle ideologie politiche e dei socialismi arabi ha aperto la strada alla formazione di movimenti di contestazione, di matrice religiosa.

Per cui, l’islamismo, utilizzato, in origine, come mastice dell’identità nazionale nelle guerre di liberazione dalle potenze coloniali, è diventato un’ideologia autonoma, ad appannaggio delle masse musulmane scontente, contestatrici dei regimi mediorientali al potere, tutti autoritari, autoreferenziali e repressivi di ogni manifestazione di libertà. Dalle lotte interne alle oligarchie al potere, personalistiche e familiari, man mano, quindi, l’islamismo è diventato un’ideologia politica identitaria, a carattere transnazionale, in funzione anti-occidentale, con collegamenti, anche operativi, con le minoranze immigrate nei paesi occidentali. In questo humus ha cercato di radicarsi il terrorismo islamico di matrice religiosa. In poche parole, la fusione tra islamismo e anti-occidentalismo, identificato con l’obiettivo della distruzione di Israele, è diventato un fattore destabilizzante che ha travagliato (e travaglia) tutti i processi di transizione, seguiti alla caduta del comunismo, nei Balcani (Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Macedonia e Albania), nel Caucaso (Cecenia e Daghestan) e nell’Asia centrale (Afghanistan e Tagikistan). La stessa instabilità ha caratterizzato (e caratterizza) gli assetti interni degli Stati mediorientali, che spesso, a loro volta, hanno intrapreso politiche di potenza con il ricorso ad apparati militari competitivi, dando origine ad alleanze strumentali e a contro-alleanze, per il controllo di risorse naturali o per pretestuose contestazioni sui confini territoriali, spesso ammantate da contrasti ideologico-religiosi. La fine del confronto tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica non ha contenuto lo sviluppo competitivo di strumenti militari, con pericolosi accessi, in alcuni casi, ad armi non convenzionali, per cui risultano accresciuti la dimensione e l’impatto politico-strategico dell’instabilità mediorientale. Molti Stati anti-occidentali, non potendo più beneficiare di armamenti a basso prezzo, forniti in precedenza dall’URSS, e che la Federazione Russa, diventata una potenza regionale alle prese con notevoli difficoltà interne, economiche e sociali, non ha potuto più onorare, hanno cominciato una corsa per acquisire armi di distruzioni di massa, come unica strada per garantirsi un equilibrio nei confronti degli Stati filo-occidentali. In questo quadro, anche per l’influenza dei mezzi di comunicazione di massa globali, sono cresciute le aspirazioni individuali e le aspettative sociali, che hanno portato alla fine dei regimi personali, in Tunisia e in Egitto, la “primavera araba”, mentre la caduta del regime di Gheddafi ha avuto cause più complesse. Da quanto sopra, si evince come, dal secondo dopoguerra a oggi, il Mediterraneo abbia mantenuto ed accresciuto il suo ruolo geopolitico e geostrategico, il quale, oggi e in futuro, si pone, sempre più, come un laboratorio non secondario, delle linee di confronto, su scala globale, tra le diverse potenze continentali e i cosiddetti paesi emergenti.

The Role of the Mediterranean Sea in Geopolitics and Geostrategy

Part II

Geopolitical and Geostrategic Evolution: From the Post-WWII Period to Today

by Riccardo Piroddi

From a strictly geopolitical and geostrategic perspective, the “expanded Mediterranean,” a term coined by the Italian Army General Staff, which includes not only physical geography but also human geography, has undergone profound evolution from the post-WWII period to today. Initially, the Mediterranean saw a predominant NATO air-naval presence, with no Soviet interference (Yalta Agreements), enabling the Atlantic Alliance and the major Western powers (USA, Great Britain, and France) to exert control over all North African and Middle Eastern countries, resulting in relative regional stability. This area was largely spared from the direct East-West confrontation (Cold War), centered in the heart of continental Europe. However, this relative stability did not last long and began to deteriorate as Soviet Russia adopted a power policy, shifting the “confrontation” from Central Europe to new objectives, such as open sea access and thus free access to the Mediterranean and the Indian Ocean, through the establishment of Soviet bases in politically allied countries (India, Ethiopia, Algeria, and Syria). This power policy, coupled with decolonization processes, the emergence of the Arab-Israeli conflict, and the increasing instability of local geopolitical structures, quickly transformed the Mediterranean into a new area of East-West bipolar competition. Additional causes of instability arose from the characteristics of the new state entities forming in the Mediterranean region: uneven modernization of communities; oligarchic nature of ruling groups; party-state apparatuses as exclusive centers of power; politicization of language and religion as national identities; and notably, the inability to include all political, religious, social, and cultural expressions within the territory. The consequences were (and still are) inevitable: nationalism, radicalism, and fundamentalism among minority ethnic-religious groups excluded from power; rapid urbanization and demographic explosion; unemployment and rural exodus due to failed agricultural policies and industrial policies. In short, a series of tension and conflict hotspots emerged, into which the East-West confrontation inserted itself. With the subsequent fall of the Soviet regime and the end of the East-West bipolar confrontation, instability further intensified due to the exacerbation of ethnic-religious tensions, accompanied by the crisis of transitioning to market economies, with new hotspots of tension overwhelming some sub-regions. A notable example is the former Yugoslavia and the Caucasus. The providential political, economic-financial, and military intervention of the West (OTAN) prevented the spread of these hotspots, which would have otherwise led to the destabilization of the entire area. However, the end of the East-West confrontation did not prevent the disintegration of state apparatuses in the Horn of Africa, following the cessation of political, economic, and military aid from the two contenders, leading to civil wars (Ethiopia and Somalia) and armed conflicts (Ethiopia and Eritrea). In the Greater Middle East, the fall of political ideologies and Arab socialisms paved the way for the formation of religiously-based opposition movements. Thus, Islamism, initially used as a national identity glue in liberation wars against colonial powers, became an autonomous ideology for discontented Muslim masses opposing the authoritarian, self-referential, and repressive Middle Eastern regimes. Gradually, from internal power struggles within oligarchies, Islamism became a transnational political identity ideology with anti-Western functions, establishing operational links with immigrant minorities in Western countries. In this environment, Islamic terrorism with religious roots attempted to take hold. In summary, the fusion of Islamism and anti-Western sentiment, identified with the goal of destroying Israel, became a destabilizing factor affecting all transition processes following the fall of communism in the Balkans (Bosnia-Herzegovina, Kosovo, Macedonia, and Albania), the Caucasus (Chechnya and Dagestan), and Central Asia (Afghanistan and Tajikistan). The same instability characterized (and characterizes) the internal structures of Middle Eastern states, which often adopted power policies with competitive military apparatuses, leading to instrumental alliances and counter-alliances for control of natural resources or territorial disputes often cloaked in ideological-religious conflicts. The end of the confrontation between the USA and the Soviet Union did not curb the competitive development of military instruments, with dangerous access, in some cases, to unconventional weapons, increasing the political-strategic impact and dimension of Middle Eastern instability. Many anti-Western states, no longer able to benefit from low-cost armaments previously supplied by the USSR, and which the Russian Federation, a regional power facing significant internal economic and social difficulties, could no longer provide, began a race to acquire weapons of mass destruction as the only way to ensure balance against pro-Western states. In this context, also influenced by global mass media, individual aspirations and social expectations grew, leading to the end of personal regimes in Tunisia and Egypt, known as the “Arab Spring,” while the fall of Gaddafi’s regime had more complex causes. From the above, it is evident how, from the post-WWII period to today, the Mediterranean has maintained and increased its geopolitical and geostrategic role, which, now and in the future, increasingly positions itself as a significant laboratory for global-scale confrontations between various continental powers and the so-called emerging countries.


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