EMILIO BATTISTI
Il Nelson Mandela palestinese
L’annuncio dell’uccisione di Yahya Sinwar mi induce a tornare sull’argomento trattato nel mio articolo dedicato al conflitto israelopalestinese e alla questione dei due stati per due popoli pubblicato su queste stesse pagine nel quale ho fatto brevemente riferimento alla figura di Marwan Barghouti conosciuto anche come il Nelson Mandela palestinese, prigioniero politico che si trova nelle carceri di Israele dal 2002.
Marwan Barghouti (6 giugno 1956); Yahya Sinwar (29 ottobre 1962-16 ottobre 2024)
Nel medesimo articolo mi domandavo che sia impensabile che una politica attiva di pacificazione si possa realizzare tra ebrei e palestinesi. No osservavo, certamente, fino a quando Netanyahu resterà premier e Yahya Sinwar capo assoluto di Hamas. Ma nel frattempo anche Sinwar è scomparso dalla scena del conflitto essendo stato ucciso nei giorni scorsi, mentre, per quanto riguarda Netanyahu sarà auspicabilmente il processo democratico, per quanto imperfetto, a decretarne la fine.
Ma i palestinesi dovranno nel frattempo darsi un nuovo capo e nel mio articolo auspicavo che potesse essere Marwan Barghouti, prigioniero politico in carcere da 21 anni, accusato di aver guidato con diversi ruoli le prime due Intifade. Nato in Cisgiordania, ha preso due lauree in Storia e in Scienze Politiche oltre a un master in Relazioni internazionali. Entrato giovanissimo in al–Fatah è stato segretario generale del partito in Cisgiordania e nella seconda intifada fondò le brigate dei martiri di al-Aqsa, braccio militare di al-Fatah. Catturato e accusato di omicidi con finalità terroristiche si è dichiarato innocente ed ha rifiutato di difendersi perché non riconosce «la legittimità del tribunale israeliano».
Inizia la militanza politica a 15 anni aderendo ad Al Fatah, guidata Yasser Arafat e si afferma rapidamente all’interno del partito diventandone il leader alla morte di Arafat. Il primo arresto a soli 18 anni, in carcere impara l’ebraico, primo passo per conoscere il nemico. Negli anni a seguire diventa un leader colto e carismatico. Nel 1987 torna in prigione, viene espulso e negli otto anni di esilio si iscrive all’università di Bin Zeil, diventa rappresentante degli studenti nel consiglio d’amministrazione dell’ateneo. Può tornare dall’esilio nel 1994, solo dopo la firma degli accordi di Oslo, di cui è stato sostenitore.
Nel 2002, prima di finire nuovamente in carcere dove ancora si trova, scrive una lettera al Washington Post in cui afferma che Al Fatah “non abbandona il diritto a difendere le terre palestinesi e lottare per la libertà del proprio popolo”, ma allo stesso tempo definisce Israele “nostri futuri vicini” e si schiera contro atti di violenza contro i civili israeliani.
Quella di Barghouti è una visione molto meno intransigente di quella di Hamas con l’accettazione dellaconvivenza con Israele, e una Palestina libera e indipendente entro i confini del 1967. Ma pochi mesi dopo Barghouti viene incarcerato con l’accusa di aver fondato le “Brigate dei martiri di Al Aqsa”: accusa che il leader palestinese ha sempre respinto con forza ma che gli è valsa la condanna a cinque ergastoli.
A parte la drammatica situazione che si è venuta a creare con il conflitto dopo il 7 ottobre il punto più debole dell’attuale politica palestinese è l’assenza di un leader riconosciuto sia da Hamas che da Al Fatah, in grado di raccogliere l’eredità di Arafat. Ma un sondaggio del 2023 ha rivelato che Barghouti gode di un sostegno molto maggiore di quello di Abu Mazene dei leader di Hamas e proprio Sinwar ne aveva chiesto la liberazione negli scambi di ostaggi del 2011 e 2021. Ma Netanyahu consapevole del significato politico della sua liberazione si è sempre opposto.
Nel 2021, pur in carcere, decide di candidarsi e sfidare Abu Mazen, decisione che causò fermento in Cisgiordania, al punto che le elezioni furono annullate. Lo scorso gennaio, in un articolo comparso sul quotidiano israeliano Haaretz, lo scrittore ebreo Gershon Baskin ha definito “necessario” consolidare una leadership palestinese e definito Barghouti “un serio candidato a ricoprire questo ruolo”. Quello del leader in carcere è, secondo lo scrittore di Haaretz, una figura capace di fungere da interlocutore per tutti i palestinesi.
E’ interessante che nel dibattito in corso il cardinale di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa, affermi “Abbiamo bisogno di nuovi volti e di nuove prospettive. E ciò è un problema che non riguarda solo questa terra ma tutto il Medio Oriente, …. ha bisogno di nuove leadership e nuove visioni.” Molto significativo che Pizzaballa effermi che “solo dopo si potrà discutere degli assetti più congeniali a garantire la pace tra i popoli” che sia ‘due popoli in due Stati’ o ‘due nazioni in uno Stato’ o quanto altro si immagini aprendo lo scenario di possibili alternative che al momento nessuno sembra voler considerare.
E’ inevitabile che nella trattativa in corso si torni a parlare di Barghouti. Hamas ne chiede la liberazione, Israele non ne vuole sapere, al punto che il premier BenjaminNetanyahu ha definito “un sogno” la richiesta di liberare alcuni dei nomi indicati dai palestinesi. Un’intransigenza che potrebbe ammorbidirsi dinanzi alle crescenti pressioni provenienti dagli Stati Uniti e dall’interno dello stesso Stato ebraico, che chiedono con sempre più insistenza un cessate il fuoco e di dare priorità alla liberazione degli ostaggi.
Con l’estendersi del conflitto immaginare che la liberazione di un personaggio come Barghouti possa essere risolutiva apparirà ai più illusoria. Ma non si può negare che la drammaticità della situazione riguarda non solo la contrapposizione tra Israele e mondo arabo, ma anche che entrambi i contendenti, ebrei e palestinesi, sono profondamente divisi al loro interno.
La questione è trattata in modo molto ben argomentato da Stefano Levi Della Torre in un testo molto interessante di prossima pubblicazione nel quale all’ipotesi dei due stati ebraici si fa esplicito riferimento anche citando un articolo di Yeshayahu Leibowitz, di cinquant’anni fa, contrario all’occupazione dei territori appena conquistati da Israele. Leibowitz autorevole esponente israeliano dell’ebraismo, direttore dell’Enciclopedia Giudaica, così scriveva:
“Estendere l’ambito del nostro dominio politico a questi arabi (in aggiunta ai trecentomila già cittadini dello Stato), significa la liquidazione dello Stato di Israele […] e la degenerazione dell’uomo ebreo e dell’uomo arabo […].La corruzione tipica di ogni regime coloniale prenderà piede anche nello Stato di Israele. Il regime dovrà dedicarsi da un lato alla repressione di un movimento di rivolta arabo, dall’altro all’acquisto di quisling arabi (governi fantoccio). C’è da temere che anche l’esercito israeliano degeneri a causa della sua trasformazione in esercito di occupazione, e che, una volta fatti governatori militari, i suoi ufficiali diventino tali e quali ai loro colleghi di altre nazionalità: ed ogni commento è superfluo.” Dopo più do 50 anni si può constatare come la degenerazione prevista da Leibowitz si sia puntualmente avverata.
Ma questa non è l’unica conseguenza perché l’aspetto più eclatante riguarda il fatto che poiché motivo dell’occupazione dei territori era il controllo della popolazione palestinese Israele non ha risolto la questione palestinese l’ha assunta all’interno del proprio organismo “come una malattia auto-immune, un eccesso difensivo diventato una patologia cronica che ha indotto processi degenerativi nel suo stesso corpo.”
Non è sano per un popolo vivere in contiguità con un altro popolo che esso espropria, discrimina e subordina; non è sano per uno stato di diritto convivere con uno stato di polizia coloniale imposto ad altri, il vacillante stato di diritto ha favorito la prolungata permanenza della destra al governo e la mutazione della democrazia in un’ etnocrazia, come “Stato [esclusivo] degli ebrei” con la “legge fondamentale” imposta alla Kenesset nel 2018 con esigua maggioranza, e infine a minare l’autonomia della magistratura contro la quale si sono avute manifestazioni di massa riguardanti questioni interne che però non si son fatte carico del problema dei territori occupati.
Stefano Levi della Torre riferisce che su “Haaretz” Gideon Levy aveva denunciato questa rimozione e Alon Pinkas , per il “Giorno dell’Indipendenza”, il 13 maggio 2024 aveva scritto che Israele si era spaccato in due Stati ebraici tra loro incompatibili : “C’è un elefante nella stanza di Israele, ed è la graduale ma inesorabile divisione in due, nello Stato di Israele ad alta tecnologia , secolarizzato, che guarda in avanti, imperfetto ma liberale, e il regno di Giudea ebraico-suprematista, una teocrazia ultranazionalista e messianica”.
L’occupazione dei territori non ha prodotto soltanto la degenerazione degli israeliani ma anche dei palestinesi. I primi impegnati in politiche di discriminazione etnica fino all’apartheid, gli altri, privati di autonomia economica e politica che approfittando di sovvenzioni internazionali, hanno esposto alla corruzione i loro gruppi dirigenti.
Con la morte di Sinwar in assenza di un’alternativa di comando a Gaza e Cisgiordania è inevitabile che nella trattativa in corso si torni a parlare di Barghouti. Hamas ne chiede la liberazione, Israele non ne vuole sapere, al punto che il premier Benjamin Netanyahu ha definito “un sogno” la richiesta di liberare alcuni dei nomi indicati dai palestinesi. Un’intransigenza che potrebbe ammorbidirsi dinanzi alle crescenti pressioni provenienti dagli Stati Uniti e dall’interno dello Stato ebraico, che chiedono con sempre più insistenza un cessate il fuoco e di dare priorità alla liberazione dei prigionieri e degli ostaggi.
Potenziale leader nel 2009, in un’intervista rilasciata dal carcere, Barghouti rivelò di essere pronto a correre per la leadership dell’Autorità palestinese e nel 2021, pur in carcere, decise di candidarsi e sfidare Abu Mazen. Una decisione che causò fermento in Cisgiordania, al punto che le elezioni furono annullate.
Lo scorso gennaio, in un articolo comparso sul quotidiano israeliano Haaretz, lo scrittore ebreo Gershon Baskin ha definito “necessario” consolidare una leadership palestinese e definito Barghouti “un serio candidato a ricoprire questo ruolo”. Quello del leader in carcere è, secondo lo scrittore di Haaretz, una figura capace di fungere da interlocutore per tutti i palestinesi.
Il no opposto dal governo israeliano, l’intransigenza di Netanyahu, sono stati definiti dal presidente del Consiglio politico Usa per il Medio Oriente, la diplomatica americana Gina Winstanley, la prova che “il governo israeliano non ha nessuna intenzione di procedere verso la soluzione dei due Stati”. Nelle ultime settimane si è anche parlato della possibilità che Barghouti possa ricoprire un ruolo politico dal carcere.
Un’eventualità dal valore poco più che simbolico, considerata la necessita’ di dare un nuovo organigramma ad Al Fatah, i cui dirigenti sono per la maggior parte anziani, unire i movimenti palestinesi e dare nuovamente alla Palestina una visibilità sul piano internazionale che favorisca un processo politico e ponga fine al conflitto in corso.
Certamente non Hamas ma neanche Abu Mazen, l’anziano leader dell’ANP non ha più consenso e in West Bank evita le urne per scongiurare che Hamas prenda il potere anche lì. È per questo che da un po’ è tornato a circolare il nome di Marwan Barghouti, conosciuto come il Nelson Mandela palestinese.
Intanto non solo non si fermano le violenze nella striscia di Gaza, ove l’esercito israeliano sembra essersi impantanato, ma Netanyahu ha aperto un nuovo fronte in Libano e al numero delle vittime di Gaza si aggiungono quelle libanesi crescendo di giorno in giorno in maniera spaventosa e la soluzione al conflitto israelopalestinese resta sempre più un miraggio.
Nel tempo sono state molte le campagne per la sua liberazione di Barghouti e diversi esponenti della politica israeliana non si sono dichiarati contrari alla sua scarcerazione, tra cui l’ex vice primo ministro israeliano Shimon Peres, che però non mantenne la promessa. Per la moglie e compagna di lotta di Barghouti, Fadwa Ibrahim, «Abu Mazen si illude di restare al potere a Ramallah e recuperarlo a Gaza ma è un’illusione» perché nei sondaggi, Marwan Barghouti batte Al-Fatah e Hamas insieme.
Secondo una ricerca realizzata prima del 7 ottobre dall’istituto palestinese Arab Barometer, è Barghouti il leader più stimato tra i palestinesi di Gaza e Cisgiordania. Se si andasse a votare raccoglierebbe il 32% delle preferenze, ossia l’insieme dei voti del leader di Hamas, Ismail Haniyeh (24%), e del presidente dell’Autorità palestinese, Mahmoud Abbas (12%). Dati significativi di una lidership basata sul consenso popolare e non sull’esercizio del potere.
Infatti, gli statisti servono, ma sono i popoli a doversi imporre sui propri governi e non mi stancherò mai di citare Albert Camus che, l’8 agosto 1945, due giorni dopo la bomba atomica di Hiroshima e un giorno prima della seconda su Nagasaki, con l’editoriale di Combat lanciava, in totale isolamento, il suo grido d’allarme: ”Davanti alle prospettive terrificanti che si aprono all’umanità…Non è più una supplica ma un ordine che deve salire dai popoli ai governi, l’ordine di decidere definitivamente tra l’inferno e la ragione.”
Barghouti rappresenta il capo potenziale dei dispersi movimenti palestinesi in grado cogliere l’istanza del suo popolo che la complice contrapposizione tra Israele e Hamas impedisce di far valere.
La moglie e avvocata Fadwa Ibrahim richiama alla mente la figura di Stella Moris,anche lei avvocato e moglie di Julian Assange, il cui impegno sostenuto dalla grande mobilitazione internazionale, ha avuto successo nella scarcerazione del fondatore di Wikileaks. Anche Fadwa non si arrende e organizza una serie di incontri per creare una rete di sostegno internazionale che faccia di Marwan Barghouti il federatore e successore di Abu Mazen e di Yahya Sinwar
Sarà lui ad essere parte della soluzione o almeno della tregua di questa guerra senza fine?
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