L’INGIUSTIZIA: UN DELITTO IMPUNITO

In margine al libro di Doris Lo Moro “FORTE COME IL DOLORE”

                                 

Forte come il dolore” è un libro diverso, una intervista a tutto campo su un tema di straordinaria drammaticità. Cosa è l’ingiustizia? Doris lo Moro che ne è stata grande vittima, la interpreta come giustizia negata. Però questa definizione è molto giuridica, né altrimenti potrebbe esserlo nella voce di un Magistrato, di una Parlamentare, di una Sindaco, come è stata per molti anni Doris, donna delle Istituzioni.

Ci può invece essere una interpretazione sociologica che rende l’ingiustizia non il contrario esatto della giustizia: quest’ultima infatti riguarda la comunità, il relativo senso di appartenenza, una soddisfazione collettiva ed unificante; l’ingiustizia invece è un dramma individuale o familiare o di un piccolo gruppo al quale la comunità è per lo più indifferente. Nel caso in particolare, quello della uccisione, senza movente e senza colpevoli, del padre e del fratello di Doris, nella considerazione generale come ella stessa scrive, mentre si cerca il colpevole che non si trova, nella considerazione generale dopo lo sdegno iniziale succede l’indifferenza e il colpevole e la vittima addirittura vengono omogeneizzati in un ricordo freddo. Giustizia mancata o negata? o ingiustizia? Il dibattito ha fatto seguito alla presentazione del Libro a Roma al quale hanno partecipato con l’Autrice, Magistrati illustri ed ex parlamentari come Luciano Violante ed Anna Finocchiaro, e Fabio Pinelli ex Vicepresidente del CSM.

Veniamo al fatto ossia al drammatico evento che quarant’anni più tardi Doris Lo Moro trova la forza per raccontarlo.

Nella Calabria degli anni ‘80 quando la ‘ndrangheta cresceva di potere e di crudeltà, la famiglia Lo Moro viveva una vita borghese di lavoro e di affetti, padre, madre e otto figli, sette maschi e una femmina appunto Doris la secondogenita.

 La famiglia Lo Moro abitava a Lamezia o meglio a Nicastro come allora si chiamava quella cittadina, ma il padre lavorava in un vicino paese Philadelphia: insegnava in una scuola primaria e interpretava il suo ruolo come una missione, quella di far crescere quei ragazzi nella consapevolezza e nell’ambizione di cambiare il destino della loro terra. Ed in questo progetto coinvolgeva anche le famiglie dei suoi studenti intorno al proprio carisma, una esperienza sociale e culturale innovativa, unica in quegli anni.

Tutte le mattine con una piccola macchina personale percorreva la distanza tra casa e lavoro in compagnia dell’ultimo figlio diciottenne che in una scuola dello stesso paese stava completando gli studi secondari. Un brutto giorno accanto alla loro macchina ferma sul ciglio della strada vennero trovati i cadaveri di padre e figlio trucidati a colpi di arma da fuoco.

L’emozione fu grande, la commozione travolgente.  Doris che era in viaggio di nozze tornò a precipizio in famiglia.  Ai funerali ci fu il dolore di tutta la città per la fine drammatica di un galantuomo e di suo figlio amato come il padre.

L’indagine cercò i colpevoli ed il movente in tutte le direzioni, ma senza esito. Niente politica, niente malaffare, niente vicende extrafamiliari, niente questioni di denaro. Poi si trovò una traccia: la piccola auto dei Lo Moro che era nuova di zecca aveva una strisciata di altro colore sulla fiancata sinistra. Gli inquirenti non dettero peso al reperto, ma uno dei figli trovò in un garage la macchina che aveva la stessa strisciata sulla fiancata opposta con la stessa vernice. Le testimonianze rivelarono che in quella macchina quel giorno c’erano due giovani con precedenti penali per violenza. Nacque così l’ipotesi, l’unica accreditata, di un litigio per un incidente tra le due macchine risolto a colpi di pistola contro i due Lo Moro. Le cronache dei giornali locali, e non solo, seguirono con ansia il processo che però si concluse con l’assoluzione degli imputati, perché secondo i giudici un modesto incidente di auto non può essere il movente per un delitto efferato. Lo stesso succederà in appello, prove insufficienti, non si volle considerare che la violenza e la barbarie possono trovare il proprio sfogo anche senza un vero adeguato movente.

Così la giustizia negata prese corpo tra l’incredulità della comunità cittadina e presto sconfinò nell’oblio trasformandosi in ingiustizia per la sconsolata famiglia Lo Moro travolta dal dolore.

Doris è brava, abbandona la Banca dove lavorava, vince il concorso in Magistratura, si insedia come Giudice penale proprio a Lamezia, giudice molto attenta, competente, inflessibile ed a furor di popolo viene eletta Sindaco per due mandati di quella città precedentemente commissariata dal Governo per molti anni. Poi quando la Giunta Regionale ebbe bisogno di un personaggio di alto profilo senza macchia e senza paura, farà l’Assessore Regionale alla Sanità ed infine il Parlamentare a Roma per due legislature. In ultimo ritorna in magistratura, comandata al Ministero della Giustizia a Roma. Intanto con il marito cresce tre bellissimi figli: una vita completa e prestigiosa, ma nel suo cuore la ferita della uccisione del padre del fratello è sempre aperta. Da magistrato sa bene che la verità processuale non sempre corrisponde alla vera verità ed è così che la giustizia alla quale ha legato la sua vita può trasformarsi in ingiustizia, ma nel rispetto delle Istituzioni in cui crede finisce con intenderla come giustizia negata.

Nel libro-intervista con Luciana De Luca, a quarant’anni di distanza dai fatti, Doris trasfonde il suo grande imperituro amore per i suoi cari barbaramente uccisi, ma anche il suo credo nelle Istituzioni. Più che raccontare i fatti, peraltro ben noti a molti, anche a tanta distanza di tempo Doris rivela i suoi sentimenti di affetto e di stima per i suoi genitori ed il suo giovane fratello, riesamina il processo, le indagini, il dibattimento, le sentenze. È un’analisi serrata che individua l’incompletezza del procedimento e l’umano dubbio che qualcosa dall’esterno abbia potuto condizionare l’esito, riducendo l’analisi delle prove presunte ed offuscando la serenità di inquirenti e giudicanti. Doris lo sa che non può riaprire il processo, anche perché per i due presunti colpevoli un’altra giustizia ha chiuso il discorso, ma analizza i comportamenti processuali rilevandone manchevolezze e superficialità. Ben sa quali elementi emotivi possono influenzare il comportamento dei giudici, ma conclude che il grande rispetto per l’Istituzione giudiziaria nella quale anche la sua prima figlia ha legato la sua vita, non può essere offuscato da singoli comportamenti fallaci.

“Forte come il dolore”, è un libro di cronaca, di emozioni, di ricerca sociale, di critica professionale, di giustizia negata e/o di ingiustizia, sempre con un grande senso delle Istituzioni e della Magistratura alla quale più che la alla politica Doris ha legato la sua vita. Nel libro non può non trapelare una accusa grande contro quei giudici che non indagano sufficientemente e non condannano per dormire sotto sonni tranquilli, ma c’è anche una esplicita fiducia nella giustizia e Doris conclude “non si possono confondere singoli giudici con la magistratura… Il giudizio su singoli casi e su singole vicende giudiziarie non può né deve intaccare il valore della giustizia ed il rispetto della Istituzione preposta che è garanzia per tutti.”

 È un libro da leggere tutto di un fiato per vivere col cuore in mano una storia incredibile come e più di tante altre che hanno insanguinato ed ancora insanguinano con vittime innocenti l’amata Calabria.


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