L’ITALIANITÀ IN ARGENTINA

Storia di una migrazione linguistica e culturale

L’Argentina è stata, per lungo tempo, la destinazione privilegiata per gli immigrati italiani in cerca di opportunità di una vita migliore. In questo articolo esaminerò come la migrazione italiana ha lasciato un’impronta indelebile influenzando anche dal punto di vista linguistico e culturale l’Argentina (il teatro, il cinema, la musica e il linguaggio)

Dal punto di vista linguistico, dall’incontro della lingua parlata dagli italiani, per lo più dialettofoni, con il castigliano è nato un nuovo e peculiarissimo idioma, il cocoliche. Analogamente il lunfardo, argot della malavita porteña, rappresenta un altro singolare esperimento linguistico dell’incontro tra i dialetti italiani e il castigliano.

Nell’ambito teatrale, invece, va ricordato il sainete, genere del teatro popolare arrivato in Argentina grazie agli immigranti spagnoli, diventato rapidamente un aspetto importante del teatro nazionale argentino, nel quale l’immigrato italiano viene rappresentato con una matrice principalmente negativa e stereotipata. In particolare, degno di nota risulta una delle opere più famose e rappresentate da Alberto Vaccarezza, ovvero El conventillo de la Paloma.

Il contatto linguistico nel contesto migratorio

Lo studio del contatto linguistico in contesto migratorio non può non tener conto del diverso combinarsi di fattori, alcuni linguistici ed altri legati alle caratteristiche demografiche e ai problemi socioculturali degli emigrati.

La grande emigrazione sul piano linguistico portò, da un lato, in Italia, all’indebolimento dei dialetti locali ed alla diffusione dell’istruzione scolastica e della lingua comune. Invece, nei paesi d’accoglienza, portò alla formazione di koinè1dialettali e alla elaborazione di forme di commistione linguistica date dal contatto dell’italiano con la lingua locale, con diversi livelli di perdita e mantenimento della lingua madre.

Innanzitutto, occorre tener conto del fatto che, prima ancora del contatto linguistico tra dialetti italiani e la lingua spagnola, sono gli stessi dialetti italiani ad entrare in contatto tra loro durante il viaggio di andata. Solo al momento dell’arrivo in terra straniera, questi subiranno l’azione della lingua spagnola ed eserciteranno un’azione su di essa. I processi di contatto o di commistione possono, dunque, essere orientati sia verso la lingua del nuovo paese che verso l’italiano.

Proprio a causa del fatto che i nostri connazionali non condividevano tra loro una lingua standard comune – in quanto si trattava in gran parte di povera gente, non scolarizzata, proveniente dalle campagne con ciascuno il proprio dialetto – l’italiano non ha mai prevalso sullo spagnolo nonostante l’altissimo numero di italofoni in Argentina.

Pertanto, poiché gli emigrati italiani avevano la necessità di comunicare con i nativi e con gli altri emigrati, produssero una varietà mista di spagnolo e dialetto italiano di uso orale, in cui forme e strutture italiane si alternavano a quelle spagnole. Tale commistione fu favorita anche dalla vicinanza genetica dell’italiano e dello spagnolo.

L’italiano degli argentini: cocoliche e lunfardo

Per avere un’idea dell’intenso contatto linguistico tra spagnolo ed italiano nella regione rioplatense basta considerare che alla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento a Buenos Aires gli italiani ammontavano al 60% degli stranieri.

La commistione tra spagnolo rioplatense e dialetti italiani – sia meridionali che settentrionali – non rimase circoscritta entro i margini della collettività migratoria ma contribuì all’apparizione di due modalità di contatto linguistico essenzialmente differenti, ovvero il cocoliche e il lunfardo. Coesistenti nel Rio de la Plata a partire dalla seconda metà del XIX secolo, il primo scomparve gradualmente sopravvivendo essenzialmente nella tradizione popolare del circo, del sainete2 e del grotesco criollo3, mentre il secondo – fenomeno altamente dinamico e produttivo – penetrò e impregnò il parlare quotidiano colloquiale e generale degli argentini e degli uruguayani4.

Dallo sforzo degli emigrati italiani di imparare lo spagnolo e dalla confusione dello stesso con i vari dialetti nasce, come già detto, un nuovo linguaggio: il cocoliche. La struttura fondamentale del cocoliche – a livello lessicale, sintattico e stilistico – si può delineare secondo il seguente schema: dialetti, elementi casuali dell’italiano standard e il castigliano. L’unione primaria di questi tre elementi, di cui i dialetti e il castigliano rappresentano la parte più consistente, dà luogo a quella che viene definita la lingua dell’emigrante.

Il castigliano che concorre a formare il cocoliche è quello andaluso, in quanto è principalmente dai grandi porti di questa regione che partivano le tratte transoceaniche dirette in America Latina. Per quanto riguarda i dialetti italiani, invece, risultano maggioritari quelli dei gruppi regionali maggiormente coinvolti nel processo migratorio, ovvero piemontese, lombardo, veneto, campano, siciliano e, soprattutto, genovese – come dimostra la grandissima presenza di immigrati liguri che vivevano nel quartiere de La Boca -, ciascuno dei quali apporta elementi lessicali propri alla nuova lingua. Molti studiosi effettuano una distinzione fra il “cocoliche linguistico”, come già detto lingua dell’immigrato, e il “cocoliche letterario”, frutto di invenzione del teatro rioplatense. Per quanto concerne il cocoliche linguistico, nel corso degli anni si sono susseguite molte definizioni. Ma data la difficoltà di classificazione, si inizierà a dire cosa non è il cocoliche linguistico.

Il cocoliche non è, come precisato dalla studiosa Antonella Cancellier5, né un gergo – come il lunfardo – né un dialetto:

il gergo è caratterizzato dal desiderio o dalla necessità di differenziarsi dalla comunità, mentre il cocoliche esprime il desiderio opposto, cioè la volontà di comunicazione e di integrazione.

Il dialetto, invece, è una lingua regionale che si sviluppa in parallelo alla lingua nazionale e non, come in questo caso, un nuovo organismo linguistico nato da uno o più codici espressivi esistenti.

Il cocoliche non può essere assimilato neanche alla categoria di pidgin6, in quanto quest’ultimo presuppone condizioni come la presenza di almeno tre lingue in contatto, molto diverse tra loro; il cocoliche, invece, è dato dalla fusione di spagnolo e italiano, lingue geneticamente affini e il suo uso è unilaterale: solo l’immigrato che vuole interagire con i nativi rioplatensi lo parla, non viceversa7.

La definizione migliore per il cocoliche è quella fornita da Pierre Perego nel 1968, cioè:

parlers unilatéraux, résultant d‘efforts faits par des individus ou des groupes d‘individus pour reproduire, lorsque le besoin s‘en fait sentir, une langue à prestige social supérieur dans une situation donnée8.

Questa definizione fu condivisa anche dalla studiosa Antonella Cancellier, la quale aggiunse che fu un fenomeno nato dalla volontà di apprendimento dove si tendeva a confondere la L1 e la L2.

Il cocoliche costituisce, dunque, la risposta degli immigrati italiani più poveri alla mancanza di una lingua per comunicare con gli abitanti argentini; tale fenomeno si manifestava nella tendenza ad acquisire le forme lessicali, quali nomi, aggettivi e radici verbali dello spagnolo, e trasferirle – in una versione semplificata e ridotta – nel sistema morfosintattico della lingua madre, in molti casi il dialetto.

Le tracce più marcate del cocoliche sono l’utilizzazione della labiodentale sonora del sistema fonologico dell’italiano [v], totalmente assente nello spagnolo, invece della bilabiale occlusiva sonora [b] o fricativa [β] assente nell’italiano e quindi difficile da produrre.

Questo fenomeno di riduzione e semplificazione del sistema dello spagnolo sulla base dell’italiano, spiega le forme caratteristiche della lingua dell’emigrante che deformava conejo «coniglio» [conexo] in coneco [koneko]; ojo [oxo] «occhio» in oco; joven «giovane» [xoven] in coven [koven]. Quando l’intera forma lessicale in italiano era molto simile e quindi poteva agevolmente essere compresa dall’interlocutore argentino, essa veniva trasferita senza alcuna modificazione come amico per amigo, dovia per debía9.

Ma l’elemento più stigmatizzato socialmente dai parlanti nativi era la scarsa competenza nell’uso del fonema /s/ presente come marca morfologica del plurale, delle desinenze del verbo ma in distribuzione diversa all’inizio e all’interno di parola. Nel cocoliche si registrava, infatti, una tendenza generalizzata a omettere la -s in posizione finale e ad enfatizzarla all’interno di parola. Costanti erano, quindi, forme del tipo vamo per vamos, va per vas, do per dos, lo chico per los chicos. Questi errori tipici e ricorrenti marcavano socialmente il modo di parlare dell’emigrante e lo degradavano agli occhi dei nativi. Le sue caratteristiche vennero a costituire gli elementi distintivi del modo di esprimersi dell’emigrante italiano, utilizzati dalla stampa e, come si dirà in seguito, dal teatro popolare argentino10. Al fine di fornire un’idea concreta e immediata del fenomeno esposto, si riportano alcuni esempi di cocoliche.

ATENTI = deriva dal plurale dell’aggettivo italiano “attento”, funziona come interiezione al posto di “¡atención!” (“attenzione!”) quando si deve indicare un pericolo.

BACAN = deriva dal genovese “baccan” (parola che indicava il capofamiglia o un leader in generale), attraverso uno slittamento semantico significa “persona ben vestita, rispettabile”.

BIRRA = su entrambe le sponde del Rio de la Plata invece di dire cerveza (Spagna) o chela (Latinoamerica), si usa il termine “birra”, di evidente origine italiana. Il termine ha oggi attecchito anche nella penisola iberica nello spagnolo colloquiale.

CAPO = dall’italiano “capo”, con identico significato (es. sos vos el capo, “sei tu il capo”), in luogo dello spagnolo “jefe”.

CHAO/CHAU = deriva dal “ciao” italiano (in origine dialetto veneto “sciao”), di cui conserva identica la pronuncia, ma è adattato nella grafia dell’affricata postalveolare sorda /tʃ/, che lo spagnolo rende con il digrafo -ch. Corrisponde allo spagnolo iberico “adiós” ed è quindi utilizzato, a differenza che in italiano, solo per accomiatarsi (in maniera informale).

CHITRULO = dall’italiano citrullo (“stupido”), formato dalla parola “cetriolo” più il suffisso meridionale -ullo. Conserva identico significato con adattamento della grafia dell’affricata postalveolare sorda /tʃ/ e scempiamento della consonante liquida.

FURBO = in Argentina “furbo” sostituisce il vocabolo iberico “engañador”, “pícaro”.

LABURO/LABURAR = dall’italiano “lavoro/lavorare”, usato al posto di “trabajar”. Molto diffuso. Es. mañana termino de laburar a las 18.00, “domani finisco di lavorare alle 18.00”.

MANYAR = verbo sostantivato dall’italiano “mangiare”, usato al posto dello spagnolo “comida”.

NONO/A = dall’italiano “nonno/a”, con scempiamento della consonante nasale alveolare è usatissimo in Argentina in luogo dello spagnolo “abuelo/a”.

NASO = dall’italiano “naso”. Ha subito uno slittamento semantico e indica ora solo quei nasi particolarmente grossi (es. “tengo naso”), mentre come termine neutro si usa il comune “nariz”.

ÑOQUI(S) = si tratta del tipo di pasta, gli “gnocchi”, con adattamento spagnolo della grafia della nasale palatale -gn e dell’occlusiva velare sorda /k/, quest’ultima scempiata. Il termine è parimenti usato in Spagna e non è, quindi, esclusivo del cocoliche.

FIACA = dal genovese fiaca, poi italiano “fiacca”; in Argentina è usato al posto di pereza o flojera (“pigrizia”). Una tra le frasi che si sente più spesso è: “¡Me da fiaca!” (“ho pigrizia!”).

TANO = abbreviazione di “napolitano”, così vengono chiamati per estensione gli italiani a Buenos Aires, indipendentemente dalla loro regione d’origine, evidenza assai eloquente per quanto riguarda l’importanza dell’immigrazione campana nella capitale. Alla domanda: “¿De dónde eres?” è quindi normale rispondere “Soy tano” (Di dove sei? Sono italiano)11.

Per quanto concerne, poi, il “cocoliche letterario”, il termine stesso presenta una storia curiosa. Il vocabolo che, pronunciato in spagnolo, potrebbe far pensare a una sua origine fantasiosa e maturata nell’ambito del linguaggio popolare è in realtà un caso di eponimia, derivante dal nome di Antonio Cuccoliccio, peón (cioè manovale) calabrese che lavorava in uno dei circhi più conosciuti nella Buenos Aires di fine ‘800, quello dei genovesi fratelli Podestà, che si rende ridicolo per il suo comportamento ed il modo di esprimersi. Egli cerca in ogni modo di integrarsi nel nuovo ambiente e nel tentativo di emulare il gaucho, modello di comportamento della società contadina locale, commette una serie di errori che lo rendono goffo agli occhi del pubblico12.

L’attore argentino Celestino Petray, che faceva parte della compagnia di teatro dei Podestà, in cerca di un nuovo sketch da proporre, si presentò in scena parlando proprio come aveva sentito fare al peone, facendo divertire il pubblico.

Nessuno avrebbe immaginato che da quell’episodio improvvisato sarebbe nata una nuova lingua. Il successo di questa formula, l’effetto comico creato dal personaggio, non risiede però nella semplice imitazione del linguaggio del povero manovale, ma dall’unione di due sfere sociali distinte: il pubblico argentino non ride delle difficoltà di espressione dell’immigrato italiano ma, al contrario, è lui che fa ridere facendo la parodia della nobile figura del gaucho.

Contemporaneamente al cocoliche, nei conventillos13 si sviluppò un’altra forma linguistica, il lunfardo. Questi due fenomeni sono strettamente imparentati, giacché condividono l’origine nella lingua dell’emigrante, ma mentre il primo è nato, come sappiamo, per una necessità comunicativa degli immigrati, il secondo trova la sua origine presso gli ispanofoni per deformare le parole degli stranieri in modo ludico.

Inizialmente il lunfardo fu considerato un argot, cioè un gergo dei delinquenti e delle classi basse della città di Buenos Aires, nato nell’ottica di possedere un linguaggio in codice condiviso in una determinata cerchia di persone e capace di sfuggire al controllo delle forze dell’ordine e caratterizzato da elementi linguistici di diversa origine, molti dei quali portati dall’immigrazione: indigenismi, gallicismi, lusitanismi provenienti dal Brasile, termini della vita spagnola e del calò degli zingari e italianismi. Tra questi, gli italianismi costituiscono l’ingrediente principale, influenzando principalmente il piano lessicale.

L’origine del nome, secondo lo studioso Fraga14, deriva da lombardo, aggettivo usato in maniera spregiativa proprio con il significato di ‘ladro’ in quanto i lombardi si dedicavano spesso all’attività di usurai e prestasoldi, considerate disoneste.

Dall’ambito ristretto di lingua segreta delinquenziale il lunfardo si estende però velocemente ai settori popolari della società porteña15 diventando poi la lingua di tutti, attraverso la sua adozione da parte del teatro argentino e, soprattutto, da parte dell’ambiente del tango. Oggi il lunfardo non si può più definire la lingua della malavita perché, come sostiene Mario Teruggi16 “lunfardismi non mancano sulla bocca di nessuno”. Come per il cocoliche, iniziamo a dire cosa non è il lunfardo.

Innanzitutto, non può essere considerato una lingua poiché no es posible hablar completamente en lunfardo, sino a lo sumo hablar con lunfardo17, in quanto le parole che lo compongono sono fondamentalmente verbi, sostantivi e aggettivi (sono presenti pochissimi avverbi e nessuna congiunzione, pronome o preposizione) e, soprattutto, vengono utilizzati la stessa sintassi e gli stessi procedimenti morfologici del castigliano.

Il lunfardo non può ritenersi neanche un dialetto, poiché il dialetto è una varietà regionale di una lingua che implica la presenza di: una fonetica determinata (un modo particolare di pronunciare s, c, y, ecc.); dei pronomi alternativi della seconda persona (vos e ustedes, diversi da quelli dello spagnolo standard e vosotros) e la loro concordanza verbale (vos podés invece di tú puedes); una selezione di lessemi che differiscono da quelli che scelgono i parlanti della stessa lingua in altri luoghi, ad esempio, per dire ‘fragola’ un argentino usa frutilla e uno spagnolo fresa. Inoltre, non può considerarsi un dialetto anche perché no configura un habla regional con el que puedan entenderse todos los miembros de una misma comunidad. Es un habla grupal. Pertenece a un grupo social18.

Dobbiamo a Oscar Conde, professore e membro dell’Academia Porteña del Lunfardo, autore del “Dizionario etimologico del lunfardo”, la definizione secondo cui il lunfardo è un insieme di verbi, sostantivi e aggettivi che esulano dallo spagnolo standard e che vengono utilizzati da chi parla l’ultracentenario dialetto porteño di Buenos Aires. Dunque, se vogliamo dare una definizione precisa, possiamo dire che il lunfardo è solo uno degli elementi che caratterizzano il dialetto di Buenos Aires19.

Per comprendere il lunfardo ci viene in aiuto Mario Teruggi con il suo libro Panorama del lunfardo20. Egli divise il processo evolutivo di questo gergo in tre periodi: di sviluppo, di assimilazione, di rinnovo. Il primo intervallo, che va dal 1865 allo scoppio della Prima guerra mondiale, vide un lunfardo caratterizzato dall’abbondanza di prestiti, soprattutto da italiano, spagnolo, portoghese, lingue aborigene, che veniva parlato solo da uomini. Fu un periodo vincolato inizialmente ai settori bassi della società, i quartieri di periferia detti arrabales, per poi espandersi anche ai cittadini dei restanti quartieri. In questo primo momento, la visione che il popolo aveva del lunfardo era quello di un linguaggio proprio della criminalità.

Il secondo periodo si estese dalla fine del primo conflitto mondiale alla metà del 1900. Diminuì la presenza dei prestiti e cominciarono ad apparire i localismi; nonostante il suo uso fosse ancora prevalente negli uomini, anche donne e bambini della classe medio-bassa iniziarono a parlare in lunfardo.

L’ultimo momento che va dagli anni Cinquanta ad oggi, vede il lunfardo quasi esclusivamente formato dai localismi e i prestiti sono pressoché nulli: grazie ai mezzi di comunicazione lo stesso si è diffuso in tutta la popolazione Argentina, tutti utilizzano una grande quantità di parole mutuate dal lunfardo senza conoscerne l’origine italiana.

Tra lunfardo e cocoliche alcune differenze

Anche se spesso impiegati come sinonimi, cocoliche e lunfardo non sono tali pur presentando numerosi punti di affinità. Il lunfardo condivide con il cocoliche, infatti, la genesi nella lingua dell’emigrante: sono fenomeni linguistici originati in ambienti marginali che hanno avuto la sorte di diffondersi gradualmente e permeare gli altri strati della società argentina, esercitando una grandissima influenza sulla formazione della lingua e della cultura rioplatense, influenza tutt’ora attiva.

Come già precisato, differenti però sono le finalità dei due linguaggi: se il cocoliche, nato sulle grandi navi transoceaniche, esprime il desiderio dell’immigrato di comunicabilità, il lunfardo, nato nell’ambito della malavita italo-argentina, in origine persegue il fine opposto, quello di non essere compreso se non da chi faccia parte del giro malavitoso.

A differenza del cocoliche, che venne usato solo nel periodo dell’immigrazione, il lunfardo è sopravvissuto fino ad oggi ed è possibile sentirlo pronunciare da qualsiasi cittadino argentino grazie alla sua diffusione ad opera dei giornalisti, degli autori di sainetes e folletinos21, dei poeti lunfardi e soprattutto dei compositori di letras de tango. Ciò in quanto il lunfardo si va caratterizzando per una tendenza ludica alla deformazione delle parole e una propensione alla metaforizzazione delle stesse.

A tal proposito si osservi, ad esempio, il verbo deschavar, in cui la connotazione psicologica si impone su quella originariamente fisica: derivato dal genovese “descciavà”, che vuol dire letteralmente “togliere i chiodi / aprire qualcosa di chiuso”, in lunfardo passa a significare “manifestare ciò che si teneva taciuto o nascosto” e, nella sua forma pronominale, “confessarsi, rivelare informazioni o notizie di sé di carattere confidenziale”.

Un caso in cui il lunfardo si discosta dal cocoliche è quello rappresentato dal verbo manyar (< italiano, “mangiare”), in cui mentre il secondo conserva l’area semantica, il primo lo accoglie nel proprio lessico riferito a un processo strettamente intellettuale con la valenza di “comprendere, sapere, accorgersi”. In questo slittamento semantico probabilmente ha influito l’esistenza dell’espressione italiana mangiare la foglia, che significa “intuire le intenzioni subdole di qualcuno”, “capire una cosa al volo, intuire in anticipo, evitando in questo modo un pericolo”, detto che deriva dall’osservazione del comportamento animale nelle civiltà contadine: l’olfatto sviluppato e l’abitudine permettono alle vacche, per esempio di distinguere le foglie e i tipi d’erba buoni da quelli dannosi.

Allo stesso modo mufa (dall’italiano “muffa”, con scempiamento della fricativa; moho in spagnolo) conserva in cocoliche intatto il significato, mentre in lunfardo passa a “cattivo odore” e, quindi, a “malumore, fastidio”. Tener mufa, inoltre, significa “avere sfortuna, sentirsi frustrato”.

La parola laburo (originariamente da lavuru, siciliano) ha significato identico all’italiano nel cocoliche e nello spagnolo rioplatense attuale, ma in lunfardo – e qui emerge la genesi malavitosa dell’argot – assume parimenti il significato di “furto, rapina”. La malleabilità semantica permette poi lo sviluppo di una serie di significati metaforici collaterali come: se labura la mina (“si sta lavorando la ragazza”, cioè la corteggia) e estudiar es un laburo (“studiare è una fatica”).

Un’altra espressione interessante è dar la biaba (dal piemontese, biava, cioé “biada”), che significa “assaltare a mano armata, malmenare qualcuno”: così la ritroviamo nei commediografi Pacheco, se encontrarà con la biaba, cioé “avrà un brutto incontro”, e in Buttaro, “biada linda se hubiera morfato”, “gli avrebbero dato una bella lezione”.22

Inoltre, va detto che, mentre il cocoliche è caratterizzato da una grande espressività e ricchezza, come dimostra la grandissima presenza di allotropi lessicali (trabacar, lavorar, laburar, fatigar) usati per esprimere un medesimo concetto (“lavorare” in questo caso); il lunfardo conserva, invece, un rigore lessicale molto più definito, perché la sua terminologia si basa sul consenso collettivo dei significati come, ad esempio, la polisemia e l’ampia gamma delle coloriture espressive.

Chi parla lunfardo generalmente è ispanofono: conosce anche il corrispettivo termine in castigliano e quella che adotta è una precisa e consapevole scelta espressiva tra due possibilità esistenti – userà lo spagnolo in un contesto neutrale, il lunfardo in contesti legati alla sfera della delinquenza.

L’immigrato italiano che parla cocoliche, dialettofono di nascita, invece è condizionato dalla propria ignoranza; non conosce o non ha un dominio sufficiente della lingua spagnola e il suo modo di esprimersi altro non è se non l’ammirabile e inventivo arrangiamento linguistico che nasce dalla necessità di esprimersi e farsi capire.

In conclusione, possiamo dire che l’impronta dell’immigrazione italiana risulta oggi evidente in molti campi della vita e cultura argentina, dalla gastronomia allo sport, dal teatro alla letteratura, dalla toponomastica agli italianissimi cognomi di tanti argentini, dai canoni estetici alle piccole e grandi tradizioni o consuetudini sociali e familiari. Ma è senza dubbio il dato linguistico a rappresentare la parte più cospicua dell’eredità dei nostri antenati oltreoceano: è questo il legame più forte tra le due nazioni, un lascito non solo culturale, ma anche emotivo.

L’influenza italiana sul teatro argentino: il Sainete

La presenza indiscutibile degli italiani in Argentina ha influenzato non solo l’ambito linguistico ma anche l’evoluzione del teatro popolare rioplatense, dove il cocoliche ricordiamo ha rivestito un ruolo molto importante.

Nato in origine come lingua orale, alcuni autori, negli anni Ottanta dell’Ottocento, lo hanno utilizzato nelle opere teatrali del genere sainete.

Il sainete è un tipo di teatro popolare nato in Spagna facente parte del género chico (genere “piccolo” o corto). Generalmente, è uno spettacolo di solo un atto, comico e allegro, la cui trama riguarda un conflitto d’amore e si conclude con un lieto fine.

Arrivato in Argentina grazie agli immigranti spagnoli è diventato rapidamente un aspetto importante del teatro nazionale argentino rappresentando un’alternativa al teatro delle élites: la stessa divisione culturale esistente fra classi alte e quelle basse si era riprodotta, infatti, anche nell’ambito del teatro. Ad esempio, a Buenos Aires, il Teatro Colón metteva in scena opere raffinate con i cantanti e i musicisti più famosi d’Europa attirando un pubblico ricco e aristocratico. In modo contrastante, teatri come il Pasatiempo mettevano in scena, per un pubblico popolare, spettacoli come i drammi del género chico spagnoli. È proprio quest’ultimo teatro che ha rivestito notevole importanza per la storia del sainete. Nel 1889, il Pasatiempo è stato diviso in tre sale diverse e ognuna di esse metteva in scena uno spettacolo, e così altri teatri cominciarono a fare la stessa cosa, creando sale indipendenti dentro il proprio teatro. L’aumento di richieste di spettacoli ha permesso, pertanto, alla forma teatrale del sainete di svilupparsi velocemente.

Il sainete è un’opera teatrale divertente, che rispecchia comicamente la vita degli immigrati nei conventillos, offrendo una testimonianza di come vivevano le classi più povere. Nel sainete venivano riprodotti i loro stili di vita, la loro quotidianità e le abitudini arrivando a essere considerato come una risposta immediata alle preoccupazioni, alle lotte e alle storie degli spettatori.

Per esempio, uno dei primi sainetes scritto da Nemesio Trejo, Los óleos del chico (Il battesimo del ragazzo) rappresenta in maniera allegorica la nascita dell’Argentina moderna mettendo in scena la vita della classe operaia, i problemi connessi agli alti affitti e ai bassi salari. In un altro sainete famoso di Trejo, Los Inquilinos (Gli inquilini), viene messo in scena lo sciopero degli inquilini, detto anche lo sciopero delle scope, contro l’aumento degli affitti nei conventillos, fatto realmente accaduto nel 1907.

La figura dell’immigrato italiano è entrata nel sainete con gli spettacoli della compagnia dei Fratelli Podestá. I Fratelli Podestá erano un gruppo di attori rioplatensi fondato proprio dai fratelli della famiglia Podestá, figli di immigrati genovesi che sono giunti a Buenos Aires ma poi trasferitisi a Montevideo, in Uruguay.

La loro compagnia dominava il genere teatrale del circo criollo che, negli anni Ottanta e Novanta, legava il circo al sainete. Nel 1884 la compagnia mise in scena uno spettacolo pantomimo che raccontava la storia di Juan Moreira, un romanzo famoso scritto da Ricardo Gutiérrez nel 1879 e, proprio per l’occasione, José Podestá scrisse un copione per lo spettacolo. Nel 1888, il personaggio più famoso che José Podestá avesse mai creato entrò nello spettacolo: si trattava di un personaggio che parlava attraverso il cocoliche, ovvero Pepino el 88.

Pepino el 88 era un personaggio buffonesco che rappresentava un italiano bozal. Il termine “bozal” si riferisce ad un immigrante che non ha una completa padronanza della lingua locale, e per questa incapacità di parlare parla il cocoliche suscitando umorismo nel pubblico.

Lo spettacolo di Juan Moreira e l’interpretazione del Pepino el 88 di José Podestá hanno avuto il merito di diffondere la figura dell’immigrato italiano e del suo cocoliche che assunsero una rilevanza significativa nel sainete, diventando una parte fondamentale di questo tipo di rappresentazione teatrale. La rappresentazione dell’immigrato italiano era principalmente negativa e stereotipica. L’italiano è rappresentato come uno straniero, uno diverso dagli altri, che cerca di integrarsi nella società locale ma viene visto per lo più come un soggetto estraneo al tessuto sociale preesistente e persino elemento pericoloso per il paese stesso23.

Ed è proprio il sainete lo spazio privilegiato dello stereotipo. Vennero creati vari personaggi quali: il tano (aferesi di napoletano, che in seguito si riferirà all’emigrante italiano in generale), il quale andò a costituire uno degli assi portanti del teatro popolare; i gallegos (spagnoli) nelle varie varianti regionali: galiziani, catalani, baschi, andalusi; i turcos riferito a turchi, siriani e libanesi. Non dimentichiamo che insieme a questi stereotipi che designavano gli immigranti convivono altri stereotipi che si riferiscono agli argentini. Sono i nostri contadini settentrionali ad aver diffuso il termine sprezzante cabecitas negras (“nairot” in piemontese), cioè testoline nere, con il quale si indicava la popolazione rurale recentemente inurbata nella quale predominava il meticcio24.

Altro genere proprio del teatro argentino è il grotesco criollo caratterizzato delle opere di Armando Discépolo, genere che, come il sainete, approfondisce la tematica sociale e familiare dell’immigrato. A differenza del sainete in cui il cocoliche veniva usato per divertire il pubblico e per indicare l’archetipo parodico, nel grottesco, genere misto tra commedia e tragedia, il cocoliche assunse una nuova visione più profonda e introspettiva. Inoltre, in questo genere grottesco cambiano i personaggi: vecchi immigrati illusi, abbandonati dai figli, melanconici della propria terra, il cui uso del cocoliche diventa il tramite per esprimere pena, dolore, fallimento. Le vicende sono ambientate sempre nei conventillos e nei sobborghi di Buenos Aires e il tutto è composto da un atto che dura solitamente un’ora e mezza. L’ideatore di questo genere, come accennato, fu Armando Discépolo: significativa la sua opera Babilonia (1925), che mostra un altro aspetto della lingua dell’immigrante: qui la forma di esprimersi dei personaggi riflette una società in confusione, in cui non è possibile riconoscere né livelli né valori e dove conta solo la capacità di sopravvivere e di arraffare25.

In conclusione, è possibile dire che il teatro popolare per la classe operaia non rappresentava solo un’opportunità di divertimento o di evasione dalla realtà, ma anche un’opportunità per affrontare la realtà della vita con maggiore ottimismo e diventare, proprio come nelle rappresentazioni teatrali, i protagonisti della propria storia.

El conventillo de la Paloma”: il gergo di Don Miguel

Un autore fondamentale del sainete argentino fu Alberto Vaccarezza, nato a Buenos Aires il 1° aprile del 1886 e morto il 6 agosto del 1959. Egli scrisse più di duecento opere tra versi di tanghi, zambas (genere musicale tipico delle province del Nord argentino), canzoni, poesie, testi teatrali.

Gli elementi teatrali da lui usati erano invariabili: lo scenario delle sue opere era quasi sempre un conventillo, dove prendevano vita personaggi locali e stranieri, specie emigranti italiani e spagnoli, le collettività più numerose del paese; venivano rappresentate anche le donne, che incarnavano i due stereotipi dell’immaginario maschile del tempo: le povere e onorate e le frivole. Per ultimi, vediamo interagire sul palco anche compadritos, atorrantes, pícaros, guitarristas, ecc. (bulli, fannulloni, furbi, chitarristi, e così via).

Una delle sue opere più famose e rappresentate fu El conventillo de la Paloma, un sainete messo in scena per la prima volta il 5 aprile del 1929 nel Teatro Nacional dalla Compagnia Lamarque-Charmiello. Rappresentato per anni da diverse compagnie teatrali e portato al cinema nel 1936 con la regia di Leopoldo Torres Ríos, questo sainete fu uno dei maggiori successi di tutti i tempi del teatro argentino. Il componimento racconta la storia de La Paloma, una bella donna che vive in un conventillo e della quale sono perdutamente innamorati il resto degli inquilini. L’opera inizia con un prologo per le dame e i cavalieri del pubblico, il quale recita:

“Di nuovo dopo un lungo sonno, con il suo incanto e la sua forza ipnotica, torna il sainete porteño allegro e sentimentale. Come nelle sue notti migliori a ricamare vecchi boccioli e a ravvivare i colori della gamma naturale.”

Descrive, inoltre, Buenos Aires come la gran aldea (il grande villaggio) che “diede ospitalità naturalmente a quanti vennero a lei e dopo poco tempo si fusero nel suo crogiolo…così fu come alla luce della torcia, del lavoro e dell’idea, la lontana grande città dei sogni di Cané divenne proficua e opulenta, cosmopolita e bilingue fino ad essere quella che oggi si vede”26.

La storia si ambienta nel conventillo di Villa Crespo e si svolge intorno al personaggio di Paloma e alle notti insonni che provoca nell’intera popolazione maschile del patio del conventillo. Di lei è innamorato Don Miguel “el tano27, tipico rappresentante dell’immigrato italiano napoletano e gestore del conventillo, che litiga costantemente con Seriola, un vero porteño, con il Gallego, uno spagnolo argentinizzato e con il Turco, un venditore di fazzoletti. Il grande conflitto è prodotto dall’indignazione delle mogli che chiedono a Don Miguel di parlare con Paloma affinché possa lasciare il conventillo. Infatti, ogni volta che appare Paloma, gli uomini non esitano a dichiararle il loro amore, facendo finta che la colpevole dei loro deliri sia la stessa donna. Sembra che solo Villa Crespo mantenga la sua compostezza di fronte a lei e la tratti come una donna con cattive intenzioni. Difatti è Villa Crespo che suggerisce alle mogli di fingere di essere innamorate di lui, per provocare gelosia e risentimento nei loro mariti, e vanificare così il fascino che Paloma esercitava su di loro. Le cose si complicano quando compare Paseo de Julio, un delinquente, che vuole portare via con sé Paloma. Lei accetta di andare con lui, poiché si sente a disagio e rifiutata dal gruppo del conventillo, perché è una donna libera e civettuola. È qui che finalmente Villa Crespo intercede davanti al delinquente e difende Paloma affinché rimanga con loro, dichiarando il suo amore per lei.

Come abbiamo già detto, in questo sainete è Don Miguel il personaggio italiano e nel suo modo di parlare ci sono aspetti del cocoliche: nelle parole, nei verbi, e nella grammatica. Per esempio:

– Don Miguel usa la parola “zorromaco,” che in cocoliche sta per corazón (cuore);

– Usa la parola “cazzotto,” una parola italiana, invece della parola spagnola (golpe);

– Lui dice: “¡Siete…lo animale più bruto che hai visto al mondo.” Un gioco linguistico con il numero “siete” (‘sette’ in spagnolo) e la forma “voi” del verbo italiano “essere”;

– Aggiunge la lettera “e” alla fine dei verbi per italianizzarli, come “hablare” (invece del verbo spagnolo “hablar”), “prevenire” (invece dello spagnolo “prevenir”), e “ire” (usato per “andare” invece dello spagnolo “ir”)28;

– Don Miguel, per l’appunto, utilizza nella stessa frase parole italiane e spagnole ad esempio: “Que lo hai visto”, “He llegado a la conclusione”, “ma como”, “io no me lo merezco” ecc…;

– Pronuncia esclamazioni come “Achidenti”.

L’importanza del Conventillo de la Paloma sta nel fatto che riflette gli archetipi della popolazione immigrata del XX secolo, con i loro idiomi, la loro dialettica, i loro usi e costumi e, quindi, le differenze che esistevano tra le culture, in modo divertente.29

Conclusione

Come è stato rilevato da tanti studiosi dei fenomeni migratori, in nessun luogo del continente americano gli italiani sono emigrati come in Argentina, dove hanno scelto di stabilirsi nonostante le condizioni disagiate e ostili nonché le situazioni economiche non sempre favorevoli. Non è un caso se ancora oggi almeno la metà dell’attuale popolazione di questo paese porta un cognome italiano. Infatti, l’Argentina è anche la nazione nella quale la cultura italiana si è maggiormente radicata, con una particolarità sconosciuta a tutti i movimenti migratori degli ultimi due secoli, a tal punto che l’italianità – che aveva messo in discussione l’identità nazionale argentina – è poi entrata a tutti gli effetti a far parte della cultura argentina.

Agli argentini va riconosciuto che essi non sono mai caduti nel rischio di considerare gli atti di devianza compiuti da cerchie ristrette di italiani, spesso oggetto di rappresentazione nel sainete, come il segno distintivo di una intera collettività. In questa realtà si conferma che il successo dei meccanismi di inclusione avviene grazie all’incontro di due volontà collettive, quella degli autoctoni e quella degli immigrati.

L’influenza esercitata dalla presenza italiana in Argentina è, dunque, ineguagliabile, non ha termini di paragone in nessun altro paese e l’italianità – non solo nell’ambito della lingua, grazie al cocoliche e al lunfardo, ma nell’indole, nel teatro, negli usi e costumi, nella cultura in generale – è percepibile in ogni parte del territorio argentino, a dimostrazione della possibilità di arricchimento culturale reciproco in contesto migratorio.

In conclusione, tenuto conto che in nessun posto gli italiani sono andati e sono rimasti come in Argentina, è possibile affermare che l’immigrazione italiana ha nel complesso forgiato l’identità culturale collettiva.

L’auspicio è, dunque, che questa esperienza insegni come le migrazioni abbiano avuto, hanno ed avranno sempre un ruolo fondamentale nello sviluppo dinamico e di rinnovamento dei paesi di accoglienza.

1 Lingua comune, con caratteri uniformi, che in una data zona si sovrappone alle varietà locali.

2 Nel teatro spagnolo, a partire dal sec. 17°, scherzo comico o farsa in un atto, di spirito popolaresco e generalm. rappresentato alla fine di un dramma o di una tragedia per sollievo degli spettatori. Enciclopedia online Treccani, https://www.treccani.it/vocabolario/sainete/

3 Il grotesco criollo è un sottogenere drammatico coltivato in Argentina e anche in Uruguay. Wikipedia enciclopedia online, https://es.wikipedia.org/wiki/Grotesco_criollo

4 “Italiano e spagnolo a contatto nel Rio de la Plata. I fenomeni del cocoliche e del lunfardo”, a cura di A. Cancellier, R. Londero, in Convegno Associazione ispanisti italiani (italiano e spagnolo a contatto): Roma, 16-18 settembre 1999.

5 Ivi.

6 Lingua semplificata nata dall’incontro di più lingue, molto diverse tra loro, per risolvere problemi di comunicazione negli scambi commerciali. Il suo uso è dunque temporaneo e precario, di conseguenza non costituisce la lingua nativa di nessuno.

7 D. Fedele, “L’Argentina degli italiani: viaggio tra cocoliche e lunfardo”, https://www.fhuc.unl.edu.ar

8 D. M. Daccò, “L’emigrazione italiana in Argentina (Parte II)”. [N.T.: “discorso unilaterale, risultante dagli sforzi di individui o gruppi di individui per riprodurre, quando è necessario, una lingua di maggior prestigio sociale in una data situazione.”], https://mattiolihealth.com

9 P. Giunchi, Il destino della lingua italiana in Argentina e i risultati della sua fusione con lo spagnolo, in L’italiano e oltre, 1986, vol. 1, fasc. 3, p. 131, https://giscel.it/wp-content/uploads/2018/09/Italiano-e-oltre-n-3-1986.pdf, (accessibile online anche sul sito laterra.org).

10 Ivi.

11 D. M. Daccò, “L’emigrazione italiana in Argentina (Parte II)”, https://mattiolihealth.com

12 Ivi.

13 Conventillo (dal diminutivo di convento) è il nome dato a un tipo di abitazione urbana collettiva, nota anche come “locazione”, in Argentina, Uruguay, Cile e Bolivia, e “casa popolare” in Spagna.

14 E. Fraga, La prohibición del lunfardo en la radiodifusión argentina 1933-1953, Buenos Aires, 2006.

15 Il termine porteño fa riferimento all’abitante della città di Buenos Aires.

16 M. Teruggi, Panorama del lunfardo, Buenos Aires, 1974.

17 O. Conde, Lunfardo, Buenos Aires, 2011, p. 41. [N. T.:” non è possibile parlare completamente in lunfardo, ma al massimo parlare attraverso il lunfardo.]

18 E. R. Del Valle, Lunfardología, Buenos Aires, 1966, p. 37. [N. T.:” non forma una parlata regionale che può essere compresa da tutti i membri della stessa comunità. È una parlata di gruppo. Appartiene a un gruppo sociale.”]

19 Cos’è il lunfardo, https://www.masquetango.com. Consultato nel Dicembre 2021.

20 M. Teruggi, Panorama del lunfardo, Buenos Aires, 1979, pp. 47-49.

21 Un folletín (dal francese feuilleton, diminutivo di feuillet, ‘foglio’, pagina di un libro) è un dramma di genere di finzione caratterizzato da un ritmo di produzione intenso, argomenti poco plausibili e semplicità psicologica.

22 D. M. Daccò, “L’emigrazione italiana in Argentina (Parte II)”, https://mattiolihealth.com

23 S. Scorcia, “L’influenza italiana sul teatro argentino. Gli immigranti italiani, il cocoliche, e il sainete”, The italian diaspora in south America, https://blogs.dickinson.edu

24 V. Blengino “Fra analogie e stereotipi: “rileggere” l’emigrazione italiana in Argentina”, Mundoclasico.com

25 D. Fedele, “L’Argentina degli italiani: viaggio tra cocoliche e lunfardo”, https://www.fhuc.unl.edu.ar

26 G. Fresu, “I migranti italiani nel teatro argentino parlavano cocoliche (mix di dialetti italiani e spagnolo)”, La macchina sognante, 31/12/2018, http://www.lamacchinasognante.com

27 Nello spagnolo rioplatense l’italiano viene chiamato colloquialmente tano.

28 S. Scorcia, “L’influenza italiana sul teatro argentino. Gli immigranti italiani, il cocoliche, e il sainete.”, The italian diaspora in south America, https://blogs.dickinson.edu

29 C. A. Accorinti, “El conventillo de la Paloma”, Espectáculos de acá, 10/04/2018, http://www.espectaculosdeaca.com


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