Il 13 novembre del 1974 moriva Vittorio De Sica, in Francia dove era andato a curarsi. Era nato a Sora, in Ciociaria 73 anni prima, ma aveva avuto nel cuore due città: Napoli dove aveva ambientato alcuni dei suoi film più celebrati e Roma dove aveva consumato tutta la sua vita, dove erano nati i suoi figli e dove aveva trasformato le sue strade in un gigantesco set dal vero per i suoi capolavori neorealisti.
Il rapporto di Vittorio De Sica con Roma fu sempre straordinario e intenso. De Sica era nato a Sora dove suo padre lavorava come assicuratore. Passò la sua infanzia a Napoli dove ebbe la prima formazione e dove contrasse un amore profondo per la città e i napoletani. Poi, dopo un breve periodo trascorso a Firenze, arrivò a Roma che era un adolescente. Roma era la città della mamma che era stata indotta dall’amore per il marito, a girovagare per l’Italia, forte sempre della promessa che un giorno, il più vicino possibile, la famiglia finalmente si sarebbe stabilita nella Capitale.
Nella vita di molti grandi artisti del nostro secolo il padre è assente fisicamente e presente con la sua assenza che pesa molto nella vita, nel carattere e nella vocazione. Come non ricordare il padre ubriacone che passa nella vita del piccolo Charlie Chaplin come una meteora, tanto che il grande attore lo menzionerà nelle sue memorie soltanto una volta, di sfuggita, per dare maggiore peso all’eroismo della mamma malata, che continua a lavorare per mantenere i suoi figli, fino a quando non uscirà di senno proprio sul palcoscenico?
Come non pensare al giovane Antonio Clemente, in arte Totò, che combatterà per tutta la vita per essere il principe Antonio de Curtis?
E il padre cercato, e mai trovato, di Anna Magnani, che portò sempre il cognome di sua madre, che poi finirà per trasmettere anche a suo figlio Luca, come a perpetuare il primato femminile sulla discendenza?
E il padre che la piccola Norma Jean, che poi prenderà il nome d’arte di Marilyn Monroe, ricordando la foto di un uomo con i baffetti che la mamma teneva vicino al letto, identificava con Clark Gable?
Il padre di Vittorio De Sica, invece, c’è e lotta per il suo ragazzo, il quale, attraverso una vita dignitosamente stentata, viene prima costretto agli studi di ragioneria e quindi avviato alla carriera di attore.
Poi a Roma, la capitale anche dello spettacolo, dove Vittorio, da bravo figliolo, si diplomò in ragioneria. Ma è sempre il padre a fargli ‘assaggiare’ le tavole del palcoscenico e a fargli sentire il ronzio della macchina da presa. Esige il diploma, gli parla di un futuro dignitoso con lo stipendio della banca ma lo sogna attore e fa di tutto perché lo diventi, fornendogli le prime occasioni.
Durante la prima guerra mondiale (Vittorio ha 14 anni quando l’Italia entra in guerra e 17 quando la guerra finisce) lo inserisce in una compagnia di dilettanti che si esibiscono negli ospedali a favore dei soldati ricoverati.
Vittorio forse canta quelle canzoni che aveva imparato a Napoli proprio dal padre che lo accompagnava al pianoforte.
E poi il debutto cinematografico nel 1918, a 17 anni, nella parte di Clemenceau ragazzo, nel film di Bencivenga Il processo Clemenceau.
“E questo è nato proprio dal bisogno di guadagnare un po’ di soldi”, racconta Vittorio, “perché papà era molto povero e non aveva soldi per iscrivermi all’Istituto tecnico Leonardo da Vinci a Roma. Bencivenga, che era il regista, aveva preso simpatia con mio padre e con me, perché io andavo in casa Bencivenga a cantare le canzoni napoletane accompagnato al pianoforte da papà.
E allora gli dicemmo: ‘Caro Bencivenga, qui non ci sono i soldi per pagare le tasse a ‘sto ragazzo’.
E lui: ‘Gli faccio fare una parte in un mio film, la parte di Clemanceau ragazzo, e così gli danno i soldi per pagare le sue tasse’.
E così mi vestirono da collegiale, io aprivo una porta, tremavo tutto e dicevo ‘mamma!’ diverse volte e mi dettero dodici lire. Per un interesse proprio amministrativo ho cominciato l’arte cinematografica”. Galeotto il signor Umberto con le sue canzoni napoletane e con il suo pianoforte.
Il 1923 è l’anno fatidico. Vittorio si è diplomato con qualche anno di ritardo – ma forse in conseguenza dei troppi spostamenti di sede e di scuola – ed ha trovato, grazie all’interessamento del padre, che, evi-dentemente, nel vecchio ufficio ha lasciato qualche amico e un buon ricordo, quell’impiego alla Banca d’Italia che dovrebbe sistemarlo per tutta la vita. Ma è qui che ritorna in ballo quel ‘tarlo’ che gli ha ficcato nella testa il signor Umberto.
L’occasione gliela fornisce un amico che gli comunica che la compagnia di Tatiana Pavlova cerca giovani generici. I1 giovane Vittorio si informa di tutto, della sicurezza del posto, della paga (è o non è un ragioniere?) e, da bravo figliolo obbediente ed ossequioso, ne parla al padre. Se il signor Umberto avesse detto di no, probabilmente, Vittorio avrebbe obbedito, avrebbe fatto la sua brava carriera in banca e l’arte italiana non avrebbe avuto uno dei suoi più importanti esponenti. Ma il signor Umberto disse di sì, con la scusa che la paga era migliore di quella che passava la banca. In realtà coronava il suo grande sogno: un figlio in arte (‘ figlio mio’ mi disse testualmente ‘ero molto triste di vederti entrare in banca…l’arte è la tua strada…ti benedico…’).
Un figlio al quale aveva insegnato a cantare, che aveva accompagnato al pianoforte, che aveva preparato ufficialmente come ragioniere ma nella cui testa aveva inculcato la passione per l’arte. Se il teatro prima e il cinema poi hanno avuto un Vittorio De Sica lo devono a lui, al signor Umberto De Sica, a Umberto D.
E Vittorio comprese il ruolo che ebbe il padre nella sua formazione : “Un poeta che concentrava su me la poesia che non avrebbe mai scritta…Posso dire per lui quel che scrisse, un giorno, Vincenzo Cardarelli : ‘vorrei credere che finché io sono al mondo, ci possa essere speranza per entrambi…’ “.
Il padre di Vittorio De Sica si chiamava Umberto. Nel film di Vittorio De Sica più amato e più sofferto e sicuramente uno dei suoi capolavori immortali, il protagonista si chiama Umberto Domenico Ferrari ma abbreviato suona Umberto D. come Umberto De Sica. Non c’è dubbio che De Sica ha voluto dedicare il suo film più amato e più sentito a suo padre, morto da più di venti anni, all’uomo a cui doveva molto più della vita. Al quale doveva anche la vocazione artistica e l’iniziazione all’arte dell’attore. Una strada che Vittorio percorse con grande naturalezza e, almeno apparentemente, senza grandi ostacoli.
SEGNALIAMO