Quando cadde il fascismo? Risposta semplice. Il 25 luglio 1943. Il Gran Consiglio, da tempo silente, emise il verdetto. Si torna da Vittorio Emanuele III. Mussolini rimette il mandato conferitogli nel 1922. Casa Savoia troverà la soluzione più adatta per mettere fine ad una guerra ormai persa.
La spallata al Ventennio, dunque, venne da protagonisti di comprovata fedeltà al fascismo e al Duce. Ma per comprendere nella giusta dimensione gli eventi, occorre tornare indietro di due settimane. Esattamente al 10 luglio. Alle prime luci dell’alba, sulla costa siciliana gli Alleati (a guida americana) sbarcano.
Le forze italiane e tedesche sono scarse. Impreparate all’evento. Oppongono resistenza. Come possono. Perlopiù si segnalano gesti di eroismo. E, nella sconfitta, comunque un successo lo ottengono: riescono a far rientrare nel continente la quasi totalità del contingente militare. Gli Alleati occupano la Sicilia. Ma ciò che determina il precipitare della situazione sono i siciliani. Salutano gli occupanti come liberatori. Per Mussolini è un colpo durissimo.
Dal 1938 si è impegnato a fondo nel tentativo di costruire, finalmente, l’«italiano nuovo», forgiato dalla «religione de Littorio». Fascista rivoluzionario. Antiborghese. Imperialista. Razzista. In lotta con le demoplutocrazie. Tutto va in frantumi. La potenza di fuoco alleata non solo sta segnando il destino della guerra.
Soprattutto ha rivelato le gambe d’argilla sulle quali si regge il gigante fascista. Luigi Freddi, futurista, interventista, legionario fiumano, sansepolcrista, marcia su Roma, dal 1934 uomo di riferimento della cinematografia (l’«arma più forte» per Mussolini), ha le idee chiare. Scrive alla moglie, Marina Chaliapin (donna bellissima, figlia del grande cantante russo), che il fascismo è finito. E a chi, come lui, vi ha creduto senza riserva alcuna (aderirà a Salò), resta solo una possibilità.
Andare in Sicilia, per trasformarla nelle Termopili. Così facendo perderà la vita, non l’onore. Quindi, ricapitolando, è dalla famosa «operazione Husky» (nome in codice dello sbarco in Sicilia) che bisogna partire per capire le dinamiche del 25 luglio. L’occupazione alleata dell’isola ha dato vita, nel corso del tempo, ad un «mito», ancor oggi difficile da smontare. In realtà la strategia e la forza militare c‘entrano poco. A manovrare e preparare il terreno ci pensò la mafia siciliana, istruita e diretta da quella statunitense. Non a caso venne contattato, prima dello sbarco, Lucky Luciano.
A ottanta anni di distanza si può affermare, con tranquillità, che si tratta di un «mito». Non ci fu nessun Grande Complotto. Non ci fu nessun accordo preventivo. Gli Alleati sbarcarono sicuri di riuscire, incontrando limitate resistenze. Una volta stabilitiei sul territorio, le autorità militari (americane) utilizzarono con spregiudicatezza, dimostrando spesso scarsa moralità, le «risorse interne», legate, in maniera solida o occasionale, alla criminalità mafiosa.
E visto che siamo in argomento, è il caso di porre sotto la giusta luce un altro «mito», un altro Grande Complotto, anch’esso duro a morire: Mussolini il 25 luglio fu tradito da spregiudicati congiurati. In realtà il Duce era a conoscenza dell’ordine del giorno predisposto da Dino Grandi. Quindi non si trattò di un fulmine a ciel sereno. Con lo sbarco in Sicilia l’Italia fascista si trovava in un cul de sac. Un secondo sbarco doveva ritenersi scontato, imminente e inarrestabile, come il primo. Chiamarsi fuori dalla guerra, firmando una pace separata, era terreno impraticabile. Hitler aveva manifestato a Mussolini il suo punto di vista irremovibile: nessun cedimento. Si vince o si perde insieme.
L’unica strada percorribile, alla luce realistica dei fatti, era quella politica. E Mussolini, sul tavolo della politica, sapeva dare le carte come pochi. Pertanto, se la sarebbe giocata a modo suo, piegandosi ad ogni compromesso, se necessario, come aveva sempre fatto, sconcertando e sbaragliando gli avversari. Non potendo fronteggiare gli invasori sul piano bellico, il tempo lo avrebbe aiutato a trovare una soluzione. Tirò fuori la carta del Gran Consiglio. Una volta presa una decisione formale – qualsiasi decisione – avrebbe trattato con Vittorio Emanuele III. Lasciare il potere non era una disgrazia. Data la piega sfavorevole assunta dalla guerra. Avrebbe abbandonato le redini per sempre? Oppure per un tempo limitato, pronto a tornare in sella? Questo non lo poteva sapere.
Aveva chiaro però che la partita sul piano bellico era persa. Restando immobile, la situazione lo condannava alla sconfitta totale. Decise così di rendere libero il gioco dei «cospiratori» (avvenuto sempre alla luce del sole). Tanto alla fine, qualsiasi fosse stato lo sbocco, lui avrebbe trattato di persona l’uscita con il Re. Così avvenne.
Quello che non poteva prevedere erano le mosse di casa Savoia. In fondo, il Duce aveva messo in piedi nel corso del Ventennio una «diarchia» sbilanciata costantemente a suo favore. Il Re alla fine aveva sempre ceduto. Quando si era impuntato, minacciando addirittura di abdicare, alla fine aveva perso il braccio di ferro.
Era successo nell’aprile del 1938, con la nomina paritaria di Primo Maresciallo dell’Impero. Una forzatura (abilmente orchestrata e gestita da Mussolini dietro le quinte) sul piano formale di scarsa rilevanza. Ma su quello sostanziale determinante, poiché poneva alla guida delle forze militari imperiali, il Duce e il Re sullo stesso piano. Persino quando erano sulla stessa linea d’onda, Vittorio Emanuele III era andato (o aveva dato la chiara impressione di andare) a «rimorchio» di Mussolini.
Come era successo nel 1922, con la marcia su Roma, e nel 1924, con la crisi determinata dal rapimento e uccisione del deputato socialista Giacomo Matteotti, Mussolini era uscito indenne e vittorioso, con pieno appoggio del Re. Anche stavolta il Duce avrebbe invischiato Vittorio Emanuele III nella sua abile ragnatela politica? Le mosse del Sovrano, mal consigliato dai suoi più stretti collaboratori politici e militari, si dimostrarono purtroppo insensate e prive di logica. Talmente gravi da trascinare l’Italia sull’orlo del baratro.
L’arresto del Duce, senza capacità di gestirlo. La resa vergognosa dell’8 settembre, col cambio di casacca. La guerra civile. Ma questa è un’altra storia. Complessa e tremenda al tempo stesso.
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Commenti
Una risposta a “L’OPERAZIONE HUSKY”
analisi lucida e condivisa