L’ORA DELLA SCELTA: POST-DEMOCRAZIA O NUOVA DEMOCRAZIA LIBERALE?

di Franco Raimondo Barbarella

A me pare che, nonostante la quantità e la ricchezza di pubblicazioni ormai disponibili, la riflessione sulla crisi della democrazia liberale connessa con le trasformazioni dell’era digitale e soprattutto sulle strategie di reazione possibili e necessarie, sia solo all’inizio. Perciò, mentre fanno senz’altro bene Guido Vitiello e Massimo Adinolfi a ricordarci, sulla scorta di Mc Luhan, l’uno che “la Tecnica non è un monolite”, l’altro che appunto “non è mai esistita una cultura che abbia compreso l’infrastruttura tecnologica che l’ha resa possibile”, è quanto mai utile dire che comunque le conseguenze della diffusione e della rapidissima evoluzione delle tecnologie digitali sui sistemi democratici appaiono già in questa fase enormi.

In sostanza Vitiello e Adinolfi ci dicono che, siccome “il mezzo è il messaggio”, variando il mezzo varia il messaggio, e poiché i mezzi della comunicazione digitale sono diversi, diverso sarà il messaggio e la sua capacità di incidere nelle decisioni degli individui. Perciò non conviene preoccuparsi, quanto piuttosto capire il da farsi.

Vitiello richiama a riprova la differenza di impatto della radio rispetto alla televisione: Hitler, efficace prodotto radio, sarebbe miseramente crollato in tv. Diceva Mc Luhan: “Tutto ciò che alla radio suonava così importante e serio, in televisione sarebbe stato solo comico”.

Bene, sarà senz’altro così, mezzi diversi, conflitto di messaggi inevitabile. Ma questo di per sé ci rassicura? Penso di no, e non solo perché, come riconosce lo stesso Adinolfi, comunque “non sappiamo dove ci porterà il digitale”, né solo perché non è così assurdo ricondurre alla formula del “modernismo reazionario” di Jeffrey Herf certe idee e certi comportamenti già in atto nel mondo degli oligarchi della Silicon Valley, ma per un’altra ragione fondamentale, che ha a che fare con l’essenza stessa della democrazia.

Si tratta della vastità, della pervasività, e soprattutto della velocità delle trasformazioni che il complesso delle tecnologie digitali, come mezzi di applicazione totalizzante ormai già non più dell’Intelligenza Artificiale, ma delle Intelligenze Artificiali, determina in ogni aspetto dell’organizzazione sociale e della vita individuale senza che le singole persone poste fuori dagli ambiti di controllo del potere algoritmico né siano in grado di comprendere né siano in condizione di prendere decisioni libere da influenze esterne condizionanti.

Già oggi esempi noti di diverso tipo e di diversa importanza testimoniano di un pericolo incombente di uso spregiudicato del potere tecnologico per condizionare se non per determinare l’esito del momento più importante in cui il cittadino è chiamato ad esercitare il potere affidatogli dalla costituzione, quello del voto, che per definizione è democratico solo se è libero, e è libero solo se esercitato in quanto informato. Luigi Einaudi diceva, e Marco Pannella sempre ricordava, la formula “conoscere per deliberare” come sintesi suprema di esercizio responsabile del potere democratico. Non sembra però che questa sia la linea di Donald Trump né che questo preoccupi più di tanto i dirigenti politici sia europei che italiani.

Se ne preoccupano invece alcuni intellettuali particolarmente riflessivi, che proprio in questi giorni di passaggio d’anno e in vista della cerimonia di insediamento del nuovo presidente USA hanno scritto cose piuttosto allarmate. Mi riferisco ad esempio agli interventi sia di Michael Walzer e di Carlo Galli che soprattutto da ultimo a quello di Ezio Mauro.

È proprio Mauro infatti che esprime la posizione più preoccupata per il tipo di potere che la presidenza Trump viene oggettivamente a configurare: “Un potere che non deve più rendere conto del suo operato, perché non esercita il governo ma adempie una missione”. Da qui la conseguenza: “L’inauguration day non riguarda soltanto il mandato presidenziale ma dagli USA parla al mondo, annunciando una nuova era che prenderà il nome di post-democrazia”.

Non so se l’espressione post-democrazia colga esattamente il cambiamento in atto, e soprattutto non so che cosa possa voler dire questo indicare un dopo o magari un oltre senza ulteriori indicazioni. Una suggestione, forse solo una suggestione, ma di sicuro sufficiente per prospettare la forza trasformativa del rapporto diretto che le tecnologie digitali stabiliscono con il sistema politico nel momento in cui si attua l’unità politica e operativa Trump-Musk (rafforzata anche dall’arrivo, sembra, di Mark Zuckerberg) e proprio questa accoppiata giunge al vertice del potere della nazione ancora più potente del mondo.

Tutto poi appare più chiaro, e nel contempo più preoccupante, se dovesse prendere stabilmente corpo il disegno che da diverse parti (ultimi il cancelliere in pectore Friedrich Merz e il presidente in carica Emmanuel Macron) viene attribuito a Elon Musk: la formazione di una nuova “internazionale reazionaria” (c’è chi la chiama anche “internazionale complottista”) mediante il sostegno in Europa ai settori della destra estrema e antieuropea, da Tommy Robinson (dopo aver addirittura scaricato Nigel Farage) a Marine Le Pen, da Alice Weidel a Viktor Orbàn. Molte le dichiarazioni di allarme, ma chi ha messo a fuoco in modo più chiaro il pericolo è stato il vicecancelliere tedesco, ministro dell’Economia, Robert Habeck, che ha dichiarato: “La combinazione di enormi ricchezze, controllo delle informazioni e delle reti, uso dell’intelligenza artificiale e volontà di ignorare le regole è un attacco frontale alla nostra democrazia”. Non potrebbero esserci parole più peertinenti.

Qui non siamo alla semplice ripresa e allo sviluppo del tentativo fatto all’epoca del primo Trump da Steve Bannon di realizzare un’internazionale nazionalista imperniata su difesa dei confini e riscossa dell’uomo comune. Qui andiamo ben oltre, perché l’idea è proprio quella di superare i principi e le regole della democrazia liberale visti come impacci all’esercizio del potere che, nell’epoca delle tecnologie digitali, della comunicazione diretta e dell’IA, non sopporta processi lenti, lacci e laccioli. Perciò, questo è il messaggio, fuori i corpi intermedi e via al rapporto diretto fiduciario tra capo e popolo: e che diamine, sennò perché mai avremmo inventato i social media!? Contenti i capi e contento il popolo!

Mentre non dovrebbe stupire che da quelle parti le cose abbiano preso un simile verso, un po’ di meraviglia dovrebbe esserci invece dalle parti della democrazia liberale, intendendosi con questa nozione non solo la sua espressione istituzionale e chi ne rappresenta nelle società occidentali la politica organizzata in partiti e associazioni, ma anche, e per alcuni versi soprattutto, chi ne esprime l’essenza culturale, la responsabilità della ricerca, la comprensione dei fenomeni e l’elaborazione di strategie aggiornate. Di fronte ad un attacco così pervasivo, dov’è tutto questo mondo? Quali segni sta dando? Quale è l’origine e la natura della crisi? E poi, come possiamo provare ad uscirne?

Al di là di dichiarazioni allarmate, di denunce e di reazioni sporadiche più o meno meditate, non pare che siano in atto processi lucidi di reazione strategica sia sul piano analitico che su quello operativo. E quando qualcosa si muove, accade ancora in perimetri troppo ristretti. Insomma, tutto appare più che altro un grande agitarsi per il migliore riposizionamento, avendo di fatto ciascuno che conta qualcosa accettato di convivere col vento che tira. Almeno questa è l’impressione che se ne ricava.

E tuttavia, proprio il fatto che la radicale messa in discussione della democrazia liberale, e con essa dello stesso pensiero liberale (parola questa che, come dice Michael Walzer, è aggettivo che per avere senso compiuto va accompagnato ad un sostantivo) visto come ferro vecchio dell’era analogica, avvenga nel cuore stesso della democrazia liberale e che da qui tenda ad espandersi come nuovo verbo universale, non può non stimolare da subito, per la natura dialettica della dinamica storica, una riscoperta delle ragioni profonde che, appunto storicamente, hanno portato alla nascita della democrazia nella sua forma liberale e perciò rappresentativa, e dunque all’affermazione dei sistemi democratici con le connesse conquiste dei diritti universali che, partiti dall’occidente, sono diventati patrimonio dell’umanità.

Per ripartire bisogna ancora una volta andare al cuore del problema. Come riferisce Sebastiano Maffettone in una interessante recensione sul Domenicale del Sole 24 Ore dello scorso 5 gennaio, lo fa Yasha Mounk, di cui è annunciata la pubblicazione de “La trappola identitaria. Una storia di potere e idee del nostro tempo”.

Quale è allora il cuore del problema? Secondo Yasha Mounk la crisi della liberal-democrazia trae origine dal fatto che la sinistra, a partire dal dopo Sessantotto francese, cade nella “trappola identitaria”.

Avendo respirato il clima postmoderno con la fine delle grandi narrazioni (il marxismo, il liberalismo, ecc.) e subìto il fascino di Michel Foucault con l’idea che non esiste verità che non sia anche potere, quella generazione di intellettuali e politici ne ha tratto la conclusione che il globalismo non è altro che una nuova forma di dominio del potere occidentale alla quale va contrapposto l’essenzialismo delle culture locali e dei gruppi identitari. Con la conseguenza che l’universalismo di origine illuminista viene soppiantato da un tribalismo spirituale che afferma la non neutralità dei punti di vista su temi come razza, cultura e genere, per cui “solo chi appartiene a un gruppo può parlare a buon diritto dei problemi del gruppo stesso”.

Siamo di fatto alla cultura woke e alla cancel culture, in sostanza alla riscrittura della storia a propria immagine e somiglianza, alla chiusura in recinti gruppali e con ciò alla fine della prospettiva di crescere in comunità di liberi e uguali. Difficile immaginare un clima culturale più lontano dal liberalismo e una concezione politica più antitetica alle forme della democrazia liberale.

Tirando finalmente le fila di questo lungo ragionamento, dobbiamo renderci conto che per un complesso di ragioni è da tempo in atto un attacco interno ai sistemi di democrazia liberale di tale forza che, una volta congiunto con gli attacchi esterni (come sta avvenendo), rischia di portare alla scomparsa della più elevata esperienza di convivenza umana di una storia ultramillenaria. È chiaro che la salvezza non potrà venire da chi a questa scomparsa, consapevole o meno, lavora alacremente. La speranza non può che star fuori dagli estremismi. La fonte ispiratrice non può che essere la stessa area di pensiero che gli estremismi vogliono distruggere. Quest’area, dobbiamo affermarlo con nettezza, ha un compito storico: salvare e rilanciare la democrazia, declinandola nella forma adatta all’era digitale. Lo scetticismo è d’obbligo, giacché non possiamo dimenticare che già nel 2003 c’era chi denunciava il pericolo delle tecnologie dell’informazione per l’ordine costituzionale delle democrazie. Colin Crouch in quell’anno titolava infatti non a caso un suo libro “Combattere la postdemocrazia”. Non solo non c’è stato combattimento, ma siamo giunti oggi alla situazione che ho cercato di descrivere qui. Riprendiamo allora il messaggio di Colin Crouch e combattiamo la postdemocrazia in nome della democrazia libenale. Ci vuole per questo il coraggio di un pensiero e di un’azione riformatrice decisamente radicale. I tempi dell’attesa sono finiti, hic Rhodus, hic salta!


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