Quindici/C Clio Storia del presente
Salvatore Sechi
Docente universitario di storia contemporanea
Anticipiamo la relazione che il nostro collaboratore, Prof. Salvatore Sechi, terrà presso la Facoltà di Economia aziendale dell’Università di Torino in occasione dell’incontro organizzato in stretta collaborazione dall’Associazione Res Publica di Mondovì, presieduta dal prof. Antonio Maria Costa, per le celebrazioni del Centocinquantesimo anniversario della nascita di Luigi Einaudi.
21 ottobre 2024
Per il funzionamento dell’economia gli ultimi 15-20 anni sono stati un periodo di forte turbolenza.[1] Lo sono anche quelli più recenti in presenza di due guerre in corso. Ha senso, quindi, chiedersi come avrebbe reagito Luigi Einaudi, quali ricette avrebbe applicato al corpo malandato dell’economia. Egli, infatti, visse il periodo di alte tensioni, funestato anche da diversi conflitti mondiali, che dall’età giolittiana arrivò al ventennio fascista, con in mezzo la crisi disastrosa del 1929. Resta valida, inoppugnabile, la sua concezione della concorrenza:
“L’economia di concorrenza vive e dura, data l’indole umana, solo se essa non è universale; solo se gli uomini possono, per ampia parte della loro attività, trovare un rifugio, una trincea contro la necessità continua della lotta emulativa, in che consiste la concorrenza. Il paradosso della concorrenza sta in ciò che essa non sopravvive alla sua esclusiva dominazione. Guai al giorno in cui essa domina incontrastata in tutti i momenti e in tutti gli aspetti della vita! La corda troppo tesa si rompe. L’uomo, iugulato dalla febbre della lotta, invoca un’ancora di salvezza, qualunque ancora, persino quella collettivistica. Egli sa di perdere qualsiasi libertà, di diventare schiavo del più spaventoso padrone che la storia abbia mai veduto, il tiranno collettivo, che non ha nome, che è tutti e nessuno, e stritola gli individui per ridurli a meri strumenti del mito chiamato volontà collettiva. Ma già prima erano meri strumenti. Che cosa sono infatti gli uomini ridotti ad esecutori della volontà di una forza cieca che si chiama concorrenza, mercato, prezzo uguale al costo?“[2].
Sono riflessioni svolte nella fase finale del fascismo. Einaudi sta per essere sistemato su un aereo e dalla Svizzera trasportato a Roma per fare il governatore della Banca d’Italia.
L’attualità dell’idea di liberismo di Luigi Einaudi
Questa messa a punto dell’idea di liberismo di Einaudi torna, ed è cruciale, indispensabile di fronte alla campagna demolitrice e anche falsificatrice scatenata dal neoliberismo. Si imputano all’intervento dello Stato e alla quasi progressiva scomparsa del mercato. i danni, gli sfasci, la corruzione, lo stato di imballo-regressione dell’economia.
Non insisto su questi aspetti. Essi fanno parte della narrazione e del dibattito aperto dal saggio di Michele Salvati e Norberto Dilmore Liberalismo inclusivo[3], dalla rivista bolognese Il Mulino e dal quotidiano Il Foglio ad opera di Angelo Panebianco, Carlo Stagnaro[4], Nicola Rossi, Lorenzo Capone e altri.
Si sostiene da parte di alcuni che l’Italia farebbe parte dei Paesi in cui le politiche neoliberiste hanno prodotto risultati positivi limitati, mentre in molti casi le misure intraprese hanno inasprito antiche diseguaglianze ed esacerbato problemi esistenti.
Ci sono stati episodi, col governo Prodi, di deregolamentazione e di privatizzazioni. Ma essi in diversi casi non furono utilizzate per aumentare l’efficienza produttiva o ne traessero beneficio i consumatori. Forse vale la pena di chiedersi se non siano servite a favorire gli interessi del produttore/dei produttori nazionali.
Per esempio, la famosa legge Mammì, pur disciplinando – dopo quasi un quindicennio di assenza assoluta di regole – il mercato delle frequenze televisive, si limitò nel 1990 a fotografare il duopolio Rai-Fininvest venutosi a creare nella prima metà degli anni Ottanta, senza creare un settore audiovisivo pluralistico e competitivo, imponendo peraltro per la prima volta alcuni vincoli e costi (a cominciare dall’obbligo di trasmettere quotidianamente in diretta il telegiornale) che costringeranno negli anni successivi le imprese di Silvio Berlusconi a un drastico risanamento per opera di Franco Tatò per uscire da una non facile situazione finanziaria e alla costituzione del polo televisivo intorno a Mediaset.
Prendiamo un secondo esempio: la privatizzazione delle concessioni autostradali. Che cosa hanno prodotto se non elevati profitti per le società che le ricevettero? oppure si vogliono dimenticare i disastri e le tragedie (quella del Ponte Morandi a Genova) e parlare di un sub-investimento strutturale?
Formulo due ultime domande: le liberalizzazioni di Pier Luigi Bersani le famose “lenzuolate” del secondo governo Prodi) ebbero un effetto positivo per il consumatore, ma si vuole davvero compararli ai progressi di altri Paesi europei?
E si vuole spacciare il fondo di 20 miliardi di euro del decreto Salva risparmio o Salva banche, istituito dal Governo Gentiloni per la ricapitalizzazione di istituti di credito in crisi, in primis Monte dei Paschi di Siena, come un favore ai ricchi vampiri di stato, mentre una parte della popolazione boccheggiava in forme diffuse di indigenza?
Da qualche tempo la concezione del liberismo einaudiana viene deformata fino a ridurla ad una sorta di arma o di moltiplicatore per fare soldi, circoscrivere lo Stato in perimetri spazi minimi e accumulare, ricchezze.
Ebbene, Luigi Einaudi non ci sta proprio in questo figurino. A dimostrarlo è l’affermazione più volte ripetuta dall’economista piemontese secondo cui l’attività economica non era il disbrigo di una prassi commerciale per far rendere l’investimento. Aveva come obiettivi primari l‘uso più produttivo e dei beni nell’interesse della comunità.
Con lo spirito selvaggio dell’arricchimento che cosa ha a che fare questo radicalmente nuovo approccio dell’economia fondato sul codice etico, sulle prescrizioni morali, cioè sull’insieme dei valori e le regole di Einaudi?
Egli è stato sempre ben preciso sul liberismo. Non era una dottrina economica, ma una tesi morale. Detto diversamente, la libertà economica, la concorrenza deve sapersi correlare fino a identificarsi con la coesione sociale.
A partire dal presupposto del liberismo come valore etico (un aspetto che egli non si stancò di ribadire in più occasioni), Einaudi arriva a sostenere che, in assenza di un limite (o trincea come amò chiamarla durante il fascismo) all’ansia, all’ossessione quotidiana per la concorrenza, all’emulazione, eccetera, l’economia della concorrenza finisce per rivoltarsi contro la stessa società, e trasformarsi in una forma di collettivismo che rispetto a quello sovietico, sarebbe senza valori.
La febbre della lotta può indurre gli uomini
“a cercare un’ancora di salvezza, scrive Einaudi, persino quella collettivistica”.
Pertanto, nel commentare un saggio dell’economista cattolico tedesco Wilhelm Ropke (fautore di una ‘terza via’ tra capitalismo liberale e comunismo) fissa un principio basilare:
“La sostanza vera dell’economia di concorrenza, al pari del liberalismo politico, non sta nella concorrenza, ma nel limite, nei vincoli posti alla concorrenza”.
Il profitto era il risultato direi di una vera e propria visione quasi soteriologica. Era la declinazione del principio di libertà come valore universale per il quale la collaborazione di tutti esigeva l’eguaglianza per tutti dei punti di partenza, in modo che non ci fossero selezioni preventive, e in modo che a vincere fossero i migliori, i più competenti e innovativi, e non i più ricchi.
Il fascino per l’anti giolittismo e le proposte liberiste del primo governo Mussolini
Come gran parte degli economisti (Maffeo Pantaleoni, Umberto Ricci, Alberto De Stefani, suoi amici e colleghi), del fascismo subì il fascino iniziale, per l’anti-giolittismo e le proposte liberiste che il primo governo Mussolini proclamava.
Sostenne il “listone” alle elezioni, ma dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti nel 1924 seppe raccompagnare all’indignazione il coraggio delle dimissioni.
Quella per Mussolini non fu una fascinazione, ma un giro di valzer. Trattò la sua attività di governo criticamente come aveva fatto con Giovanni Giolitti.
Non, si può, però, ignorare quanto diverso fu il giudizio sul fascismo del suo maggiore allievo e intransigente antifascista fin dal primo momento, Piero Sraffa. Provo a formularlo con le parole che il giovane economista torinese usò nella sua conferenza sul corporativismo che nel 1926 tenne a Cambridge in un centro ristretto di keynesiani.
Ad avviso di Sraffa la domanda importante da farsi era la seguente: cioè
“se il fascismo è un prodotto anormale della psicosi post-bellica, che si attaglia solo sulle condizioni locali italiane, o se esso rappresenti un risultato logico e inevitabile delle moderne società industriali”[5].
L’opposizione democratica cioè liberali, socialisti e cattolici, nel primo periodo del fascismo, ha preso la prima posizione.
Sono rimasti
“in fiduciosa attesa della caduta del fascismo, che avrebbe dovuto realizzarsi appena la gente fosse rientrata in sé. Il fascismo sarebbe a quel punto passato senza lasciare tracce permanenti, tutto sarebbe tornato al sistema liberale, e l’ordine naturale delle cose sarebbe tornato esattamente quello dei vecchi tempi”[6].
Sraffa, a dire il vero, prospetta anche un’altra eventualità. Se, scrive avendo per pubblico la migliore squadra di studiosi e docenti, il fascismo
“effettivamente ha rappresentato l’ultima linea di resistenza su cui l’ordine sociale attuale deve ricadere al fine di difendersi contro gli attacchi del lavoro organizzato, se in effetti esso è l’unico metodo per consolidare le basi del capitalismo quando esso abbia raggiunto uno stadio in cui non è più possibile conservarlo senza rompere le forme della democrazia politica, allora gli sviluppi del fascismo avranno molto maggiore interesse in quanto essi rappresentano forse un’anticipazione dei risultati cui il capitalismo può portare negli altri paesi”[7].
Ancora oggi la formulazione di questi dubbi è rimasta inascoltata oppure affidata ad una prassi politica. I comunisti, infatti, dopo la loro esclusione dal governo presieduto da Alcide De Gasperi nel 1947, hanno esorcizzato fino all’entrata in campo del movimento di Silvio Berlusconi la nascita di ogni formazione politica capace di diventare membro della coalizione di governo guidata dalla Dc. Venne spacciata come un apporto di destra, cioè come il fascismo che torna.
Da grande problema storiografico la domanda di Sraffa è stata degradata, senza mai citarla, a manovra di querelle politica contingente, cioè ad una prescrizione.
Con questo uso banalmente strumentale veniva evitato un giudizio adeguato, cioè storiografico e di alto livello sul fascismo. Al punto che la Fondazione Istituto Gramsci dal momento in cui Togliatti suggerì l’argomento o ne venne interessato come possibile relatore, non è mai riuscita a realizzarlo, cioè a farne un convegno.
In questo modo ha evitato sia di sostenere sia di negare che il ventennio fu una rivoluzione, l’unica avvenuta in Italia dopo il 1861.
Un economista liberale seguace del marginalismo
A differenza di Piero Sraffa, Luigi Einaudi era un economista liberale, seguace del marginalismo. Pertanto, non dubitò che, lasciato alla dinamica delle proprie forze interne, il mercato avrebbe ritrovato il suo equilibrio. Non credette nella crescita e nello sviluppo, che solo la moderna teoria economica (recepita in Italia tardivamente)[8] seppe porre al centro dell’analisi economica.
Egli volle privilegiare come un motore sicuro la formazione del risparmio. È un aspetto che lo accomunava a John Maynard Keynes, dal quale peraltro dissentiva su diversi punti.
Questo invito al risparmio lo riprendo da un passo del 1932:
«Nell’uscire da lunghi anni di intossicazione di ricchezze facilmente acquistate, di grandigia nello spendere e nello sfoggiare, di investimenti azzardati, di gara nel moltiplicare in ogni paese doppioni produttivi, non par dubbio che il consiglio debba essere di risparmiare, di ridurre il piede di casa, di essere guardinghi e prudenti nell’investire. In passato ad agire così, secondo le norme tradizionali della prudenza, bene si operò e si riuscì a guarire l’ammalato. Perché oggi si dovrebbe cambiar metodo?»[9].
La denuncia dello statalismo contro Giolitti e poi contro il fascismo
Giovanni Giolitti e Luigi Einaudi
Ugualmente tenace e direi paradigmatica fu la sua battaglia – prima contro Giolitti e poi contro il fascismo – nel denunciare il cosiddetto statalismo, cioè la progressiva riduzione del mercato e della libera concorrenza, a favore dell’intervento massiccio dello Stato nell’economia dopo il 1925.
Il suo paradigma fu, però, la concorrenza, che considerò il criterio fondamentale della teoria neoclassica (in cui si riconosceva) e della teoria classica. Lo assunse come una sorta di faro che, nella teoria e nella prassi, illuminava il buon funzionamento o meno del sistema della produzione e dello scambio:
«Senza la frusta della concorrenza, la quale pre mia i migliori e fa fallire i disadatti, il progresso economico non ha luogo»[10].
Dell’economia fascista si occupò come aveva fatto con quella giolittiana, cioè esaminando i singoli, i problemi, le istituzioni, le proposte, la legislazione.
Fu attento a non enfatizzare la posizione della nostra economia. Ebbe una dimensione, e un ruolo molto piccolo nel contesto dell’economia internazionale, e rassegnata a essere sempre sulla difensiva in politica commerciale, poco o meno esposta alle fluttuazioni industriali e finanziarie.
Seppe ricostruire e valutare le radici dell’instabilità dell’economia internazionale che sfociò nella crisi del 1929 (cioè debiti, riparazioni ritorno all’oro a parità sopravvalutata).
Mostrò grande fiducia nel sistema dei prezzi per uscire dalla crisi. Ma non seppe valutare, e denunciare, il controllo politico sui salari e neanche la necessità del sostegno della domanda globale. Il keynesismo non fu proprio moneta corrente.
Quale fu la performance dell’economia italiana durante il fascismo rispetto al periodo giolittiano e a quanto si poteva rilevare in altre economie, è ancora argomento di discussione.
Il vicegovernatore della Banca d’Italia, che è anche un grande storico dell’economia, Pierluigi Ciocca, l’ha definita una performance mediocre. Ma ha riconosciuto a Luigi Einaudi di essere stato tra i pochi economisti a rendersi conto del carattere ineluttabile di due provvedimenti del fascismo: cioè la rivalutazione della lira attuata dopo il 1925 e l’importanza dell’opera di ricostruzione svolta dallo Stato con la creazione nel 1933 dell’IRI (da Einaudi ritenuto un istituto temporaneo) e nel 1936 con la legge bancaria,
Anche per i governi precedenti, guidati da un suo grande conterraneo, Giovanni Giolitti, il destino era segnato. Non mancò mai il rispetto e il riconoscimento del successo, per i provvedimenti settoriali, gli interventi specifici presi, per quanto bollati come illiberali.
Prima del panorama di disfacimento del nostro sistema bancario (redatto da un allievo di Einaudi come Piero Sraffa), fu il suo maestro a usare la stampa del Regno Unito per parlare poco bene, anzi assai male, del loro paese.
La collaborazione con The economist
Ma un apprezzamento più vasto nei confronti di Giolitti rimase sempre sulla penna. Il rilievo critico, oltre al mancato investimento nella concorrenza e all’esecrata estensione dei poteri dello Stato, fu la politica dell’attesa, della dilazione, del continuo rimandare le decisioni alle calende greche. Ebbene, per Einaudi proprio questa, cioè
«la politica prediletta dall’on. Giolitti, del rinvio, talvolta aggravava il male»[11].
Alle pagine del settimanale The Economist – riproposte da Roberto Marchionatti[12] – affidò agli inglesi e al mondo colto l’immagine da lui coltivata del l’uomo di Dronero. Non aveva grandi convinzioni, non era un grande statista[13], ma un uomo di settant’anni dai capelli bianchi desideroso solo del quieto vivere.
L’essere governati da un premier con queste caratteristiche, e in assenza di un sistema poco o nulla concorrenziale, poteva sfociare anche in alti profitti certamente utili per il consolidamento meramente finanziario della singola impresa. Per Einaudi altra e diversa cosa, che fece difetto a Giolitti, fu una politica economica dal gran disegno che, cioè, generasse crescita. Implacabile è l’accusa di avere prodotto tutt’altro, cioè ristagno.
Mi pare opportuno circoscrivere questo giudizio negativo, cioè storicizzato. In un capitalismo che producesse crescita e sviluppo non credevano i seguaci (cioè la maggioranza assoluta degli economisti italiani, compreso Einaudi) del marginalismo. Lo stesso Joseph Schumpeter
“restò a lungo eccentrico nel suo interesse per la gran dinamica, lo sviluppo, le sorti ultime del capitalismo. La teoria moderna della crescita è più tarda. L’economia italiana aveva mancato in precedenza, e avrebbe talvolta mancato in seguito, di volgere in sviluppo tendenziale le fasi di ripresa e di espansione della economia mondiale”[14].
C’è un accordo con la maggior parte degli studiosi nel sostenere che nella storia dell’Italia unita ciò è avvenuto almeno in due occasioni: la prosperità giolittiana e il «miracolo» economico post 1950.
La concorrenza si esprime, come è stato ricordato prima da Ciocca, nei mercati dei prodotti, dei fattori produttivi, della proprietà, del controllo delle imprese. Le sue manifestazioni sono microeconomiche, ma di provvedimenti specifici, di interventi settoriali.
È questo il filo ininterrotto che guida i giudizi di Einaudi nell’intero arco della sua attività̀. È questo il paradigma rispetto al quale egli con ricchezza di collegamenti empirici e istituzionali vaglia le misure che venivano prese e i comportamenti dei produttori.
Per il periodo tra le due guerre, non si può parlare, invece, per l’economia italiana, di crescita.
Questo aspetto per le sorti del capitalismo era escluso dalla teoria marginalista (alla quale aderivano gli economisti italiani migliori: Maffeo Pantaleoni, Enrico Barone, Vilfredo Pareto, Umberto Ricci) e dalla teoria moderna della crescita, come farà presente più tardi Joseph Schumpeter.
Il che significava indicare un carattere permanente dell’economia italiana, vale a dire la difficoltà, se non l’incapacità, di trasformare in un ciclo di tendenziale sviluppo i momenti (anche le fasi) di ripresa e di espansione della economia mondiale.
Su questa base fu, pertanto, fino alla Prima guerra mondiale la favorevole congiuntura internazionale, a determinare gli esiti dell’economia italiana. Ad un ruolo di natura microeconomico, cioè alle scelte della politica economica nazionale (e soprattutto alla loro allocazione) furono addebitate, invece, gli esiti negativi.
La critica del governo dell’economia, linea costante dell’analisi di Einaudi
Non c’è alcun dubbio sul fatto che Einaudi riconosceva gli aspetti positivi dei governi giolittiani, ma non c’è neanche dubbio – come emerge dal suo commento nel 1959 – che non intese mai attribuirli al leader piemontese suo conterraneo. Prosperità sì, dunque, ma malgrado Giolitti.
Quali furono le risultanze positive che egli colse nel quarto di secolo che terminava nel 1922?
Una bassa inflazione, calo dei tassi di interesse, le finanze pubbliche e i conti con l’estero in buon equilibrio, ma anche un miglioramento netto dei salari reali che si accompagnavano ad una distribuzione dei redditi meno sperequata.
Nel non negare questo successo consisteva il suo rigore e l’imparzialità che sempre lo caratterizzarono. Ma il suo volerlo ridimensionare corrispondeva alla critica prevalente del governo dell’economia che fu una linea costante dell’analisi di Einaudi come commentatore e analista fino al 1922.
Nonostante Giolitti, alla luce dei rilievi puntuali che Einaudi e i suoi illustri colleghi avevano rivolto a orientamenti e misure a loro avviso illiberali del quindicennio prebellico: «premi ai cantieri navali», «favori statali alla cooperazione», «consorzi solfiferi», «monopolio delle assicurazioni sulla vita», «contabilità scarsamente chiara», pessimo l’«esercizio ferroviario di stato».
Ma, nonostante Giolitti, anche in ragione del giudizio politico d’insieme che quegli intellettuali diedero del… più grande statista che l’Italia abbia espresso:
«not a great statesman», «not a man of strong convictions», «a white haired man of seventy desirous of a quiet life»[15].
Per Einaudi
«la politica prediletta dall’on. Giolitti, del rinvio, talvolta aggravava il male»[16].
Nota bibliografica
Pier Luigi Ciocca, “Einaudi e le turbolenze economiche fra le due guerre”, Rivista di storia economica, XXI (3) dicembre 2004, pp. 279-308.
Giancarlo de Vivo, Nella bufera del Novecento. Antonio Gramsci e Piero Sraffa tra lotta politica e teoria critica, Roma, Castelvecchi, 2017, 192 p.
Luigi Einaudi nella cultura, nella società e nella politica del Novecento, Atti del Convegno tenuto presso la Fondazione Luigi Einaudi (Torino, 16-17 aprile 2009), a cura di Roberto Marchionatti e Paolo Soddu, Firenze, Olschki, 2010, X-380 p.
Luigi Einaudi, “La crisi è finita?”, La Riforma sociale, XXXIX, voi. XLIII, n. 1, gennaio-febbraio 1932, pp. 73-79.
Luigi Einaudi, “Economia di concorrenza e capitalismo storico. La terza via fra i secoli XVIII e XIX”, Rivista di storia economica, VII (2) giugno 1942, pp. 49-72.
Luigi Einaudi, Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893- 1925), volume II (1903-1909), Torino, Giulio Einaudi, 1959, XL-845 p
“From our italian Correspondent”. Luigi Einaudi’s articles in ‘The economist’, Tomo I: 1908-1924. Tomo II: 1925-1946, edited by Roberto Marchionatti, Firenze, Olschki, 2000, LXVIII-836 p.
Michele Salvati, Norberto Dilmore, Liberalismo inclusivo. Un futuro possibile per il nostro angolo di mondo, Bologna, Il Mulino, 2021, 272 p.
[1] Intervento del 21 ottobre 2024 presso la Facoltà di Economia aziendale dell’Università di Torino in occasione dell’incontro organizzato in stretta collaborazione dall’Associazione Res Publica di Mondovì, presieduta dal prof. Antonio Maria Costa, per le celebrazioni del Centocinquantesimo anniversario della nascita di Luigi Einaudi.
[2] Luigi Einaudi, “Economia di concorrenza e capitalismo storico. La terza via fra i secoli XVIII e XIX”, Rivista di storia economica, VII (2) giugno 1942, pp. 49-72. Cfr. https://www.luigieinaudi.it/doc/economia-di-concorrenza-e-capitalismo-storico-la-terza-via-fra-i-secoli-xviii-e-xix1/.
[3] Michele Salvati, Norberto Dilmore Liberalismo inclusivo. Un futuro possibile per il nostro angolo di mondo, Bologna, Il Mulino, 2021, 272 p.
[4] Direttore ricerche e studi Istituto Bruno Leoni
[5] Piero Sraffa, “The Corporative State”, in Sraffa Papers D2\2, ora in traduzione in lingua italiana in Giancarlo de Vivo, Nella bufera del Novecento. Antonio Gramsci e Piero Sraffa tra lotta politica e teoria critica, Roma, Castelvecchi, 2017, 192 p. [il passo citato è a p. 169].
[6] Piero Sraffa, “The Corporative State” ora in Giancarlo de Vivo, Nella bufera del Novecento. op. cit. alla nota 4, p. 170.
[7] Ibidem.
[8] Roy Forbes Harry», in Economic Journal, IXL (193), marzo 1939, pp. 14-33.
[9] Luigi Einaudi, “La crisi è finita?”, La Riforma sociale, XXXIX, voi. XLIII, n. 1, gennaio-febbraio 1932, pp. 73-79 [il passo citato è a p. 78].
[10] Luigi Einaudi, Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893- 1925), volume II (1903-1909), Torino, Giulio Einaudi, 1959, XL-845 p. [il passo citato è a p. XVI].
[11]Luigi Einaudi, Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893- 1925), volume II (1903-1909), op. cit alla nota 9, p. XXXIX.
[12] Alla cura di Roberto Marchionatti, in collaborazione con Paolo Soddu si deve anche Luigi Einaudi nella cultura, nella società e nella politica del Novecento, Atti del Convegno tenuto presso la Fondazione Luigi Einaudi (Torino, 16-17 aprile 2009), Firenze, Olschki, 2010, X-380 p.
[13] Così si esprime Luigi Einaudi nell’ottobre 1911 dalle colonne del settimanale britannico The Economist
Giolitti is a keen, cunning, clear-minded man. He is a strong man in the sense that he personally made some 100 members of the Chamber out of 508; and these 100 members are his lifeguards. […] He is, moreover, a practical administrator; he has made nearly all the prefetti […] And so he has become, and will for some time remain, the real master of Italy. But with all these qualities, good and bad, he is not a great statesman. The only idea to which he steadfastly held has been the neutrality of the State in the labour question”
[14] Pier Luigi Ciocca, “Einaudi e le turbolenze economiche fra le due guerre”, Rivista di storia economica, XXI (3) dicembre 2004, pp. 279-308.
[15] Vedi nota 12. Si deve a Roberto Marchionatti la raccolta nella collana Studi della Fondazione Luigi Einaudi di tutti gli articoli scritti per il settimanale britannico. “From our italian Correspondent”. Luigi Einaudi’s articles in ‘The economist’, Tomo I: 1908-1924. Tomo II: 1925-1946, Firenze, Olschki, 2000, LXVIII-836 p.
[16] Si veda la nota 10.