PIERO CHIARA

LUINO E IL LAGO MAGGIORE NELLA VITA E NELLA SUA OPERA

Il lago aveva un’anima per me, se fossi nato in un paese non di lago avrei avuto tutta un’altra mentalità. Questa è la Luino come la vedo io: ha mantenuto molte delle sue caratteristiche antiche, ma innanzitutto ha caratteristiche naturali che non verranno mai meno e che sono date da una corona di colli che circondano la città e dalla magnifica apparizione del lago e dei monti della sponda piemontese che delineano una linea severa e nello stesso tempo ridente. Amo molto questo mio paese. Ci torno una volta alla settimana. Se ci abitassi perderebbe il suo fascino. Ritornare circa una volta alla settimana, è un’emozione che si rinnova ogni volta, come ritrovare un’amante. (…) Di tempo in tempo ci andrò per constatare fino a che punto ci sono rimasto, per rendermi conto che è il paese di molti altri che neppure conosco. È mio soltanto nell’immagine che me ne sono fatta, che cerco di conservare in me.”

Così si apre il documentario “Sulla strada di Luino con la gente di Piero Chiari”, mandato in onda il 22 Ottobre 1986 dalla Radio Svizzera di lingua italiana.

Sulla scia delle emozioni, lo scrittore continua:

Quel paese che ha ormai da tempo titolo di città è sempre là ed è rimasto pressappoco come l’ho trovato nascendo, intatto o quasi nel suo nucleo antico…

Erano gli anni in cui, con grande ritardo, finiva a Luino, e forse anche in altri posti, l’Ottocento. Il tempo si era prolungato nelle cose e nelle abitudini, aveva stagnato dentro i cortili e gli orti portandosi dietro brandelli ancora vivi di Settecento e di Seicento.

Le scialbature delle case erano di un bianco antico, indistruttibile e le finestre sagomate nello stesso stile delle porte. Tutto cambiava così lentamente che a molti riuscì di morire nel ‘38 e nel ‘39 senza neppure accorgersi che tutto era ormai in movimento verso un’epoca nuova priva della pietà del passato e incattivita contro gli stessi segni del tempo.

Così com’è rimarrà per un bel po’ di anni e certo per tutti quelli che ne resteranno da vivere”.

Nel corso del documentario interviene il poeta luinese Vittorio Sereni, nato nel 1913 come Piero Chiara. Amici fin dall’infanzia, sono uniti da una stessa precoce passione per la letteratura.
Mentre Sereni è approdato con successo alla poesia e al mondo editoriale attraverso un percorso lineare di studi umanistici, Piero Chiari, lettore accanito fin da bambino dei grandi autori italiani e stranieri, si è scoperto scrittore solo a cinquant’anni, con il racconto di immediato successo “Il piatto piange” del 1962. Nel 1964 vince il Premio Campiello con “La spartizione” a cui fa seguito una serie di successi ininterrotta.
Vende milioni di copie, è tradotto in quindici lingue. Alcuni romanzi vedono la trasposizione cinematografica con registi del calibro di Mario Monicelli, Luciano Salce, Dino Risi, Alberto Lattuada.

Sia Piero Chiara sia Vittorio Sereni vivono solo l’infanzia a Luino, perché gli studi e la vita li porteranno altrove, ma il paese d’origine resterà la fonte principale della loro ispirazione e l’archivio da cui affioreranno luoghi, paesaggi, personaggi, come le immagini e il senso racchiusi nella poesia “Il ritorno” di Vittorio Sereni:

Sul lago le vele facevano un bianco e compatto poema 
ma pari più non gli era il mio respiro 
e non era più un lago ma un attonito 
specchio di me una lacuna del cuore.
2)

Proprio in una vecchia cantina, vicino al negozio di cesti e ombrelli della madre di Piero Chiara, i due vecchi amici si sono ritrovati un giorno d’inverno del 1965.

Questa era la cantina del vecchio Ferrariricorda Chiara

quando torno mi sembra che nulla è cambiato. Questa strada dove sono nato io non è cambiata (…) Le vie del centro antico, Giuseppe Ferrari e Felice Cavallotti, dove sono nato io, la casa Zanella con le sue due scale, davanti al porto, le vecchie vie dei negozi sono rimaste intatte.

Di fianco alla casa, si apriva vivida di qualche squarcio di sole sulle cimase, addolcite in basso dal riflesso, la via dei Mercanti. La vecchia via scendeva al porto in cinque o sei segmenti vagamente allineati in una stretta prospettiva dove si confondevano balconi, finestre e ballatoi. (…) L’aria, i luoghi continuano a dare una carica poetica. Vuol dire che qualcosa è rimasto nell’aria. Ogni tanto, dopo tanti anni, vediamo una faccia da cui traspare ciò che avevamo visto da piccoli (…) Quei fantasmi ritornano…”

La Luino degli anni Ottanta, che “ha ormai da tempo titolo di città”, grazie ad una immigrazione dal Veneto e dal sud Italia, ha visto aumentare la sua popolazione da 5.000 a 15.000 abitanti e dilatare la sua estensione nella periferia. Ma sottolinea Chiara: “La presenza di molti immigrati ha trasformato il volto umano del paese, ma non malamente. Le persone di fuori che non potevano fondersi con le ragioni antiche si sono innestate, si sentono luinesi con una certa fierezza. Il paese ha dimostrato di avere una forza”.

Luino è una cittadina di frontiera. Chiara, figlio di un siciliano che aveva trovato lavoro come doganiere, da bambino attraversava il confine, avanti e indietro, anche più volte al giorno: “Non c’era confine… Italia e Svizzera erano un tutt’uno”. Luino, “terra di perdizione per gli Svizzeri”, viene descritta dallo scrittore come coacervo di contrabbandieri, avventurieri, trafficanti, oltre che di frontalieri, turisti, doganieri, varia promiscua umanità che aveva giustificato la nascita di una casa di tolleranza e alimentato “piccoli traffici” che si svolgevano da centinaia di anni soprattutto nel mercato del mercoledì, giorno di festa, così importante per Luino, che le scuole restavano chiuse.

Chiari, pessimo alunno, che preferiva fare birichinate fra le tende del mercato che andare a scuola, farà riaffiorare questi ricordi nel libro per ragazzi “Le avventure di Pierino al mercato di Luino” pubblicato nel 1980 da Mondadori.

A Luino, oltre che nel mercato del mercoledì, gran parte del tempo si è sempre consumata nelle osterie, di fronte a un bicchiere di vino e a un mazzo di carte. Questa realtà ispira il racconto di Piero Chiari “Il piatto piange” che inizia con un’immagine sempre vera e attuale:

Nei paesi la vita è sotto la cenere. Allora si gioca e si finisce col fare del gioco un fine, una mania, nella quale si stempera la noia dei pomeriggi e delle sere. Non ci si accorge che a due passi fuori dalle finestre c’è il lago e la campagna. Si sta legati ai tavoli a denti stretti. Non si pensa che chi è nato a Luino si è trovato davanti l’acqua del lago e dietro le montagne quasi a indicare che per uscire dal paese bisogna compiere una traversata, una salita, fare uno sforzo insomma, senza sapere se ne valga la pena”.

Per ritrovare i personaggi di Piero Chiari basta andare al circolo per sentire le loro espressioni colorite, le loro storie, in particolare quelle delle persone anziane. Esistono ancora personaggi sospettosi, chiusi, tipici delle zone di frontiera, di contrabbando…

Chiari e Sereni, seduti a un tavolo e davanti agli scaffali pieni di bottiglie di vino e liquori dell’osteria del “vecchio Ferrari”, si confrontano sul “mondo” dei “nuovi” Luinesi, sull’attualità e credibilità dei personaggi e delle rievocazioni dei loro romanzi e poesie.

Piero Chiari introduce l’argomento:

Il mio paese, dandomi allo scrivere, divenne lo sfondo di molte delle mie storie. Tutto è accaduto in quel paese perché tutto è accaduto in me. Ma è chiaro che un paese o un territorio usati in tal modo finiscono col diventare emblematici, che è come dire almeno nell’aspirazione di chi li elabora in tal modo, universali. (…) Mi domando se i Luinesi ritrovano il paese nei miei libri… se confrontano l’immagine letteraria con quella attuale. La sovrapposizione arricchisce l’immage: dietro gli aspetti attuali si vedono in trasparenza gli aspetti precedenti quindi il luogo acquista profondità. (…) Ascoltarsi e accettare i racconti altrui per veri, che nasce dal pettegolezzo, dalla curiosità per i fatti altrui, è rimasta.”

Sarà una fissazione continua Sereni   ma il Luinese io l’ho sempre visto compreso tra cose eterne e cose umili, al confine fra due diverse realtà, perplesso sul modo di ingranare l’una nell’altra, portato a non lasciar cadere ed esaurire i propri gesti quotidiani, pur di ritrovarli con tutto il loro senso in un altro ordine in un ritmo che ne rappresenti la destinazione perenne.

Piero Chiari e Vittorio Sereni escono dall’osteria e fra i “balconi, finestre e ballatoi” delle case del vecchio borgo, per uno di quei “cinque o sei segmenti vagamente allineati”, raggiungono il lago:

È una giornata fredda e grigia d’inverno: un soffio di vento fa riaffiorare in Piero Chiari il ricordo del Brovelli, un personaggio curioso che avremmo potuto ritrovare in un romanzo dello scrittore luinese: “Il Brovelli riceveva il vento che veniva dalla Maggia, dalle valli svizzere. Distingueva l’odore del caffè, del tabacco che veniva da Brissago, delle pecore. Bastava mettersi in una posizione precisa… Era vero!” Questo ricordo vivissimo ha ispirato “l’odore sottile, segreto” della protagonista del racconto “Ti sento Giuditta”.

Poi l’attenzione è attratta dalle barche dormienti nel porticciolo che stimolano lunghe divagazioni. “Le barche sono sempre un po’ malinconiche. Una barca, del Bianchi, si chiamava “Il malinconic”, ricorda Sereni. Piero Chiari lo interrompe recitando i primi versi della poesia dell’amico “La strada di Creva”:

Presto la vela freschissima di maggio

ritornerà sulle acque

dove infinita trema Luino

e il canto spunterà remoto

del cucco affacciato alle valli

dopo l’ultima pioggia…3)

Quindi gli torna alla mente il cavallier Pirelli, “uno strano signore con i capelli bianchi, gli occhiali d’oro che era arrivato a Luino con una grande barca, un vero panfilo con due vele, le finiture di metallo lecente, dove invitava le donne più belle. Era stato il precursore della vela sul lago.”

Nel romanzo “La stanza del vescovo”, edito da Mondadori nel 1976, ambientato nel 1946, il cavallier Pirelli e il suo panfilo si ritrovano nel signor Kauffmann e nella “Lady, lui “uno svizzero tedesco”, la Lady, “la più bella barca che si potesse vedere sul lago Maggiore”:

La sua barca, che doveva essere una specie di Stradivari, a giudicare da come si comportava sottovento, con fiocco e contro-fiocco, randa e mezzana alzati impavidamente, certo con la sicurezza di chissà quanti quintali di piombo nella chiglia e di un pescaggio tale che le impediva perfino di entrare nei piccoli porti e la teneva sempre al largo, veloce e silenziosa come l’Olandese volante (…) Vidi certi arganetti prodigiosi che si azionavano elettricamente, un anemometro ed un profondimetro piazzati vicino alla chiesuola della bussola e all’interno quattro cuccette con lenzuola di lino, una cucina elettrica e un gabinetto con la doccia”.

Il trentenne senza nome, protagonista de “La stanza del vescovo” insieme al dottor Orimbelli, è la voce narrante di una storia che si svolge interamente sul lago Maggiore. È il proprietario della “Tinca”4), una barca con “l’aspetto pesante di una baleniera o d’un bragozzo e non era catalogabile fra le stazze riconosciute (…) progettata e costruita prima della guerra dall’ingegner Vittorio Quaglino di Intra che l’aveva concepita per la pesca sportiva in mare (…) Non è bella, ma è spaziosa, comoda e di buon comando, tanto che posso governarla da solo. Dentro ha due cuccette e un cucinino”.

Sulla Tinca e nella villa con darsena di Oggebbio che nel finale si colora di giallo, si svolge la maggior parte del romanzo. Per tutta l’estate il giovane proprietario della Tinca ospita l’Orimbelli e, come il signor Kauffmann, donne imbarcate qua e là per consumare brevi e fugaci passioni; infine la bellissima, enigmatica, misteriosa Matilde.

Il lago, visto dalla Tinca che “corre dietro i venti”,appare in tutte le sue mutevoli sembianze: “…è come voltare le pagine di un libro illustrato: sempre nuove immagini, sempre nuovi colori…”

Si stava alzando l’inverna. In mezzo al lago, tra Laveno e intra, una gran macchia scura veniva avanti da sud sullo specchio lucido delle acque: Era il fedele vento pomeridiano, basso e teso, che increspa l’acqua senza agitarla, disseminandola di una miriade di punti luminosi…”.

Si andava intanto con gli ultimi aliti dell’inverna, o meglio con quelle brezze misteriose che non si capisce da dove vengano, folatine improvvise che increspano un breve tratto di lago poi svaniscono per riapparire poco dopo da un’altra direzione, come piccole anime impazzite o burlone…”

Il sole non si era ancora alzato, ma un bagliore rossiccio annunciava, dietro Luino, una lucida mattinata di vento, di quelle che sembrano chiudere l’estate, dopo Ferragosto, quando il lago, come una donna che cambi abito, perde i suoi colori tenui e leggeri per vestirsi di azzurro intenso e qualche volta di scuro turchino, se al mattino lo spazza la tramontana o lo ripettina al pomeriggio l’inverna…”

Tempeste a parte, che sono del resto rare, lo spettacolo del lago è qualche cosa di indescrivibile. Voi non immaginate cosa sono le rive viste dal largo, una villa dopo l’altra, i fiumi, i ruscelli, le cascatine d’acqua che scendono dai monti, i paesi”.

Nel peregrinare assecondando i venti, il lago Maggiore si ricompone come in un puzzle: le ville e i grandi alberghi visti da lontano appaiono come cubi lattescenti: “Ci sedemmo, in quell’ombra mattutina a guardare il lago. Lontano emergevano le isole. Più avanti, sull’altra sponda, biancheggiava tra il verde della punta di Pallanza il cubo dell’albergo Eden. Altri cubi lattescenti erano il Regina Palace e il Grand Hotel des Iles Borromée di Stresa, simili a grandi cetacei arenati sulle rive.”

Ma nei vari approdi ville e palazzi si riappropriano della loro immagine reale: la maestosa “villa del Sultano” di Oggebbio, l’hotel “Suisse” di Baveno, i castelli di Cannero, l’eremo di Santa Caterina del Sasso, la rocca di Angera…. I monti con i loro boschi e i giardini delle ville si riappropriano dei loro colori, i fiori del loro nome:

In aprile, quando il giardino era già quasi tutto fiorito, venne una nevicata improvvisa che imbiancò i monti fino alle rive del lago (…) nella villa che era stata di massimo d’Azeglio, un cedro del libano si era aperto in due (…) nel parco della villa Cleofe la vittima più illustre fu la grande magnolia (…) la magnolia aveva l’aspetto di un gigante col capo reclinato sul petto…”

“…l’autunno aveva da tempo finito le sue pompe. Gli alberi dei parchi sul lago si erano spogliati, ma i sempreverdi spiccavano più netti e scuri sopra i toni leggeri delle mimose già quasi in fiore.”

Nelle ultime pagine del romanzo il lago Maggiore viene colto nella sua natura più autentica e suggestiva:

L’inverno sul lago è dolcissimo, specialmente sulla sponda piemontese, che resta verde tutto l’anno. Ma la sera scende presto e non si poteva far altro, in quegli anni, che chiudersi in casa davanti ai camini a leggere, a conversare, a centellinare qualche vecchia bottiglia o semplicemente a guardare il fuoco. Chi ha passato anche un solo inverno nel lago, in villa, sa quanta pace e quanta noia è possibile distillare ogni giorno. Lo spettacolo delle acque che diventano d’un azzurro d’acciaio e poi color piombo sotto le piogge invernali, la neve che compare sui monti, il sorgere e il tramontare del sole quando è bel tempo, il passaggio dei battelli, le giornate di vento che non mancano mai, il fiorire dei crisantemi, delle mimose, delle camelie e poi finalmente delle azalee, segna il passare della stagione…”

  1. G. Pecorini e G. Pellegrini, Radio Svizzera Italiana, “Tesi, Temi, Testimonianze”.
  2. Dalla raccolta “Gli strumenti umani”, in “Vittorio Sereni – Tutte le poesie”, Milano, Mondadori, 1989, p. 116
  3. Da “Poesie”, Vallecchi, 1942
  4. La tinca è un pesce di lago tozzo e panciuto.

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