MA CHI E’ IL MORTO?

Io sono cresciuto, come tanti altri, in un mondo in cui il dominus durante i funerali e le commemorazioni era decisamente e senza dubbi Lui, il morto.

Chi interveniva (amici, parenti o il prete che fossero) lo descriveva e lo raccontava ai presenti.

Molti assentivano, qualcuno piangeva, taluno abbandonava il luogo perché non reggeva alla emozione di veder raccontato e ricordato quel che non ci sarebbe stato più.

Non nascondo che spesso quelle parole così positivamente descrittive del morto mi parevano suonar false o esagerate.

Io, come gli altri presenti, sapevo talvolta della antipatia tra il ricordante e il ricordato, degli scazzi che li avevano visti protagonisti.

Sapevo inoltre che Lui, il morto, non era sempre stato così perfetto, umano e gradevole.

Nel corso del tempo questa esagerazione espressiva mi si è pian piano giustificata, spingendomi ad accettarla e, di conseguenza, talora a parteciparvi.

In primo luogo si trattava della applicazione dell’antico detto “De mortuis nihil nisi bonum”.

Un principio certamente auto – difensivo che sanciva un impegno reciproco fra quegli esseri umani. Era come se si dicesse: io rispetto oggi quella norma e in cambio essa verrà rispettata quando sarà mio il turno di morire.

Vivendo, e vedendo morire, ho però pian piano compreso che vi era in quel rispetto così formale qualcosa di più importante e sostanziale.

Non solo, dunque, il rispetto per il morto ma, ancora più profondamente, il rispetto per la Morte in quanto tale.

Un atteggiamento, vorrei dire, di tipo cavalleresco. Possiamo scontrarci sul campo della Vita ma ognuno di noi sa che vi è una vera ed invincibile padrona finale.

Io, dunque, esprimo rispetto per te che sei caduto prima di me sotto il suo indiscutibile potere.

Di fronte a quella che Kelsen chiamò “norma di chiusura” applicando un concetto giuridico in filosofia, non vi è altro che rispettare e lodare colui che è soltanto caduto prima.

La partita, insomma, è chiusa e altro non resta se non il dolore per la mancanza: esso, però, riguarda ognuno nella sua sfera personale e non necessita, per esistere, di essere estrinsecato.

Ma oggi qualcosa è cambiato, molto cambiato.

Chi prende la parola in un funerale o in una veglia non parla più del morto, ma bensì di se stesso.

Il taglio del discorso può essere di vari tipi.

Si va dal più naturale dolore dell’assenza a più sofisticate espressioni. Al centro vi è, sempre, il vivente, colui che parla.

Lo scopo è quello di dimostrare che una parte del defunto vive, come una sorta di eredità biologica, in colui che ora ne parla.

Si tratta generalmente di insegnamenti ricevuti, di segreti comunicati, di esempi che non sono caduti nel vuoto ma si rifletteranno per sempre nell’anima del vivente che parla.

Appare una traslazione spirituale. Si confonde, ritengo deliberatamente, la presenza nel tempo del ricordo e del dolore con la affermazione, più o meno esplicita, “tu non morirai mai”.

In me, si intende, non morirai mai. Grazie a me, non morirai mai.

In alcuni, per fortuna ancora rari, casi la permanenza post mortem viene affidata a battaglie comuni che il vivente continuerà nel nome e con l’autorevolezza di chi non vi è più.

Capita così di assistere a veri e propri comizi profani emessi in una sede che non li dovrebbe mai vivere né ospitare.

La Morte, la Signora dei viventi, sembra essere diventata una chat dove qualcuno cerca di appropriarsi di qualcosa del morto e, comunque, ne approfitta per presentarsi.

Del resto, come non osservare in Rete la appropriazione da parte di tanti dei morti famosi?

Siamo circondati anche da funerali virtuali, dove chiunque si sente in diritto di appropriarsi di un morto che non ha mai conosciuto e di cui, in vita, ha letto qualche pagine o guardato qualche ora in televisione.

Cosa è successo? Come è successo? Perché è successo?

La mia personalissima risposta è che non soltanto si è diffusa una enorme paura della Morte, ma essa è diventata, nella considerazione di tutti, una cosa di cattivo gusto.

Una cosa da temporaneamente rimuovere e cancellare.

Veniamo da millenni di Storia in cui la morte era considerata la massima e più compiuta espressione di ogni uomo.

Di conseguenza essa attirava la Dignità e il Dover Essere in modo esaustivo.

Non si tratta solo di Ettore sotto le mura Troia. Anche quelle inaccettabili di Berlino nel 1945 portano lo stesso segno.

E lo stesso segno portano, anche se sembra impossibile, i miliardi di morti comuni che si accumulano nella storia della Umanità. Spessissimo ingiuste e orribili, ma sempre richiedenti rispetto e non esibizione.

Nella tradizione sarda vi era un rituale post seppellimento. Nelle vicinanze del Camposanto una piola vendeva la nostra grappa, il filu ’e ferru.

Il più vecchio del gruppo innalzava il bicchiere e chiamava il brindisi “Mandiamo via il morto!”

Così Lui, il morto, era libero e agli altri restava soltanto il dolore e il ricordo.


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