MANZONI E ROSMINI SUL LAGO MAGGIORE

or l’uno va, or l’altro viene da Lesa a Stresa, e da Stresa a Lesa.

Manzoni era legato a Rosmini da una lontana amicizia. Lo aveva conosciuto nel 1826 a Milano dopo che il giovane sacerdote aveva lasciato il Trentino per l’ostilità nei suoi confronti del vescovo di Trento e si era trasferito nel capoluogo lombardo. Qui aveva condiviso l’abitazione con un amico di Alessandro Manzoni il ventiquattrenne poeta e patriota in erba Niccolò Tommaseo, conosciuto a Padova quando entrambi stavano completando gli studi classici e teologici.

Nel 1828 Rosmini lasciò Milano per fondare al Sacromonte Calvario di Domodossola la congregazione religiosa dell’Istituto della Carità, detta dei “Rosminiani”. Dopo la proclamazione della Repubblica Romana (1849), si ritirò a Stresa sul lago Maggiore, in territorio sabaudo, per la sua visione politica totalmente in contrasto con quella di Pio IX. Infatti, come vedremo successivamente, il Rosmini, esponente del “cattolicesimo liberale”, in questo dibattito sostenne la posizione più radicale, quella del ritorno del papato alla semplicità dei primi secoli, con la rinuncia al potere temporale.

Rosmini visse a Stresa fino alla morte, avvenuta nel 1855, nella settecentesca villa “Ducale”, così chiamata perché dalla metà dell’Ottocento divenne la residenza della duchessa Elisabetta di Genova, madre della futura regina Margherita. La stessa villa fu più frequentemente chiamata “Bolongaro”, dal nome del suo edificatore. Quando la devota e caritatevole nipote Anna Maria Simonetta Bolongaro la ricevette in eredità, la donò all’abate Rosmini perché fosse la sede della sua confraternita. Grazie alla presenza del grande teologo divenne un prestigioso ritrovo di cultura nazionale e internazionale, ancor oggi sede dell’”Istituto Internazionale di Studi Rosminiani”.

Anche Alessandro Manzoni nel 1849 si trovava sulla sponda piemontese del lago Maggiore. Infatti, successivamente allo scoppio dell’insurrezione contro gli Austriaci del 18 marzo 1848 a Milano, accettò l’invito del figliastro Stefano Stampa a raggiungerlo a Lesa con la seconda moglie Teresa Borri nella più prestigiosa casa del borgo, di fronte alla riva del lago e lungo la strada napoleonica del Sempione. La villa era stata ereditata da Stefano dopo la morte del padre, il ricchissimo conte Stefano Decio Stampa, morto nel 1820.

Stefano invitò il patrigno e la madre perché temeva che il maresciallo Radetzky si sarebbe ricordato dei versi antiaustriaci pubblicati dal Manzoni nell’ode “Marzo 1821”, nonché dell’appello firmato dallo scrittore affinché il Re di Sardegna intervenisse nella guerra di liberazione. Erano ben note agli Austriaci le idee liberali e democratiche del Manzoni che aveva salutato le “Cinque Giornate” plaudendo dalla finestra al passaggio dei militari. Con Teresa rimarrà per più di due anni nel borgo lacustre fino all’autunno del 1850. Vi tornerà poi ogni anno a passarvi l’estate fino a quando la moglie si spegnerà nel 1861.

Alessandro Manzoni e Antonio Rosmini, dopo circa vent’anni dalla loro frequentazione milanese, vennero a trovarsi a pochi chilometri di distanza, percorso che effettuavano con grande assiduità per lo più a piedi, talvolta in carrozza, come ci ha testimoniato Stefano Stampa nei suoi scritti pubblicati in “A. Manzoni, la sua famiglia, i suoi amici. Appunti e memorie” (Hoepli, 1885):

Alessandro scrive molto e vede ogni poco il suo tanto amato e venerato Rosmini: or l’uno va, or l’altro viene da Lesa a Stresa, e da Stresa a Lesa.

Alessandro Manzoni era solito ricevere Antonio Rosmini e gli altri suoi amici e patrioti Giulio Carcano, Cesare Correnti, Massimo d’Azeglio, Niccolò Tommaseo, Giacinto Provana di Collegno, Ruggiero Bonghi… intorno a un tavolo di sasso del “Belvedere”, un angolo panoramico verso il lago e la sponda lombarda, sopra l’attuale stradina interna proveniente da Stresa, tra i terreni della proprietà Stampa. Questi erano molto estesi e comprendevano una vasta area che s’inerpicava sulla collina, “la scigolana”, un fondo coltivato a vigneto e uliveto.

Stefano Stampa, nei suoi appunti e memorie, racconta che sul tavolo del Belvedere, all’ombra degli alberi, il Manzoni lavorò molto tra il 1849 e il 1850 soprattutto alle correzioni dei suoi scritti: il discorso “Del romanzo storico”, il dialogo “Dell’invenzione”, il saggio “Del sistema che fonda la morale sull’utilità”.

Del dialogo Manzoni aveva parlato durante i suoi incontri col Rosmini. L’abate ne aveva seguito la stesura quasi ogni giorno e ne scriveva in una lettera al suo seguace Don Alessandro Pestalozza il 3 Luglio del 1850: 

Don Alessandro, che sta bene, La saluta. E perché non venire a passare qualche giorno con noi in questa bella stagione? Discorreremo di molte cose di filosofia, ora anche Don Alessandro ci si è messo, e ne ha scritto un bellissimo dialogo che uscirà nel prossimo fascicolo delle sue “Opere varie.”

Rosmini a sua volta riceveva il Manzoni a villa Bolongaro, in posizione panoramica sul golfo Borromeo, circondata da un giardino di circa 13.000 m.q. All’interno la si può ancora ammirare decorata di numerosi affreschi a soggetto mitologico. Ai piani superiori si accede salendo un’ampia scala a due rampe, con gradini di granito rosa e ringhiere di ferro battuto; le decorazioni a fiori dipinti e i pavimenti ad intarsio alternati a mosaico testimoniano tuttora la fastosità dell’epoca.

Il giardino di villa Bolongaro viene minuziosamente descritto nel “Quarto dialogo” delle “Stresiane”, opera che racchiude gli appunti di Ruggiero Bonghi, ospite di villa Bolongaro e costante testimone degli incontri fra Rosmini e Manzoni. Qui viene riportata una dotta disquisizione su piante e fiori tra Manzoni, Rosmini, Gustavo Cavour. Bonghi inoltre ricorda gli alberi davanti ai quali passavano per andarsi a sedere nel piccolo boschetto che quelli e tanti altri formano insieme con le camelie e le magnolie e i rododendri e le ortensie. Descrive inoltre una radura con un tavolo di pietra e parecchi seggi attorno.

Tuttora il piccolo boschetto e il tavolo in pietra con parecchi seggi intorno, i vialetti che contornano la villa che guarda verso il lago ci restituiscono l’immagine dei due intellettuali “soliti passeggiare all’ombra del Taxodium o della Magnolia Grandiflora” e conversare di morale, filosofia e politica. 

Le “Stresiane” riportano i quattro dialoghi attraverso cui Antonio Rosmini e Alessandro Manzoni si sono confrontati su argomenti teologici e filosofici: l’unità e la molteplicità delle idee, la specificità del linguaggio teologico, la trascendenza divina, l’origine del mondo, la necessità e la libertà dell’atto creativo divino, la predestinazione, l’opera della Provvidenza nella storia del mondo.

I dialoghi, che sono contestualizzati nella quotidianità e nel clima di amicizia e familiarità fra gli interlocutori, nelle “divagazioni” consentono di leggere a fondo le diverse e sfaccettate personalità, gli umori, gli interessi personali al di là dei dialoghi teologici, filosofici, politici. Per questa loro caratteristica sono intercalati spesso da racconti vivaci. Uno di questi è quello relativo all’arrivo della carrozza del Manzoni a “casa” Rosmini che merita di essere citato:

Appena che i cavalli ebbero fatto capolino oltre il canto della chiesa parrocchiale, m’accorsi che gli eran quelli del Manzoni. Ora, sapete che vuol dire la carrozza del Manzoni che mostri di volersi fermare avanti al cancello di casa Rosmini? Uno scender giù a precipizio di chi l’ha vista per il primo, un picchiare all’uscio del Rosmini, un dirgli che il Manzoni è lì, e un continuare giù per le scale, senza aspettare altro, e poi un venir fuori sulla loggia e giù da capo per quei sei o sette scalini che mettono al cancello, di maniera che ci sia il tempo, primo, di spiegare il predellino a don Alessandro o di dargli la mano mentre cala e, secondo, o stringersela e accompagnarlo, o fargli un inchino rispettoso e correre avanti a spalancargli l’uscio a vetri della loggia. Qui s’incontra il Rosmini che è già sceso anche lui…

Il comune impegno politico di Alessandro Manzoni e Antonio Rosmini in anni cruciali per l’Italia e per la formazione unitaria del Paese li obbligava a un continuo confronto.

Il loro pensiero si inquadrava nel “Cattolicesimo liberale”, movimento politico diffuso in Belgio, Francia, e soprattutto Italia, che teorizzò la conciliabilità della dottrina cattolica con i principi liberali della separazione tra Stato e Chiesa, dove lo Stato, nella sua autonomia, si ispirasse ai valori del Cristianesimo. Questo movimento politico si contrappose al cattolicesimo intransigente fautore di uno stretto vincolo tra Stato e Chiesa. Vincenzo Gioberti, autore del “Primato morale degli Italiani” (1843) aveva proposto un progetto politico definito “Neoguelfismo”, nel quale Italia e Papato avrebbero organicamente convissuto nell’ambito di una confederazione degli Stati della penisola presieduta dal pontefice. Sostenne quindi la conciliabilità della religione cristiana con il principio di unità e di indipendenza della patria, richiamandosi all’età precomunale e comunale, quando il papato avrebbe svolto in Italia una funzione di difesa nazionale.

In questo dibattito si colloca quello fra Alessandro Manzoni e Antonio Rosmini, con posizioni divergenti.

Per Antonio Rosmini la chiesa avrebbe dovuto tornare alla semplicità dei primi secoli, liberandosi del potere temporale dei Papi, come scrisse nel 1832 ne “Le cinque piaghe della S. Chiesa”, pubblicato anonimo a Lugano sedici anni dopo, nella primavera del 1848: Rosmini guarda il corpo del Cristo crocifisso, osserva le cinque ferite, delle mani, dei piedi e del costato che lo deturpano e in esse vede i cinque mali della chiesa. La prima piaga è costituita dalla separazione troppo netta tra ceto sacerdotale, esclusivo amministratore delle cose sacre, e fedeli laici, ridotti in stato di passività e soggezione.

La seconda sta nella triste condizione degli studi ecclesiastici del suo tempo ed auspica che la chiesa, come alle sue origini, torni a formare sacerdoti di grande cuore e di grande spirito, capaci di promuovere l’intelligenza della fede e una conoscenza profonda delle Scritture. La terza piaga è la competizione, senza esclusione di colpi, tra i vescovi e la loro mondanizzazione. Dall’età feudale la dignità episcopale è garanzia di rendite, privilegi, di onori, di interessi politici e perciò fonte di laceranti conflitti tra i ceti più elevati della società e dello stesso corpo ecclesiale.

La quarta piaga è “la nomina dei vescovi abbandonata al potere laicale” a cui Rosmini riserva poco meno della metà dell’intera sua opera. L’asservimento dei vescovi al potere politico e il distacco dal popolo cristiano contrasta con l’originale prassi ecclesiale. Pertanto la nomina dei vescovi deve coinvolgere l’intero popolo cristiano secondo la formula “il clero giudice, il popolo consigliere”. Solo così l’aurorità episcopale potrà liberarsi dalla subordinazione ai poteri politici e mondani e ritrovare il coraggio della libertà cristiana. La quinta piaga è “la servitù dei beni ecclesiastici” cioè la schiavitù economica creata dall’assoggettamento dei patrimoni della chiesa a finalità diverse dalle uniche due legittime: il sostentamento del clero e l’aiuto ai poveri. “Cristo aveva fondato l’apostolato sulla povertà (…) il vescovo era il primo fra poveri (…) la chiesa primitiva era povera, ma libera…”

L’opera fu messa all’indice da papa Pio IX., ma accese il clima carico di speranze del Quarantotto italiano.

Rosmini, con la sua posizione intransigente, che escludeva il potere temporale del papa, dava un prezioso contributo teorico al Risorgimento, rimuovendo quello che per secoli era stato e continuava ad essere uno dei principali ostacoli all’unificazione italiana. Inoltre Rosmini nel suo “Sull’unità d’Italia” faceva comprendere la propria visione federalista affermando che «l’unità nella varietà è la definizione della bellezza.” La riflessione teorica e dottrinale non lo distolse dalle sorti della futura Patria italiana, anzi lo inserì nel dibattito tra unità e federalismo, che a distanza di molti decenni dall’Unità d’Italia sembrano essere tuttora di grande attualità.

Manzoni, che abbracciava gli ideali della Rivoluzione francese di liberté, egalité, fraternité, sosteneva che in Italia si dovesse tendere all’ unificazione e all’indipendenza, con il netto rifiuto di ogni forma di violenza, perché ostacolo alla concretizzazione di tali principi; riteneva inoltre che i valori cristiani fossero d’aiuto al loro perseguimento, poiché solo attraverso di essi sarebbe stato possibile creare una società giusta e libera, attenta soprattutto alle classi più deboli.

Manzoni, rifiutando ogni coinvolgimento della chiesa e ogni soluzione federalista del problema italiano, aspirava a uno Stato in cui le ragioni della politica si conciliassero con quelle della religione e in cui l’alto valore della libertà si traducesse anche in liberismo politico e liberismo economico. Il suo ideale di governo trovava spunti nella morale cattolica, affermando che il vero concetto di libertà potesse essere compreso solo grazie a tale etica. Nella visione manzoniana pertanto la religione e la politica sono due elementi inscindibili tra loro, necessari per la realizzazione di un ideale d’Italia unita. Il suo viene definito un “cattolicesimo moderno” che considera fondamentali quei diritti umani naturali come la libertà. Egli sostiene infatti che la religione è in grado di influenzare il sentimento d’orgoglio nazionale, che può essere raggiunto solo se i concetti di patria e nazione vengono considerati valori essenziali esenti dal concetto nazionalistico.

Per questa visione che contemperava l’orientamento politico dei cattolici che avevano condiviso il programma di unità e indipendenza, con i principi politici del liberismo, Benedetto Croce riconobbe Alessandro Manzoni come il “capo della scuola cattolico-liberale”.

Nonostante la loro divergenza d’idee, la profonda amicizia fra Alessandro Manzoni e Antonio Rosmini era basata su un reciproco rispetto che nel corso degli anni, anche attraverso un intenso carteggio, garantì al loro rapporto intellettuale una grande intensità. In una lettera del teologo ad Alessandro Manzoni del 14 maggio del’48 si legge:

Egli non è punto necessario, per grazia di Dio, di trovarci reciprocamente buoni ideologi per amarci, per compatirci e per istimarci.

Rosmini sottolineava così che l’intesa tra lo scrittore e il teologo stava nella loro stessa natura, prima ancora che in quella delle loro idee.

Ruggero Bonghi della natura di questa amicizia parla in una lettera a Carlo Landriani del 24 giugno 1873, diciotto anni dopo la morte del Rosmini, sottolineando come l’ingegno dell’uno non rassomigliava punto a quello dell’altro; ma, strano a dire, le parti dissimili di ciascuno dei due trovavano nell’altro le qualità più adatte ad apprezzarle.

Antonio Fogazzaro nell’epigrafe apposta sulla facciata del palazzo Bolongaro racchiuse in un’unica immagine l’essenza della loro amicizia:

A. Manzoni – A. Rosmini, duplice vertice di un’unica fiamma.

I rapporti tra Manzoni e Rosmini si interruppero solo con la morte dell’abate a Stresa il 1 luglio 1855. Manzoni gli fu vicino fino all’ultimo istante ricevendo il testamento morale del Reverendo: «Adorare, Tacere, Gioire». La loro fu un’amicizia autentica, supportata da un equilibrio tra fede e pensiero tale da farla annoverare fra i rapporti intellettuali più importanti del XIX secolo.


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