Massimo d’Azeglio romito a Cannero tra lettere e ricordi
“Mi son preso un pezzetto di terra. Mi ci fo una casetta. Non è male avere un buco suo in posizione vantaggiosa, dove nessuno possa venire a seccare; e se ci venissero, da poter essere presto all’aria libera”.
Così l’8 giugno 1856 Massimo d’Azeglio scrive da Cannero, la sua “Cartagene sorgente”1), all’amico Diomede Pantaleoni. 2)
In una lettera successiva descrive il suo rifugio al nipote marchese Emanuele d’Azeglio:
”…Ho comprato sulle rive del lago Maggiore un terreno di 225 metri di fronte a toccar l’acqua e 80 metri di profondità, piantata d’alberi grossi con tre sorgenti che scaturiscono sul mio. Vi fo una casetta pulitina con un terreno e un piano, 8 camere da letto. Il luogo non può essere più romantico e la mia idea è di farne una villa di carattere artistico. Credo sarà una casetta elegante. 3)
La “casetta”, come appare oggi dopo una curata ristrutturazione, è una splendida villa con torretta, grandi terrazze e giardini, affacciata sulla riva del lago, proprio di fronte a due isolotti rocciosi su cui si ergono ruderi di castelli medioevali. Questi fanno eco alla rocca di Arona e a quella di Angera, quest’ultima sulla sponda lombarda, che raccontano le successive dominazioni dei Visconti, degli Sforza, dei Borromeo.
Cannero è un paese a soli 15 chilometri dal confine svizzero, ai piedi di una montagna che scende con le pareti rocciose direttamente sul lago. Lungo il litorale si affacciano ville ottocentesche e liberty tra cespugli di camelie e piante di limoni che già avevano sorpreso D’Azeglio: “Qui è piena estate ed i limoni mi hanno fatto cacciate di un metro!”4)
Alle spalle della costa una vegetazione spontanea conquista ogni zolla di terra ancorata alle fessure della roccia. La casa di D’Azeglio è appartata, un po’ distante dal nucleo centrale del paese, quasi inaccessibile dalla riva del lago.
Si può immaginare il volto di Cannero quando accolse il cinquantottenne ex ministro del regno sabaudo al suo arrivo in carrozza da Torino, dopo aver attraversato percorsi impervi a mezza montagna prima di raggiungere la sua oasi di pace: poche case, una chiesa, un piccolo cimitero, barche di pescatori in secca sulla riva, immersi in grandi silenzi racchiusi tra il lago e la catena alpina.
Massimo d’Azeglio, nel 1852, dopo aver rivestito per più di tre anni, durata eccezionale, la carica di Presidente del Consiglio del Regno Sardo-Piemontese, com’è noto, lascia il passo a Camillo Benso conte di Cavour. Dopo aver rifiutato tutte le onorificenze di cui voleva insignirlo il re Vittorio Emanuele II, nominato senatore nel 1853, dal 1856 non ebbe più incarichi ufficiali presso la corte sabauda, come spiegherà ancora con rammarico, dopo dieci anni, alla seconda moglie Luisa Maumary già vedova Blondel, in una delle ultime lettere da Cannero:
”Da quando uscii dal ministero nel 1952 mai più il re m’ha domandato su nulla il mio parere; da quando morì Cavour, che qualche volta mi interpellava, nessun ministro m’ha mai consultato…”
In una lettera del 10 giugno 1863 confidò a Diomede Pantaleoni la sua stanchezza nei confronti della politica:
“Caro Pantaleoni, quanto a politica non me ne occupo. Se avessi 40 anni, forza e salute potrei ed anzi dovrei arruolarmi nell’equipaggio comunque sia composto; ma alla mia età non si può esigere che mi metta con questi amici nuovi, coi quali bisognerebbe mutare idee ed abitudini”.
Ma, a un anno emmezzo dalla morte, il suo pensiero più netto, difinitivo e malinconico è espresso nella lettera sempre da Cannero ad Emanuele del 20 giugno 1864:
“Alla mia età si pensa proprio come Salomone: omnia vanitas. E, salvo il dovere, tutto il resto, il potere, i gradi, la fama, la gloria è sempre pagato cento volte di più caro che non vale. E a guardarsi indietro si pensa che con molta meno fatica si poteva essere molto più felici. Ripeto, salva sempre l’idea del dovere.”
Come racconta ampiamente ne “I miei ricordi” al senso del dovere lo ha addestrato fin dall’infanzia il padre, marchese Cesare Taparelli D’Azeglio, ufficiale del reggimento della Regina. Per questo obbligo morale e civico continua a seguire la politica con emozione e passione.
Fra i suoi interventi spicca il “Discorso” nobilissimo e saporitissimo letto in Senato il 3 dicembre 1864, in cui sostenne con fervore il trasferimento della capitale a Firenze. Nella lettera ad Emanuele del 30 ottobre commenta:
“Farò lo spicco d’andare in Senato e credo sarà l’ultima volta. Ma mi pare dovere in un’occasione simile. Vogliono che parli e forse parlerò o meglio farò leggere il mio speek perché a parlare un pezzetto mi manca la voce”.
Continua il racconto con una lettera da Torino del 4 dicembre:
“Vado al Senato. Torno dal Senato. Credevo d’essere fischiato almeno dalle tribune. Invece applausi frenetici, abbracci, pianti di consolazione per aver io detto quello che pochi mesi fa sembrava un’eresia! Che cari matti sono gli uomini”.
Così pure è passata alla storia, per il successo riportato, l’ultima lettera agli elettori datata in calce Cannero, 4 giugno 1865. La lettera, che non fu un programma elettorale, in quanto D’Azeglio era senatore, si rivelò uno sprone alla partecipazione al voto in un’Italia da poco unificata. Fu quindi un vero e proprio “catechismo” del cittadino, elettore in uno Stato costituzionale.
Nei dieci anni vissuti a Cannero D’Azeglio trascorse le sue abituali vacanze invernali in Toscana, ma intraprese anche numerosissimi viaggi in Italia e in Europa per inseguire gli avvenimenti politici, perché, anche se non dichiarata, la sua prima e vera passione resterà la politica. Nel 1854, con enorme successo personale, con Cavour e Vittorio Emanuele II, partecipò alla missione presso i re di Francia e Inghilterra per perorarne il sostegno alla causa italiana.
D’Azeglio, non più personaggio di primissimo piano alla corte sabauda come nel passato, nell’oasi di Cannero cerca di lenire le sue ferite morali. Si rifugia nella vita privata cercando il successo nella pittura e nella scrittura, passioni giovanili che lo avevano reso famosissimo, non solo in Italia, prima ancora della sua discesa in politica in sostegno dei Savoia.
A Cannero dipinge qualche scorcio di lago come quello dell’”Isola Pescatori con barche e casetta a portico” esposto alla Galleria d’arte moderna” di Torino, anche se preferisce attingere al vasto repertorio dei suoi bozzetti e appunti giovanili, come presi dal vero, realizzati a Roma tra il 1820/1830 di cui racconta diffusamente nei “Ricordi”.
I suoi paesaggi boschivi curati nel dettaglio, con grandi pareti erboree, cascatelle, qualche personaggio che evoca storie di brigantaggio, in voga all’inizio dell’Ottocento, riconducono la sua pittura alla tradizione romantica. Una di queste raffigurazioni dipinta ad olio, “Il bosco con bravo in agguato”, riprodotto in litografia, fu presentato per l’album dell’Esposizione della Promotrice di Belle Arti di Torino del 1858.
Espone a Brera, prende contatti con galleristi. A Diomede Pantaleoni scrive il 26 agosto 1862: “Dovendo passare di Milano il Direttore della National Gallery, Eastlalle e Mundler Otto, che sono i due principi d’Europa in fatto di quadri, ho combinato con essi di trovarci un giorno a Torino per affari artistici”.
Della sua produzione frenetica, dei destinatari, molti dei quali londinesi, dei ricavi delle sue opere, parla in quasi tutte le lettere indirizzate a Luisa Maumary.
La sua vena di scrittore invece si riaccende collaborando alla nuova rivista torinese “Il cronista” a cui collabora, a cadenza regolare, con i suoi “Racconti, leggende, ricordi di vita italiana”, anticipando un proposito autobiografico che si sarebbe realizzato con esiti più rilevanti negli anni seguenti.
D’Azeglio ritorna così alla sua passione giovanile per la narrativa. Nel 1833 con la sua prima opera letteraria “Ettore Fieramosca” ovvero “La disfida di Barletta” aveva conteso al Manzoni il titolo di primo romanziere italiano. Nel 1846 aveva pubblicato “Gli ultimi casi di Romagna”, che non riscosse lo stesso successo della prima, ma accese in lui la dimensione politica e la volontà di scendere in campo a sostegno di Carlo Alberto di Savoia a cui offrì la sua collaborazione.
Con le opere a carattere storico D’Azeglio si impegnò in un piano di letteratura nazionale: “Io pensavo – narra nei suoi Ricordi – (come ancora lo penso), che del carattere nazionale bisogna occuparsi, che bisogna fare gli italiani se si vuol avere l’Italia, e che una volta fatti davvero, allora l’Italia farsi da sé. […] Il Fieramosca era il primo passo in questa direzione”. Quindi ribadisce:
”Io desideravo esclusivamente ridestare alti e nobili sentimenti ne’ cuori, e se tutti i letterati si fossero riuniti per condannarmi in virtù delle regole, non me n’importava affatto, ove senza regole mi riuscisse d’infiammare il cuore di un solo individuo…”
A “fine novembre ‘65” scrive ad Emanuele a proposito dei Ricordi: “Penso realmente di pubblicare due volumi delle mie Memorie che intitolo: Ricordi per modestia. […] Non credevo che il mio scopo sia stato di informare il pubblico di tutte le c… che ho fatto in vita mia. Le mie vicende sono un pretesto per parlare un po’ di tutto e un po’ di tutti. Siccome poi nei 22 milioni di Italiani, 17 non sanno leggere, né scrivere, né agire da galantuomini; siccome gli altri 5 sono ignoranti come capre e bisogna incominciar con loro con l’idea del fas et nefas, imprimendola se si può nella loro zucca; siccome a rifare un libro “de officiis” nessuno lo leggerebbe, così ho trovato questo nuovo genere, […] di fare il catechismo sotto forma di tante storielle che, se non altro, spero si lasceranno leggere”.
D’Azeglio quindi scrisse le sue memorie, che si fermano all’anno 1846. Iniziate nel 1863 e pubblicate incompiute nel 1866, anno della sua morte, con il titolo “I miei ricordi”, sono “un’autopsia morale”, come lui stesso le definì.
Scrisse inoltre numerosissime lettere raccolte nell’”Epistolario”: quasi cinquemila missive a seicento destinatari, scritte attraverso poco meno di mezzo secolo, che danno conto della personalità poliedrica e geniale di D’Azeglio.
Quest’opera è stata completata con il dodicesimo volume a cura di Georges Virlogeux, edito dal Centro Studi Piemontesi, annunciato su “Rassegna Stampa News” del 13 aprile 2021 con il titolo: ”Tra serietà e ironia le torrenziali lettere di Massimo D’Azeglio”.
Georges Virlogeuxmette a confronto“I miei ricordi”e“L’epistolario”:
“Sul piccolo mondo che il romito di Cannero si creò presto nella sua Cartagine tacciono “I miei ricordi”, interrotti dalla morte (1866), mentre l’Epistolario rinchiude molte tracce vive e significative. 5)
Se è pur vero che sugli anni vissuti a Cannero “tacciono i Miei Ricordi”, solo dalla lettura comparata di quest’opera con l’Epistolario possono essere compresi in tutta la loro interezza l’arte, il pensiero politico e la personalità a tutto tondo del personaggio più affascinante e geniale del Risorgimento italiano.
A sostegno del nostro pensiero, riportiamo quanto scrive Emanuele d’Azeglio introducendo l’opera di suo zio “Le lettere inedite di Massimo d’Azeglio al marchese Emanuele d’Azeglio”:
“Le lettere di mio zio concorrono a completare quel suo bel libro di Ricordi, troncato dalla sua morte al momento in cui, come mi disse, comincerebbero le difficoltà […] scrivendo a suo nipote, potè scrivere senza reticenze, e così mi sembrò utile far conoscere le sue lettere.”
Ne “I miei ricordi” D’Azeglio ripercorre con totale spontaneità tutta la sua vita, che certo non è la stessa di quella che troviamo nelle fredde biografie ufficiali, in cui prevale la dimensione politica, gloriosa, che noi abbiamo voluto mettere in secondo piano in questo racconto.
Dai ricordi ricostruiti fin dall’infanzia e dalle lettere indirizzate alle persone più intime e vicine al suo cuore affiora un’unica sensibilità e un’uniforme coerenza di pensiero: D’Azeglio, con il suo italiano fuori dell’ortodossia linguistica corrente, costruito con termini di vari dialetti, con il francese di suo uso quotidiano, con l’inglese e il latino, con totale spontaneità, lascia emergere tra le righe, spesso con autoironia, le sue emozioni, le sue passioni, le sue stravaganze, la sua rettitudine morale, la sua onestà, anche il suo pensiero sulla vita ultraterrena. Queste riaffiorano, anche attraverso i ricordi, come un continuum dall’infanzia fino agli ultimi anni vissuti a Cannero.
D’Azelio, descritto nelle biografie e raffigurato nei ritratti “di bell’aspetto, e di indubbio fascino” ne “I miei ricordi” si rivede quando a sedici anni, per la prima volta si recò a Roma col padre ministro: «aveva un bello ed elegante uniforme, andava a cavallo e in carrozza, e viveva alla pari con tutti i signori e principi romani, con ministri ed ambasciatori».
Il 9 ottobre 1867 da Cannero scriveva all’amico Pantaleoni:
“Noi siamo qui a far la solita vita.”
Una vita sicuramente diversa da quella vissuta in uniforme quando per un breve periodo fu allievo ufficiale, sottotenente di cavalleria nel Reggimento “Reale Piemonte” o con incarichi istituzionali alla reggia torinese, ma in cui esprime ancora la sua creatività e originalità. Scrive Giovanni Faldella nella sua prefazione: “Massimo d’Azeglio fu un vero originale. […] La caratteristica degli originali è di pensare con la propria testa e di agire con i propri umori, perciò di fare le cose diversamente dagli altri […] insomma fare il Bastian cuntrari come dicono i piemontesi”.
Se in gioventù era abile nella danza, nel canto e nella scherma, nel gioco del bigliardo, nell’ippica, nel nuoto, come emerge dai Ricordi, nella sua Cartagene sorgente lo si può immaginare in barca a pescare o a nuotare nel lago, che si apre davanti alla sua casa o seduto dietro un cavalletto tra pennelli e tubetti di colore, mentre ritrae o rievoca scorci di paesaggio. Vende di nuovo i suoi quadri come quando, “ricorda”, si era trasferito a Roma per imparare a dipingere alla scuola del fiammingo Martino Verstappen e doveva arrotondare i pochi scudi che da Torino gli inviava suo padre.
Gli amici che frequenta abitualmente non sono gli esuli illustri che hanno trovato una nuova patria sulla sponda piemontese del lago Maggiore. Questi erano legati a lui persino da parentela come Alessandro Manzoni, di cui aveva sposato in prime nozze la figlia Giulietta o da frequentazioni giovanili come quelle con Giulio Carcano e Cesare Correnti, che aveva conosciuti, nella parentesi di vita milanese, nei salotti politici di Tommaso Grossi, di Andrea e Clarina Maffei. Ci sono alcuni accenni nelle lettere alla moglie di sporadici incontri con questi personaggi. In particolare D’Azeglio ricorda un passaggio nella villa di Baveno dove muore proprio nel 1856 il “fedele” amico e ministro del Regno sabaudo Giacinto Provana di Collegno. 6)
Gli amici di Cannero sono quelli nuovi conosciuti nel 1856: il curato di Oggebbio Pietro Mongini; il ginecologo Scipione Giordano, un capomastro di Belgirate; il pittore Gaetano Ferri, esperto di spiritismo.
Infatti, come commenta Faldella nella sua Prefazione, D’Azeglio si definiva “aristocratico per nascita e democratico per scelta”.
Con gli amici di Cannero e sotto la guida di Ferri, per alcuni anni approfondì e sperimentò l’ultima sua passione, lo spiritismo.
Ne parla all’amico Panizzi in una lettera del 26 maggio 1865:
“Ho inteso parlare dello spiritismo da persone attendibili e mi sono detto vediamo poi crederò. Ho fatto una serie di esperienze da me e con tre o quattro persone sicure, ond’esser sicuro che non entrasse cialtronerismo […] Ecco ciò che ho trovato e che per me rimane definitivamente dimostrato. […] Si viene a porsi in comunicazione con un’intelligenza, esclusa ogni spiegazione puramente materiale […] Si assiste a fenomeni che prima avrei dichiarato impossibili…”7)
A Cannero accanto a D’Azeglio vive la contessa Laura Zanucchi, che Emanuele per riservatezza cita sempre con “NN”. Insieme a lei accoglie la figlia Alessandra e la nipote.
Scrive ad Emanuele il 30 maggio 1863: “L’aria per me è Cannero, dove ho Rina e la Laurina. Ci fo la vita di Diocleziano a Solona, e forse non avendo memoria d’aver fatto scorticare nessuno, sto meglio di lui”. Il 26 maggio 1865 gli scrive ancora: ”Qui ho casa. Fuori di qui son solo.”
Riceve gli amici più intimi, pianifica il loro viaggio con tutte le informazioni necessarie come fa con il nipote nella lettera da Livorno dell’8 agosto 1856:
“Sono proprio contento che verrai sul lago Maggiore […] l’albergo di Cannero non è lo Star and Gaster di Richmond; e perciò vieni preparato e senza illusioni […] Al casino starai alla meglio, perché ci sarà la San Martino, Bice e la Laurina coi mariti. Ma c’è modo di stare tutti volendo il necessario e non il superfluo. Per venire a Cannero non v’è che due vapori al giorno. […] C’è un’ora di traverso in barca. Se il lago è agitato è un guaio…” 8)
I suoi ospiti troveranno anche vino di qualità: “Di vini ho del Mâcon, del Bordeaux e dell’Aï. Mi paion buoni. Altrimenti per noi va sempre il vin d’la boutala.”
I destinatari delle lettere a cui rivela il lato più autentico della sua personalità sono le persone a cui è legato da amore, stima, profonda amicizia: la seconda moglie Luisa Maumary, vedova di suo zio Enrico Blondel fratello di Enrichetta prima moglie di Alessandro Manzoni, da cui vive separato per incompatibilità di carattere, ma che ha continuato ad essere la sua confidente nella sfera politica e nella sua attività di pittore e imprenditore di se stesso; la figlia Alessandra, affettuosamente chiamata Rina, nata dal primo matrimonio con Giulietta Manzoni, morta subito dopo la sua nascita; il fratello Luigi, gesuita, con cui si scontra affettuosamente sugli argomenti di fede; il medico e politico maceratese Diomede Pantaleoni, “uomo di dottrina, di mondo, di patria e di religione”, già suo primo aiutante di campo, vicino al politico Matteo Ricci sposo di Rina D’Azeglio.
In queste lettere i contorni esatti dell’uomo privato si compongono in una fisionomia più varia e sfaccettata attraverso i suoi giudizi spassionati, le sue idiosincrasie, i suoi mutamenti d’umore. Nelle lettere alla figlia è il padre amorevole e il nonno benevolo che offre i suoi consigli per una educazione fatta di fermezza, ma anche di gioco e di estrema vivacità. Alla moglie Luisa scrive 327 lettere. Nell’ultima del 19 Ottobre 1865 le esprime tutto il suo devoto attaccamento: “Addio, moglie mia del mio cuore; vogli bene al tuo povero Massimo, che ha tanto bisogno di te, e presto forse l’avrà più che mai; abbraccia la nostra cara Rina, e parlale di me e della nonna”. La lettera si chiude con un “grazie di tutto!”
Quando si ammala gravemente, torna a Torino. Luisa lo raggiunge tre giorni prima della sua morte, avvenuta all’alba del 15 gennaio 1866.
Nella lettera a don Giulio Ratti del 24 novembre 1865 si concludono le non poche testimonianze sulla fede contenute nell’epistolario:
“Gli anni scorsi mi vedevo invecchiare con tristezza e dicevo: Dio mio volete proprio che esca di questa vita senza esaudirmi, senza mandarmi un raggio che m’illumini? […] Ora Dio m’appare come un padre, un benefattore, lo amo, lo benedico, sento una fiducia consolata pensando al futuro. […] Non m’importa più d’invecchiare, ora te l’assicuro io! […] Certi momenti mi dico: mi sarebbe girata la boccia? Eppure sento che non m’è girata”.9)
L’ultima lettera da lui scritta, diretta al vecchio amico francese Gustave de Reiset, Massimo d’Azeglio non ebbe la forza di scriverla. Chiese a Laura Zanucchi, definita dallo storico Carlo Ghisalberti “la consolatrice delle tarde ore grigie”, di farlo per lui : “lui, il est patient, serein, résigné à tout”.
1) “Cartagine che sorge”: lettera del 18, IX, ’56, “Lettere di Massimo d’Azeglio a sua moglie Luisa Blondel”, a cura di Giulio Carcano, Rechieri-Carrara, Mi, 1871.
2) “M. D’azeglio e D. Pantaleoni-Carteggio”, prefaz. G. Faldella, 1888, L.Roux e C.
3) “Lettere inedite di Massimo d’Azeglio al marchese E. d’Azeglio, documentate da Nicodemo Bianchi, Roux e Favale, Torino, 1883, Lettera del 12 luglio, p. 279.
4) “Lettera ad Emanuele”, op. cit.,1 ottobre 1856.
5) “Massimo d’Azeglio Epistolario 1819-1866”, a cura di Georges Virlogeux , Torino, Centro Studi Piemontesi, vol. XI, 2022.
6) Su “Il Cronista” D’Azelio pubblica “Ricordo di una vita italiana”, un commosso commiato dopo la morte di Giacinto Provana di Collegno.
7) Colombo A., “Lettere inedite di Massimo e Roberto d’Azeglio a Antonio Panizzi, in Bollettino Storico Bibliografico Subalpino, Supplemento Risorgimento, n. 1.
8) La strada che da Intra conduce a Cannero era molto disagevole in carrozza per la montagna a strapiombo sul lago. Non esistendo ancora imbarcaderi, dai battelli i passeggeri venivano portati a riva con le barche.
9) “Massimo d’Azelio- Epistolario 1819-1866”, op. cit, vol.XI.
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