METTERCI LA FACCIA

In tutti gli ambiti professionali gli addetti ai lavori amano distinguersi dai dilettanti usando una terminologia tecnica e sofisticata, in continua evoluzione.
Una sfrenata corsa al neologismo utile a mettersi in mostra e a distanziare i “principianti”.
Figuratevi quindi nel mondo della politica, che è comparto che produce praticamente solo parole, giacché ritiene i fatti troppo complicati e faticosi.

Tra le new entry più recenti la sostenibilità, la transizione ecologica e l’insuperabile resilienza.
Ma non si trascurano nemmeno i modi di dire e le frasi fatte che vengono riesumate per il loro sapore di saggezza popolare, di attaccamento alle tradizioni.
Alla nuova destra e soprattutto alla sua leader piace molto il “metterci la faccia”.
In fondo, tolto il visconte di Bragelonne (Alexandre Dumas: La maschera di ferro) tutti la mostrano quotidianamente e senza imbarazzo.
Credo che usi la frase quando vuol segnalare un suo atto di coraggio, una iniziativa non scontata e controcorrente Quando decide di adottare decisioni che possono essere fraintese e che rischiano di far perdere voti.

Come sceglie le battaglie che meritano l’esposizione di quel suo viso che gioca tra l’ironicoe l’ammiccante?
L’uso più comune è quando vuole richiamare ad unità la sua articolata maggioranza.
Dopo giorni in cui ministri, capigruppo e semplici parlamentari sfoderano i loro personali punti di vista su temi delicati, lei segnala qual’e’ la mediazione che ha deciso di cavalcare, con ciò chiudendo ogni possibilità di discussione.
Altro caso: quando un suo progetto è oggetto di aspre critiche dell’opposizione comunica così che non ha alcun tentennamento e non ci sono spazi di mediazione.


Poi -e sono le occasioni più sentite personalmente- quando sbatte contro un caposaldo del “politicamente corretto” (lei lo chiama -con involontario autolesionismo- il pensiero unico”).
Sembra veramente eccitata alla idea di andare all’assalto di qualche monumento di quello che lei considera un mondo in malafede, fatto di buonismo ipocrita, di solidarietà di facciata, di snobismo culturale, di sufficienza intellettuale.
Sono i momenti più delicati perché fatica a controllarsi e tende a dichiarare più di quanto opportuno.

In tutti i casi, comunque, sono campagne identitarie -ben studiate a tavolino- in cui la destra seleziona nuovi amici e nemici, modernizza i vecchi valori, aggiorna il bagaglio ideologico.
L’ultimo esempio è quello di Caivano e del decreto omonimo.
Un luogo abbandonato e fuori controllo che rappresenta emblematicamente tutte le periferie metropolitane italiane.
Dove si incrociano molti problemi: recrudescenza della delinquenza minorile, abbandono scolastico e insufficiente corpo docente, genitori assenti, gang giovanili, disponibilità di troppe armi.
Il decreto è il trionfo del vietare e punire: arresto a 14 anni (Salvini che tende a esagerare si era spinto fino ai 12), responsabilità penale per i genitori e perdita della potestà genitoriale, “daspo” urbano, limitazione nell’uso del cellulare, possibile trasferimento al carcere degli adulti.


L’opposizione risponde che il proibizionismo non funziona mai e che questi fenomeni si affrontano con una efficace prevenzione.
È possibile che in questo paese non si riesca mai a scavalcare i muri ideologici e finalmente si capisca e si accetti che i problemi vanno risolti con un mix di misure: la sinistra non può demonizzare ogni forma di divieto e sanzione, la destra opporsi ad ogni assistenza psicologica e culturale.


Ad un giovane devi comminare un castigo proporzionato ma devi anche prospettargli una alternativa “realistica”, possibilmente accompagnata da qualche strumento utile a raggiungerla. Il decreto di fatto rende adulti i bambini, riconoscendoli perseguibili, sulla base della constatazione giusta che oggi gli adolescenti sono più maturi, informati e coscienti.

Ma se li riempi di doveri, vincoli, obblighi, allora devi concedergli anche i diritti equivalenti.
È venuto il momento di riconoscere il voto ai sedicenni e tutto l’apparato che ne consegue.
In fondo la migliore prevenzione è renderli consapevoli della loro “autoresponsabilita”, della autonomia che hanno (in assenza della scuola e della famiglia) nel scegliere tra il bene e il male.


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