Guardalo là, quel povero ubriacone! Guarda quel naso rosso, quegli occhi persi. È ricoverato all’ospedale militare; sono i suoi ultimi giorni di vita. Per le corsie gira un pittore, Ilja Repin, che gli fa il ritratto. Eccolo.
La sua è, fin da prima di nascere, una brutta storia complicata.
Mamma e papà hanno un primo bambino: si chiama Aleksej e a un anno muore. Ne replicano subito un altro, chiamano anche questo Aleksej e anche questo muore nello stesso modo.
A quel punto i genitori si fanno furbi: se la morte si prende gli Aleksej, per imbrogliarla basta cambiare nome ai bambini e tutto andrà bene.
Così al terzo danno un nome particolare: Filaret e infatti lui sopravvive. Ha funzionato, e allora il quarto, il nostro, sarà Modest, Modest Petrovic Musorgskij.
Modest nasce e cresce in campagna insieme ai contadini di suo padre, che è un ricco latifondista, e impara le canzoni popolari dalla tata. Appena può prova a suonarle al pianoforte e la madre, colpita dal suo talento, comincia a dargli lezioni di musica. Forse è anche così che nasce il rapporto strettissimo del bambino prima, del giovanotto poi, finalmente dell’adulto, eterno immaturo legato in modo permanente e malato, con la figura materna.
Quando ha dodici anni, insieme a suo fratello Filaret, lo mandano a San Pietroburgo a studiare e, volente o nolente, finisce avviato alla carriera militare. Però continua a frequentare la musica e suo padre, l’anno dopo, fa pubblicare a proprie spese la sua prima composizione “Polka del portabandiera” dedicata ai compagni cadetti.
Quindi, sì alla carriera militare, ma senza chiudere la musica fuori dalla caserma.
Dopo qualche anno capita come ufficiale all’ospedale dell’esercito dove conosce Borodin, altro militare-musicista e tutti e due, durante le licenze, rallegrano i salotti borghesi della città suonando arie di Verdi e altri operisti alla moda. La fratellanza musicale prosegue, anzi si allarga fino a formare il Gruppo dei Cinque (Scuola Nazionale di Pietroburgo), con Kjui, Balakirev e Rimskij-Korsakov, che diventerà il battaglione d’assalto della nuova musica russa.
Sotto la guida di Balakirev, Musorgskij perfeziona moltissimo la sua tecnica; finalmente nel 1860 si trasferisce a Mosca, abbandona la carriera militare e diventa musicista a tutti gli effetti.
Qui gli casca addosso il primo dei macigni che gli rovineranno la vita. Lo Zar Alessandro II abolisce la servitù della gleba e all’improvviso il ricco proprietario terriero che prosperava sul lavoro degli schiavi contadini, suo padre, diventa povero, anche per l’incompetenza del fratello Filaret che amministra l’azienda. Lo sfortunato Modest non si può più permettere di vivere a Mosca e torna al paesello dai suoi, accettando perfino un impiego in un ufficio statale.
Arriva il secondo colpo: muore la madre, a cui, come abbiamo detto, lui era morbosamente legato e questo lo fa ricadere nell’abisso che poi lo inghiottirà: l’alcolismo (al quale si era già entusiasticamente dedicato da ragazzo).
Malgrado tutto, adesso affronta decisamente la strada della composizione e dalle sue mani non ancora del tutto tremanti nel delirio dell’alcol, esce la famosa “Notte sul Monte Calvo” e poi, un parto lento e faticoso, il “Boris” e finalmente i “Quadri di una esposizione”.
Sempre più squattrinato, accetta il posto di pianista accompagnatore in una serie di concerti della cantante Darja Leonova in Ucraina e Crimea, ma questa marchetta non basta a risollevarlo e alla fine si trova ridotto a insegnare il solfeggio ai bambini e ad accettare l’elemosina di colleghi più fortunati, fra cui Rimskij-Korsakov, che lo ammirano ancora come musicista, ma non più come uomo; infatti, uno dopo l’altro lo abbandonano; come lo dimenticano la critica musicale e le istituzioni.
Intanto la miseria, l’infelicità e l’alcool continuano a lavorare alla sua distruzione fisica. Troppo tardi, tramite un impiccio burocratico organizzato da un amico medico, Modest riesce a farsi ricoverare all’ospedale militare di San Pietroburgo. Qui muore il 28 marzo dell’81.
Per dare una sintesi della fragilità di Musorgskij il suo biografo Dobrovenskij ci spiega che “Con il passare degli anni Musorgskij non crebbe separato dalla figura materna, come fa la maggior parte delle persone, perseguendo l’interesse di una vita indipendente. Lui non si distaccò mai interamente, non divenne mai autonomo. Trovarsi orfano per lui fu veramente orribile: non perdonò mai la morte per questa pena inflittagli”.
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