La prima volta che vidi Enzo Jannacci fu ne La vita agra, il film che Carlo Lizzani nel 1964 trasse dal bellissimo libro di Luciano Bianciardi. Jannacci entrava in scena in una osteria a cantare una delle sue strane e stralunate canzoni, che erano dei nonsense. La canzone era “L’ombrello di fratello” e cominciava così: “Non so se è la prima volta che si sente questa storia,/la storia di uno che cercava un ombrello,/ l’ombrello di suo fratello.”.
Come potevi non incuriosirti a sentire una canzone simile, cantata da un giovanotto con gli occhiali, con la chitarra sotto il mento, e l’aria imbambolata e la fissità tipica dei suonatori ciechi. Allora non c’era internet per cui basta digitare il nome e sai tutto.
Allora bisognava aspettare che la televisione si accorgesse di questo strano tipo, oppure andare in discoteca e vedere se per caso aveva già pubblicato qualche disco. Se approfondivi ti rendevi conto che un personaggio così non era nato per caso in quella Milano degli anni Sessanta, così piena di fermenti culturali, nella letteratura e nelle arti ma anche nel teatro, stimolato da Grassi e Strehler con il loro Piccolo Teatro, ma anche da Dario Fo con il suo teatro alternativo ancorato nella tradizione della commedia dell’Arte. Ma c’era anche Nanni Ricordi che aveva raccolto nella casa discografica omonima giovani cantautori che faranno la rivoluzione nella canzone d’autore, come Gaber, Tenco, Endrigo, Bindi, Paoli, Ornella Vanoni e appunto Jannacci. Mentre al cabaret Derby facevano le loro prime esibizioni Cochi e Renato.
Anche la televisione milanese aveva una sua precisa connotazione, e quasi una sua autonomia e si faceva interprete di tutti quei fermenti culturali. Ricordiamo le trasmissioni di Giorgio Gaber, come Canzoniere minimo ma anche i programmi di varietà come Quelli della domenica che rivelò Villaggio, Cochi e Renato e anche il romano Montesano. E Il poeta e il contadino che aveva come autore proprio Jannacci.
Era la Milano, capitale del “miracolo economico”, della grande emigrazione interna, che mischiò le carte sociali e creò un fenomeno di meticciato che è sempre alla base delle più profonde trasformazioni sociali. Anche il nonno di Jannacci era stato portato a Milano da questa “piena”, come lui chiama questa emigrazione improvvisa e profonda in una sua canzone Songo venuto, il cui testo dice: “Ma senti ben, son’t un terun/la bella nebbia la me sgiunfia li pulmun/ e io ignurante che non ci volevo neanche venire./ E’’ bbella e giusta la città e qui ce n’è da lavurà! /E’ bbella e nordica città e qui ce n’è da lavurà!”.
In questa canzone si sente anche la fusione fra la lingua degli emigrati e quella dei milanesi, che fu alla base della straordinaria intuizione che avrà poi Diego Abatantuono e che certamente gli fu suggerita dallo stesso Jannacci. Ma anche se sono le più belle e quelle che sono rimaste più impresse nella memoria collettiva le canzoni che cantano gli “ultimi”, non sono le uniche perché Enzo ci ha lasciato anche bellissime canzoni d’amore, o canzoni descrittive di stati d’animo, di conflitti generazionali, o anche scherzi come Una scorza di limone che scrisse con Giorgio Gaber e che lanciarono insieme come I due Corsari.
Enzo Jannacci è stato un personaggio particolare nella storia della canzone italiana, il suo modo di fare canzone particolare, capace cioè di toccare quella ironia tragica e struggente del barbone delle scarpe di tennis, come sono tragici e struggenti i personaggi che lo ispirarono. Fu attore Jannacci, di sottilissima fattura, con quella sua aria stralunata, quel suo modo di parlare sincopato, con la battuta che arriva di rimbalzo e che ribalta la situazione.
Era laureato in medicina e fece il medico, anche bene e con professionalità, fino all’età della pensione. Anche per questo Enzo Jannacci fu un personaggio unico della cultura italiana del Novecento.
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