Capitale del Proche-Orient
SEBASTIANO MAFFETTONE
Napoli può essere per l’Europa un luogo ideale per trovare quella nuova identità, che i mutamenti geopolitici, economici e culturali sullo scenario mondiale degli ultimi decenni rendono quantomai necessaria. Ciò non solo per la grande tradizione che caratterizza la vecchia capitale del Mezzogiorno d’Italia. Ma anche per la posizione geografica di Napoli, nel cuore del Mediterraneo, per la sua storia di città Europea e globale, per la vivacità dell’economia e per la natura policentrica e globale della sua cultura.
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Se ci si interroga poi sulla collocazione di Napoli nel contesto europeo non è difficile cogliere il filo di una duratura continuità nel tempo di questo rapporto, e soprattutto, del carattere che esso assume sin dall’inizio e conserva ancora oggi. Napoli, come città e come città capitale di un Regno la cui estensione deve essere immaginata come quella di un Regno di media grandezza nel quadro di un’Europa nella quale, prima e accanto alla formazione dei grandi Stati moderni, la taglia della statualità è assai frammentata e di dimensioni generalmente assai più ridotte da quelle odierne, è sempre stata considerata parte integrante e significativa di ciò che via via nel corso del tempo si è chiamata Europa-
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Napoli non solo ha avuto un peso politico costante nel gioco del sistema di potenze europee, ma ha anche acquistato nel tempo una fisionomia storico-artistica peculiare che così nel campo delle arti figurative, come in quello della musica e della rappresentazione letteraria, vengono vissute come parte integrante di ciò che si può definire “civiltà europea”. A ciò si può aggiungere il ruolo economico che ha conosciuto in età medievale e moderna una visibile integrazione nei circuiti mercantili a scala continentale.
Questo -una volta fissata con convinzione la naturale collocazione nel quadro dell’Europa e della sua vicenda storica- ci porta a una seconda considerazione: Napoli è stabilmente considerata come la punta avanzata del continente e della sua civiltà verso Sud.
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Abbiamo detto dall’inizio che la questione di fondo riguarda il ruolo del Sud dell’Europa e di Napoli in particolare in rapporto all’identità europea. Questo tema impone una riflessione ulteriore che muova dall’evidente tramonto dell’egemonia dell’Occidente su scala globale e dal contributo che la cultura di Napoli e del Mezzogiorno può dare per mediare tra la cultura occidentale dominante finora e le nuove esigenze di decolonizzazione anti-occidentale. Il bacino del Mediterraneo è perlomeno dal tempo dei Greci all’origine della civiltà europea, ma al tempo stesso ha visto sorgere le grandi religioni abramitiche. Abbiamo parlato di identità europea. Identità vuol dire valori e tradizioni propri. In quanto tali differenti da quelli degli altri. Ma vuol dire anche premessa per il dialogo. E non c’è -a nostro avviso- conflitto tra difesa della propria identità e capacità di dialogo. Anzi. Siamo convinti che il dialogo tra popoli con identità diverse si basa sui fondamenti reciproci delle proprie culture. Non c’è dialogo vero -anche dal punto di vista europeo- se si tralasciano i propri valori e le proprie tradizioni religiose e culturali, ovviamente nel pieno rispetto di quelle degli altri. Né si deve dimenticare che le grandi conquiste liberali dell’età dell’Illuminismo traggono origine dai fondamenti greci e giudaico-cristiani della civiltà europea.
Un problema del genere è stato enfatizzato negli ultimi decenni da uno dei più grandi pensatori del nostro tempo, Juergen Habermas, che ha introdotto nella discussione pubblica la tematica del post-secolare. Tematica quest’ultima che è divenuta centrale negli ultimi tempi per la necessità oggettiva di ripensare il rapporto tra fede e ragione in un orizzonte teorico-politico liberale contemporaneo, anche alla luce del rapporto sempre più stretto tra culture diverse e dell’affermarsi di un dialogo interreligioso.
La cultura politica dell’Europa e dell’Occidente è basata sulla liberal-democrazia. La tesi è che non c’è contrapposizione tra questa e la religiosità di base di popoli. E culture. Da questo sfondo storico e filosofico, nasce la mia idea che si basa sulla contrapposizione tra secolarismo e liberalismo. La premessa è che la secolarizzazione delle coscienze e del mondo non è mai avvenuta in senso compiuto, se non forse tra i professori di alcuni dipartimenti universitari in Europa e Nord America. Dappertutto, la maggior parte della popolazione trova ancora nella religione e nella fede il suo radicamento più profondo e la base per le sue visioni comprehensive, che sono poi quelle le cui pretese normative coprono gli aspetti principali dell’esistenza umana e del senso della comunità. Ci sono aree del mondo dove ciò è più evidente, come per esempio il Medio Oriente, ed è un fatto di cui tenere conto. Ma la cosa vale in tutte le parti del globo. Il processo di secolarizzazione, invece, spesso è riuscito a permeare le istituzioni pubbliche, che era poi lo scopo primo della secolarizzazione dopo le guerre di religione. La secolarizzazione dello Stato ha avuto come conseguenze positive il pluralismo delle fedi e la libertà religiosa, ma non la laicizzazione delle coscienze. Se ciò è vero, come io credo, allora è sempre più importante – teoricamente e praticamente – distinguere la secolarizzazione culturale, mai avvenuta in realtà, dal liberalismo, cioè dalla secolarizzazione istituzionale.
Nel procedere in questa direzione, il tema da cui partire è quello del post-secolare. Il termine “post-secolare”, come si detto, è stato reso famoso da Jürgen Habermas, già da parecchi anni. Nella mia versione, l’idea centrale implicita in esso dovrebbe essere quella per cui la religione conta molto sulla scena politica globale proprio perché la secolarizzazione delle coscienze non ha mai davvero avuto luogo.
Per questo motivo, siamo invitati ad abbandonare il tradizionale secolarismo normalmente associato alla modernità e a diventare così tutti post-secolari. C’è stata, però, negli ultimi anni – come qualcuno ha detto – una sorta di “rivincita di Dio”: dopo il 1989 c’è stata una nuova enfasi sul suo ruolo pubblico. Una delle ragioni di questa rinascita è evidente. Dalla fine della Seconda guerra mondiale al 1989 la principale spaccatura mondiale è stata di natura socioeconomica, a partire dal conflitto tra comunismo e capitalismo. Dopo il tramonto del comunismo, nel 1989, il principale divario politico mondiale è diventato invece di natura culturale, mantenendo perciò al centro il problema religioso.
Il post-secolarismo trae parte del suo fascino da questa premessa di natura storica. Ecco perché per molti studiosi abbracciare il post-secolarismo significa adottare concezioni, terminologia e mentalità più vicine alla religione nell’ambito della teoria politica e sociale. Questo tipo di atteggiamento abbastanza diffuso implica normalmente prendere una certa distanza dal liberalismo. Il mio atteggiamento, invece, è diverso proprio su quest’ultimo aspetto della questione. Perché partiamo piuttosto dalla constatazione che – dal punto di vista post-secolare – non dovremmo essere laici ma liberali. Infatti, nessuno, né in Occidente né in Oriente, dovrebbe negare il ruolo che la religione svolge all’interno della sfera pubblica. La religione è senza dubbio una parte fondamentale di qualsiasi cultura e la grande maggioranza delle persone nel mondo si dichiara religiosa. Non essere laici, tuttavia, non significa abbandonare il liberalismo. Al contrario, credo che da un punto di vista politico il modo migliore per conciliare le religioni con il pluralismo e la libertà religiosa sia il liberalismo. Essere liberali è il modo migliore per l’apertura alle fedi nella loro pluralità essenziale. E questo è un buon motivo per essere liberali.
Quanto detto spiega perché Napoli e il Sud di Europa, essendo nel Mediterraneo terra di coltura delle religioni abramitiche e avendo assorbito la cultura politica liberale sulla scorta della tradizione giudaico-cristiana, sono in una prospettiva ideale per aprire un dialogo con altre culture al di fuori dell’Occidente.
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Come abbiamo detto, Napoli, dal XII secolo all’Unità d’Italia (1861) è stata dunque capitale di un Regno di rilevante grandezza, parte integrante e significativa di ciò che via via nel corso del tempo si è chiamata Europa. In questo lungo periodo, ha assunto un carattere liberale peculiare, definibile come “accoglienza ed elaborazione della diversità”, che nei secoli e fino ad oggi si è consolidato. Carattere questo che ha acquistato nel tempo anche una fisionomia storico-artistica peculiare che così nel campo delle arti figurative, come in quello della musica, del teatro e della rappresentazione letteraria, vengono vissute come parte integrante di ciò che si può definire “civiltà europea”.
Si tratta di una “Napoli oltre Napoli”, come ci piace chiamarla, che dovrebbe rappresentare valori e visione della città, indubbiamente legati alla sua storia, in un orizzonte purtuttavia profondamente rinnovato per ragioni intellettuali e geopolitiche. Due sono, in particolare, gli aspetti in cui la cultura materiale di Napoli può oggi influenzare l’Europa e il mondo. Da un lato, la città che ha prodotto tanta ricerca scientifica e innovazione imprenditoriale è anche la città delle mille Accademie, che dalle origini greche a Vico e Croce hanno caratterizzato la sua vita intellettuale. Proprio perciò, può rappresentare il luogo ideale in cui fare convergere scienza, imprenditoria e humanities, ispirando in questo modo la società e la vita dell’Europa e del mondo nella maniera flessibile che il nostro tempo richiede. Da un altro lato, Napoli può costituire la faccia europea della cultura mediterranea, dando in questo modo peso e valore a quell’Europa del Sud troppo spesso dimenticata nella visione dell’Unione Europea. Non si può dimenticare tra l’altro che -nella prospettiva globale- stiamo assistendo a una crisi epocale del modello culturale, scientifico e imprenditoriale atlantico che ha dominato la vita del pianeta dal 1945 in poi.
In questa situazione metastorica, è possibile immaginare che lo “spirito di Napoli” -così come lo ha battezzato di recente l’Unesco- possa fornire all’Occidente e al mondo intiero il modello di una visione generale più inclusiva e adatta ai tempi.
Da questo punto di vista, Napoli diviene bandiera di un “Più a Sud”, che nella storia d’Europa significa ancora oggi molte cose, ma quello che è importante da cogliere per capire il ruolo di Napoli oggi è che questa condizione è sempre esistita e appartiene alla coscienza dei napoletani come alla coscienza degli europei. Questa tradizione specifica assume particolare valore nell’emergere progressivo di un “Sud globale”, in termini a volte schiettamente anti-Occidentali. Nell’ambito di questo confronto, a Napoli si chiede di essere il luogo in cui l’Europa ha sviluppato una antropologia della comprensione dell’altro che è sviluppo peculiare (e oggi assolutamente indispensabile) di quei percorsi di tolleranza, di eguaglianza e di libertà, che si sono affermati storicamente nel nostro continente. E’, quella napoletana, un’Europa che più di altre può parlare con il mondo globale. L’epicentro di un nuovo Proche-Occident, di un vicino Occidente, che non c’è mai stato e può avere un grande futuro.
Tutto ciò non vuole avere un sapore antiquario. Al contrario, si tratta di un’occasione straordinaria per evidenziare e sottolineare il proficuo ruolo di Napoli, ma anche per riflettere su come, da una così profonda e stratificata cultura, si possano generare ulteriori stimoli ed azioni forti ed efficaci per incidere sul contesto più arduo ed a noi più vicino: l’Europa! Come sappiamo quest’ultima sta per entrare in una necessaria e rinnovata fase di constituency, di sfide globali. E’ per questo che le nostre radici, i nostri valori e la visione che da essi scaturisce possono far coesistere umanesimo e tecnologia, visione e capacità di adattamento – la flessibilità necessaria per i grandi cambiamenti, inclusività e spirito del tempo.
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