Conclusioni e linee di tendenza comuni ai due Stati
Tredici/A Hermes Storie di geopolitica – Europa
Giulio Ferlazzo Ciano
Dottore di ricerca in Storia contemporanea
Giulio Ferlazzo Ciano nell’articolo “Nel cuore dei Balcani occidentali, tra sogni d’Europa e disillusione” propone un’analisi su Bosnia-Erzegovina e Montenegro suddivisa in tre momenti:
- Bosnia-Erzegovina, una Jugoslavia in miniatura. Passato e presente di una terra di confine senza dimenticare la lezione di Ivo Andric premio Nobel per la letteratura.
- Montenegro: Occidente balcanico o Serbia mediterranea? Storia di una piccola patria.
- Bosnia Erzegovina e Montenegro, due pezzi d’uno Stato mutilato. Conclusioni e linee di tendenza comuni ai due Stati
Segue la terza parte.
24 aprile 2024
3. Bosnia Erzegovina e Montenegro, due pezzi d’uno Stato mutilato
Entrambi gli Stati di cui si è fatta una ricognizione niente affatto esaustiva, ma auspicabilmente sufficiente a comprenderne i fondamenti storico-identitari e gli aspetti più salienti del loro presente, hanno senz’altro una caratteristica in comune: sono in tutto o in parte “pezzi” di uno Stato nazionale mutilato, la Serbia, che per ragioni storiche a noi prossime ha pagato un prezzo molto alto per le sue stesse incontestabili e gravi responsabilità nel corso del processo di dissoluzione della Jugoslavia1. Il Piemonte degli Slavi del sud – come a cavallo tra Ottocento e Novecento si definiva la Serbia, in ragione delle sue ambizioni egemoniche sullo spazio balcanico nordoccidentale – dopo aver realizzato lo splendido proposito di creare una patria grande e rispettata per serbi, croati, sloveni e slavo-macedoni, non ha compreso sufficientemente in fretta che le esperienze storiche e di governo nelle diverse parti dello Stato, così come le ragguardevoli differenze religiose e culturali, nonché la cospicua presenza di minoranze etniche estranee alla famiglia slava meridionale (albanesi in primis e, prima della Seconda guerra mondiale, anche di ungheresi, tedeschi e, in misura minore, italiani), necessitavano di essere amalgamate tra di loro senza fretta eccessiva o eccesso di centralismo livellatore.
A differenza del Piemonte (Regno di Sardegna), che estese le sue istituzioni liberali e il suo sistema amministrativo su di una penisola, quella italiana, poco più vasta dello spazio jugoslavo, ma nel complesso storicamente, etnicamente e culturalmente più omogenea di quanto non fosse il territorio popolato da serbi, croati e sloveni, la Serbia avrebbe avuto tutto l’interesse a preservare per qualche tempo le stratificazioni che vi si erano affastellate nel corso dei secoli, al fine di intraprendere un lento percorso volto a costruire un comune senso di appartenenza jugoslava delle diverse comunità che abitavano lo Stato. Dovendo oltretutto fare i conti con quella tragica frattura storica che per secoli aveva diviso lo spazio jugoslavo tra due modelli di civiltà, quella euro-occidentale, di matrice austro-ungherese e veneziana, e quella euro-orientale, di matrice bizantina prima e turco-ottomana in seguito. Quasi si trattasse di una “cortina di ferro” rimasta per quasi un millennio a marcare indelebilmente il confine tra due aree d’Europa che hanno conosciuto modelli di sviluppo politico, economico e sociale totalmente diversi. Noi europei abbiamo in parte ancora oggi sotto gli occhi cosa abbia prodotto un simile divario in poco meno di mezzo secolo tra il 1945 e il 1989 (una frattura che, ad esempio, non si è pienamente rimarginata in Germania). Non è possibile immaginare cosa ne sarebbe stato del rapporto tra Europa occidentale e orientale se tale frattura non solo fosse sopravvissuta fino ai giorni nostri, ma si fosse anche prolungata per secoli. Così come invece è stato nei Balcani occidentali.
Sfortunatamente la Serbia ha accolto la sua missione unificatrice con un approccio votato ad eccessivo ottimismo, identificandosi con modelli europei (la Prussia per la Germania, il Piemonte per l’Italia) che poco si addicevano a una realtà dove una frattura millenaria fra zone di influenza aveva di fatto contribuito a creare equilibri identitario-religiosi molto instabili e suscettibili di qualsiasi minima variazione. E dove peraltro, nella zona di influenza orientale, non mancavano desideri di rivalsa e vecchie ruggini intercomunitarie che si erano incancrenite dopo secoli di dominio di una di queste comunità (quella dei musulmani, di etnia serbo-croata o albanese) sulle altre, tale da produrre scie di sangue e conseguenti desideri di vendetta intergenerazionali. Il non avere compreso in tempo la delicatezza degli equilibri esistenti (sia tra le regioni occidentali ed orientali, ma anche all’interno dello stesso spazio orientale, nel quale la Bosnia-Erzegovina era maggiormente esposta perché, ad un tempo, terra di confine tra due Europe sviluppatesi per secoli in parallelo con modalità diverse e a sua volta attraversata dalla storica faglia che aveva segnato la linea di demarcazione del popolamento nella regione illirica di serbi e croati) ha prodotto l’implosione di quella Jugoslavia che la Serbia considerava quasi una sua creazione e per cui si sentiva moralmente investita del diritto ad esercitarvi un dominio paternalistico.
Quasi si trattasse di una Grande Serbia, come erroneamente credettero il primo ministro serbo Nikola Pašić, vero demiurgo e architetto della Jugoslavia, il re Alessandro I Karađorđevic, sovrano serbo adagiatosi a regnare con derive autoritarie su uno Stato multiconfessionale e multietnico, e, alla fine del Novecento, Slobodan Milošević. La Seconda guerra mondiale, con i suoi orrori prodotti nel contesto di quella che già, per certi aspetti, fu il primo tempo di una sanguinosa guerra civile tra popoli della Jugoslavia, dette ai serbi – usciti moralmente vincitori dal conflitto e sovente con la palma del martirio, soprattutto nelle regioni abitate da croati e musulmani-bosniaci – la giustificazione morale per persistere in quello stesso errore, protrattosi anche durante la prima fase del regime titino, fino all’estromissione del potente ministro serbo e capo della polizia politica (UDBA) Aleksandar Ranković, nel 1966. Da allora sono bastati appena vent’anni a generare nell’opinione pubblica serba un misto di vittimismo e rancore verso quei popoli e quelle minoranze etniche che di quella rimozione avevano approfittato per dare la stura alle loro rivendicazioni contro la nazione che, quasi da sola, aveva dapprima dato il sangue per unificare i popoli slavi del sud e in seguito per restituire onore e dignità a quegli stessi popoli che non avevano esitato a collaborare con gli occupanti nazi-fascisti. Sacrificio ripagato, dal punto di vista serbo, con disprezzo e ingratitudine.
Sono bastati dunque poco più di vent’anni di una simile narrazione a produrre la rottura traumatica del patto che teneva precariamente in piedi la Jugoslavia federale e socialista riprogettata dal croato maresciallo Tito e dallo sloveno Edvard Kardelj. E sono bastati poco più di vent’anni a far reagire i serbi in modo dissennato di fronte al progressivo sfaldamento di quel patto, accelerandone essi stessi la fine e producendo, quale effetto collaterale di quella demolizione incontrollata dello Stato sotto l’effetto di un cieco fanatismo nazional-sciovinista, la frantumazione dello stesso Stato serbo. Serbia che oggi non è più uno Stato unitario, ma si ritrova diviso in tre parti: la Repubblica di Serbia, il Montenegro e la Repubblica serba di Bosnia. È più che naturale ritenere che prima o poi le tre parti tentino di nuovo la strada della riaggregazione e sarebbe persino folle pensare di ostacolarla. Il problema è che, pur venendo a mancare lo Stato degli slavi nel sud nella sua forma unitaria, non sono venuti meno gli equilibri precari tra i popoli che lo abitavano. Così che un qualsiasi mutamento dell’attuale equilibrio politico e territoriale tra Stati della regione rischierebbe di produrre effetti imprevedibili, senza escludere nuovi conflitti interetnici o – sarebbe più corretto dire – intercomunitari.
Realtà come la Bosnia-Erzegovina e il Kosovo, ma anche il Montenegro, sono potenzialmente ancora oggi delle vere e proprie polveriere a cielo aperto e il processo di integrazione nell’Unione Europea, se anche avvenisse in tempi brevi (cosa peraltro assai improbabile), non è detto che sarebbe in grado di sminare il campo dalle tensioni che ancora vi permangono. È senz’altro un processo che aiuta la distensione, ma che non sembra essere risolutivo, come spesso si ritiene con un eccesso di entusiasmo. Anche perché per partecipare al “gioco” dell’inclusione europea devono esserne convinti in primo luogo tutti gli attori regionali e i popoli coinvolti a seguirne le regole. Ma basterebbe solo che uno di questi attori fosse in dissenso e il gioco si fermerebbe o prenderebbe un’altra piega, potenzialmente pericolosa. Ed è per questo che dobbiamo domandarci quale sia il gioco a cui stanno giocando figure come Milorad Dodik, presidente della Repubblica Srpska, come Andrija Mandić, presidente del parlamento montenegrino, e come lo stesso presidente serbo Aleksandar Vučić. Perché il loro gioco potrebbe essere una partita a scacchi in dissenso con le regole imposte da Bruxelles. Al di là della maggiore o minore presentabilità (sulla quale in effetti ci sarebbe da eccepire) di certi esponenti del nazionalismo serbo, nella Serbia stessa così come in Bosnia-Erzegovina e in Montenegro, è indubbio infatti che ci sia un problema in merito alla frantumazione dello spazio serbo che deve essere prima o poi risolto.
E deve essere risolto, col metodo del negoziato e della diplomazia, auspicabilmente prima di includere quelle regioni nell’Unione Europea, affinché gli attuali confini tra Stati, diventando di fatto intangibili, non vengano visti dai serbi del Srpski mir come ostacoli insormontabili o vere e proprie pietre tombali poste sui sogni di riunificazione. E affinché non sia la Serbia, assieme alla Repubblica Srpska e alle formazioni montenegrine filo-serbe, a decidere di risolverlo da sola, con metodi più spicci e radicali. Anzi no, non totalmente da sola: con l’aiuto della Russia. Non è un’ipotesi così peregrina e l’ingresso del Montenegro nella NATO potrebbe non rivelarsi un evento irreversibile, stando anche l’avversione di una certa opinione pubblica serba (e di una parte della comunità serbo-montenegrina) per l’Alleanza atlantica, alla pari della UE percepita come la longa manus dell’Occidente per imbalsamare la Serbia nei suoi ristretti confini attuali, privandola della sua storica culla (Kosovo), di una regione di storico popolamento (Repubblica Srpska) e dello sbocco al mare (Montenegro). E non si capisce perché se in certi ambienti europei si tifa affinché l’Irlanda del Nord britannica possa ricongiungersi un giorno alla Repubblica d’Irlanda, non possa apparire altrettanto auspicabile il ricongiungimento di terre culturalmente serbe alla madrepatria. Potrebbe rivelarsi peraltro un equo indennizzo a Belgrado in cambio della totale o parziale rinuncia al Kosovo, insomma una soluzione di compromesso che per lo meno andrebbe discussa senza pregiudizi.
Infine, se il Montenegro si è rivelato, per quanto piccolo, un cruciale snodo per attività finanziarie poco limpide e per l’estensione di influenza politico-militare (al momento la NATO sembra averla avuta vinta sulla Russia), in merito alla Bosnia-Erzegovina vale senz’altro quanto scritto in un numero recente della rivista “Limes” per sottolineare come il gioco dell’integrazione europea nei Balcani possa non svolgersi secondo le consuete e rodate dinamiche dal successo quasi assicurato:
«Con la Bosnia Erzegovina l’Ue si trova di fronte al medesimo dilemma affrontato dall’Austria-Ungheria agli inizi del XX secolo. Vienna sapeva che, non incorporandola in toto all’impero, la Bosnia avrebbe destabilizzato la regione. Annettendola nel 1908 sperava di riuscire a gestirne le dinamiche nazionaliste e disgregatrici. Finì male comunque»2.
Se l’Unione Europea intende far fronte alle “dinamiche nazionaliste e disgregatrici” nei Balcani con il solo potere dell’integrazione nel mercato comune e nello spazio Schengen, insomma con la sola forza salvifica dell’economia, convinta come l’America che l’economia da sola possa sciogliere ogni nodo gordiano, dimentica la fondamentale lezione di Ivo Andrić, un intellettuale che conosceva bene lo spirito balcanico, a proposito degli istinti primordiali e delle convinzioni identitarie quasi mitologiche che animano i popoli di quella penisola. L’economia e il progresso in generale possono solo sopirli in via provvisoria, ma non cancellarli. È bene non dimenticarlo mai.
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