Conoscere la Bosnia-Erzegovina e il Montenegro evitando confusioni tra etnie e religioni
Tredici/A Hermes Storie di geopolitica – Europa
Giulio Ferlazzo Ciano
Dottore di ricerca in Storia contemporanea
Giulio Ferlazzo Ciano nell’articolo “Nel cuore dei Balcani occidentali, tra sogni d’Europa e disillusione” propone un’analisi su Bosnia-Erzegovina e Montenegro suddivisa in tre momenti:
- Bosnia-Erzegovina, una Jugoslavia in miniatura. Passato e presente di una terra di confine senza dimenticare la lezione di Ivo Andric premio Nobel per la letteratura.
- Montenegro: Occidente balcanico o Serbia mediterranea? Storia di una piccola patria.
- Bosnia Erzegovina e Montenegro, due pezzi d’uno Stato mutilato. Conclusioni e linee di tendenza comuni ai due Stati
Segue la prima parte.
22 aprile 2024
Premessa. Schegge di ex Jugoslavia e di Serbia
Forse non esiste città della ex Jugoslavia, come Sarajevo, in cui i contrasti tra una stagione storica e l’altra siano stati sempre così netti. Sarajevo è in realtà una città che si potrebbe quasi definire moderna, almeno stando al nostro metro di giudizio di popolo mediterraneo, aduso a concedere patenti di antichità a centri urbani che abbiano almeno un millennio di vita. E a Sarajevo tecnicamente mancherebbero ancora quattro secoli per definirsi città antica, essendo sorta a partire dal 1428. Eppure è come se tutta la storia dei Balcani vi fosse transitata, concentrandosi sui pendii fittamente abitati a ridosso delle rive della Miljacka, in un turbine di vicissitudini che hanno lasciato dopo il loro passaggio un’eredità di contrasti, resi evidenti da differenti architetture, da differenti religioni, quasi anche da differenti visioni del mondo, tante quelle che si possono ritrovare nel Paese stesso di cui è la capitale, la Bosnia-Erzegovina.
A poca distanza da Sarajevo, cioè a poco più di cento chilometri in linea d’aria, la piccola città di Podgorica è la capitale di uno Stato tornato indipendente dopo una pausa di 88 anni: il Montenegro. Un piccolo mondo antico incastonato tra alte cime calcaree e incisioni fluviali con andamento spesso tortuoso e irregolare, rimasto per secoli isolato dal resto della penisola.
Cosa hanno in comune Bosnia-Erzegovina e Montenegro? Moltissimo. Prima di tutto la comune origine etnica dei popoli che vi abitano e un certo secolare isolamento. Per il resto, invece, sembra che la storia si sia incaricata di produrvi esiti in parte differenti, con tutto quel che ne consegue.
Passato e presente di una terra di confine senza dimenticare la lezione di Ivo Andrić
1. Bosnia-Erzegovina, una Jugoslavia in miniatura
L’ultima data spartiacque della storia a Sarajevo è rappresentata dal 1992. In quel fatale anno, dopo che già la Slovenia e la Croazia avevano proclamato la loro indipendenza (25 giugno 1991) separandosi dalla Jugoslavia, si tenne (28 febbraio-1° marzo 1992) il referendum che sancì a sua volta l’indipendenza della Bosnia-Erzegovina dalla Jugoslavia, a cui seguì, in aprile, l’inizio del lungo assedio della città da parte dell’esercito della Repubblica Serba di Bosnia, proclamata all’interno della stessa Bosnia-Erzegovina.
L’esercito serbo di Bosnia, a cui erano rimaste le armi e i mezzi dell’JNA (Armata Popolare Jugoslava), ritiratasi dalla Slovenia e dalla Croazia, era guidato da Ratko Mladić, figura ben nota per la spietatezza, a cui si deve tra le altre cose il tributo di sangue pagato dalla popolazione civile nella città affamata e martoriata dalle artiglierie e dai tiri al bersaglio dei cecchini1. L’assedio durò quasi quattro anni e produsse oltre 5 mila vittime civili.
Ultimo contrasto della storia a Sarajevo
Ecco il contrasto ben servito con un salto temporale di pochi anni. Sarajevo, anni Settanta del Novecento, città di provincia, ma non priva di una certa effervescenza, che la porta ad essere capitale della musica leggera jugoslava. Il talento di Goran Bregović, destinato ad avere un seguito fino ai giorni nostri, si concretizza nella nascita del gruppo rock Bijelo Dugme (“pulsante bianco”), influenzata dalla sperimentazione musicale anglo-americana di quegli stessi anni, pubblicando dal 1974 sotto l’etichetta Jugoton album musicalmente innovativi accompagnati da copertine moderatamente licenziose e irriverenti, se si considera il contesto di un Paese retto da un pur ingentilito regime comunista. Quasi tutti i membri della band erano nati e cresciuti in quel crogiolo di culture e religioni che è Sarajevo. In quella stessa decade spopolava la canzone pop Sarajevo, ljubavi moja (“Sarajevo, mio amore”) di Kemal Monteno, nato a Sarajevo nel 1948 da padre italiano, soldato del Regio Esercito di occupazione sposatosi con una ragazza bosgnacca2, mentre un giovane amico di Bregović, il sarajevese bosgnacco Edin Dervišhalidović, ispirandosi alla musica di Monteno e dei Bijelo Dugme, tentava di sbarcare nel mondo della musica, riuscendoci qualche anno dopo con il nome d’arte italianizzante “Dino Merlin”. Il suo primo album, uscito nel 1985, si intitolava Kokuzna Vremena (“tempi folli”). Stavano davvero arrivando.
L’anno prima del debutto di Dino Merlin, nel febbraio 1984, si era tenuta a Sarajevo la XIV edizione dei Giochi olimpici invernali, a cui avevano partecipato gli atleti di 49 nazioni. Come si può ben immaginare la città era stata tirata a lucido e vi erano state costruite più moderne strutture ricettive e impianti sportivi; una sorta di canto del cigno. Infine, nel 1981 vinceva il Leone d’argento come migliore opera d’esordio al Festival del Cinema di Venezia il film noto in Italia col titolo “Ti ricordi di Dolly Bell?” (Sjećaš li se Doli Bel?), girato da Emir Kusturica e sceneggiato assieme al poeta Abdulah Sidran, entrambi nati e cresciuti a Sarajevo. La pellicola, con elementi autobiografici, narrava la crescita sentimentale di Dino, un adolescente nella Sarajevo degli anni ’60 che sognava per sé un avvenire nel campo della musica leggera, venendo allo stesso tempo folgorato dalla potenza del cinema. Tutto questo fermento sparì quasi improvvisamente con l’arrivo dei veri “tempi folli”, quelli della più violenta e micidiale follia che solo può scatenarsi nel contesto di una guerra civile, dove amici e nemici si ritrovano ad abitare lungo la stessa strada e persino nello stesso palazzo. Epilogo: Sidran, di famiglia bosgnacca, è sopravvissuto alla guerra ed è morto di recente, il 23 marzo 2024, mentre Kusturica, anch’esso bosgnacco ma rimasto sentimentalmente legato alla Serbia quale erede morale della Jugoslavia, è apparso il 2 aprile scorso nell’ufficio del presidente della Federazione Russa, intrattenendosi con Vladimir Putin a condividere le sue nostalgiche visioni del mondo e a ringraziarlo per la guerra in Ucraina3.
Ad ogni buon conto, passata la tempesta, la città dei Giochi olimpici invernali e della creatività musicale e cinematografica era in gran parte ridotta in macerie. Bruciati e distrutti i più moderni e alti blocchi per appartamenti, particolarmente esposti ai colpi delle artiglierie, crivellati da colpi di mortaio e in rovina diversi edifici, interi quartieri abbandonati, strade ingombre di detriti, gli impianti che avevano ospitato i giochi invernali neppure un decennio prima, gravemente danneggiati o distrutti. Ovunque lutti e sofferenze. Non tutto però era andato distrutto, come un colpo d’occhio sulla città ancora oggi può rivelare. Tra gli edifici storici e i monumenti sopravvissuti, magari un po’ malconci, alla grande tragedia che colpì la città, vi fu la sede del Museo della Letteratura della Bosnia-Erzegovina, nato nel 1961 per ospitare, tra le sue collezioni, il manoscritto originale del romanzo “Il ponte sulla Drina” (Na Drini ćuprija)4, che valse allo scrittore bosniaco di famiglia cattolica Ivo Andrić (1892-1975) il premio Nobel per la letteratura in quello stesso 1961.
Non si tratta di un’opera storica in senso stretto, anzi può essere definito un racconto senza tempo, un grande affresco di scene di vita bosniaca che, pur con il fluire dei secoli e l’avvicendarsi di nuove stagioni politiche, lasciano poco spazio ai cambiamenti in un angolo defilato d’Europa nascosto tra le montagne. E dove non manca mai una violenza feroce, privata o istituzionalizzata che sia. Se il romanzo di Andrić fosse stato scritto fino alla fine delle guerre jugoslave si sarebbe arricchito di storie e personaggi, ma non sarebbe cambiato il tema di fondo con il suo corollario di violenza. D’altra parte, a soli 35 chilometri in linea d’aria da Višegrad, la cittadina del vecchio ponte ottomano sulla Drina, c’è Srebrenica, con il suo carico di orrori recenti e i fantasmi che ancora oggi agitano la coscienza collettiva dei serbi di Bosnia.
Non è molto distante da Višegrad è anche la stessa Sarajevo che, come si suole dire in questi casi, è risorta dalle sue stesse ceneri e, ad un occhio attento ai dettagli, può apparire persino più bella di prima. Pur non mancano differenze notevoli con il passato, ovverosia rispetto a ciò che era la città prima di quel tragico 1992. Innanzi tutto a un livello che impropriamente si definirebbe etnico: la città è più uniforme di un tempo, come il raffronto tra i censimenti del 1991 e del 2013 mostra chiaramente. Nel 1991 i 361 mila abitanti della municipalità di Sarajevo si definivano al 50,4 per cento musulmani (definiti in seguito “bosgnacchi”), al 25,5 per cento serbi, al 13 per cento jugoslavi (dunque di origine mista o che non desideravano un’etichetta etnica), al 6,7 per cento croati e al 4,3 per cento di altra etnia. Nel 2013 gli abitanti della municipalità si sono definiti all’80,7 per cento bosgnacchi, al 10,5 per cento di altra etnia (in gran parte ex “jugoslavi”), al 4,9 per cento croati e soltanto al 3,8 per cento serbi. Effetto della guerra civile e della bipartizione dello Stato secondo i dettami di Dayton. È in atto quindi una ridefinizione degli equilibri religiosi (perché in fondo non si tratta affatto di rimescolamenti etnici) che comportano una progressiva omologazione culturale della popolazione sulla base dell’identità bosniaco-musulmana o “bosgnacca”.
Il censimento del 2023, che potrebbe confermare il processo in atto, è stato rimandato per ragioni senz’altro politiche, ma declinate in varia maniera: più che per una sorta di “sindrome libanese”, che renderebbe le autorità restie a svelare il peso reale di ciascuna componente religiosa per timore di dare fiato a nuove rivendicazioni e recriminazioni, influirebbero maggiormente i persistenti contrasti tra le due entità politico-amministrative di questo strano Stato bicefalo (diviso al suo interno in una “Federazione di Bosnia-Erzegovina”, a trazione croato-musulmana, e una “Repubblica Srpska”, ovvero la vecchia Repubblica Serba di Bosnia fondata dal duo Mladić e Karadžić e riconosciuta dagli accordi di Dayton nel 1995), nonché il timore di dover constatare una drastica flessione demografica, indotta soprattutto da un accentuato saldo negativo migratorio, tale da confermare le critiche sempre più crescenti alle autorità politiche nazionali, incapaci di agganciare il Paese al treno dello sviluppo economico5.
Terra di confine (e di attrito) tra Serbi e Croati
La Bosnia rappresenta un’anomalia fin dal nome stesso dello Stato, che pure è abbastanza antico, riflettendo l’esistenza di una regione del Regno d’Ungheria, il banato di Bosnia, emerso già nel XII secolo, a cui successe tra il 1377 e il 1463 un Regno di Bosnia fondato dal suo sovrano più noto, Tvrtko, della famiglia magnatizia dei Kotromanić. Esso, tuttavia, non riflette alcuna identità etnica o linguistica. Tutti i Paesi balcanici, almeno quelli storici e di vecchie tradizioni, mostrano una chiara ed inequivocabile identità etnica e linguistica: la Croazia è lo Stato della nazione croata, la Serbia della nazione serba, la Bulgaria di quella bulgara, l’Albania (Shqipëria) di quella albanese (shqiptarë), la Grecia o Èllade di quella greca o ellenica. I bosniaci non solo “non son popolo perché son divisi” fra tre diverse comunità che si tollerano a fatica, ma perché non si è mai vista una nazione che definisca sé stessa col nome di un fiume che la attraversa: la Bosna, il Bathinus secondo la romanizzazione di un toponimo illirico, deformatosi nei secoli fino ad assumere l’attuale forma slavizzata. Dunque nulla di più, si potrebbe dire, di un toponimo da suddivisione amministrativa, come ben sanno i francesi che all’equivalente delle nostre province, che loro chiamano dipartimenti, hanno spesso assegnato i nomi dei corsi d’acqua che le attraversano. I bosniaci, invece, in quanto componente etnica della penisola balcanica, non esistono.
Esistono semmai croati, serbi e slavi meridionali musulmani nativi di una regione, la Bosnia-Erzegovina (Bosna i Hercegovina) di forma approssimativamente triangolare, compresa tra il basso corso della Sava, la valle della Drina e le Alpi Dinariche, quest’ultima una catena di scabre montagne carsiche crivellate di campi solcati e doline, che dal 1718 funge da confine (linea Mocenigo), mai modificato finora, tra le terre propriamente bosniache e la Dalmazia un tempo veneziana e oggi croata. Onde comprendere come il conflitto tra le tre principali componenti che vivono nella regione non sia dovuto a fattori etnici ma esclusivamente religiosi, sarà utile ripercorrere la genesi di quel Regno di Bosnia che può essere individuato quale precursore dell’attuale Stato di Bosnia-Erzegovina. Ed è oltretutto doveroso rimarcare come anche tra serbi e croati in origine non vi fosse pressoché nessuna sostanziale differenza di natura etnica.
Le due tribù, infatti, irruppero quasi contemporaneamente, intorno alla fine del VI secolo, in quella regione, l’Illirico o Illiria, che era stata conquistata da Roma tra il III e il II secolo a.C. e pienamente romanizzata nei sei secoli successivi. La grande invasione degli Àvari nella regione danubiana e balcanica, iniziata nel 582, ebbe come effetto collaterale l’irrompere di un’ondata migratoria su vasta scala di popolazioni slave, provenienti dal nucleo di origine situato oltre l’arco della catena dei Carpazi, tra le odierne Polonia, Ucraina e Bielorussia, che si misero al seguito di quel popolo della steppa contribuendo con esso a saccheggi e depredazioni. Tuttavia, rispetto agli Àvari, più agguerriti e decisamente più interessati a fare bottino, gli Slavi, più numerosi rispetto ai loro padroni-alleati della steppa, intendevano prendere possesso di quelle regioni per farne la loro nuova patria. In effetti ai primi il destino riservò la sottomissione da parte dei Franchi, ai secondi invece irrise il successo della loro strategia. All’inizio del VII secolo le popolazioni slave in seguito identificate come Serbi e Croati iniziarono ad apparire nella regione tra il medio corso del Danubio, la Sava e l’Adriatico, giungendo nel 614 a Salona (già capitale della provincia romana e città natale dell’imperatore Diocleziano), che fu semidistrutta e saccheggiata. Se ai Bizantini riuscì l’operazione di riconquista della Grecia, anch’essa invasa dalla marea slava, così invece non riuscì nel resto dell’area balcanica, dove il popolamento slavo si rafforzò e mise radici6.
Dopo una fase di transizione durata qualche secolo, segnata da una capillare occupazione del territorio e di una sua primitiva organizzazione in sclavinie, a cui seguì la conversione al cristianesimo, i Serbi fecero la loro prima comparsa nella storia ufficiale nel corso del IX secolo: in questo periodo emersero alcuni principati retti da “giuppani” (župani) che sono all’origine della Serbia moderna: Raška, Zahumlje, Travunija, Duklja. La Dulkja o Doclea, localizzata pressappoco nell’attuale Montenegro, diede origine a un primo regno serbo (1077) a cui seguì, alla fine del XII secolo, originata dalla Raška (Rascia), la nascita del ben più importante e duraturo Regno di Serbia sotto la dinastia dei Nemanjići, che per primi unificarono il Paese e ne spostarono il baricentro tra Kosovo e Macedonia. La storia del Regno di Serbia culminò nel 1346 con l’incoronazione di Stefano Uroš IV Dušan a Skopje col titolo bizantino di re-imperatore (Bασιλεὺς) di Serbia e Romania (per Romania si intendeva allora l’Impero Romano d’Oriente o quel che ne rimaneva a metà del XIV secolo), al vertice di un vasto Stato territoriale che, dalle attuali regioni orientali della Bosnia, giungeva a controllare la sponda settentrionale del golfo di Corinto e l’intera Macedonia egea, senza però la città di Tessalonica7.
Zahumlje (Zaclumia) e Travunija erano invece principati serbi che occupavano la porzione meridionale dell’attuale Bosnia-Erzegovina fino alla costa, con l’eccezione della città di Ragusa (attuale Dubrovnik), enclave etnicamente latina che si diede ordinamenti autonomi sotto la formale autorità di Bizanzio. I due principati furono anch’essi inclusi dapprima nella Doclea, poi nella Serbia dei Nemanjići, così che quasi una metà dell’attuale Bosnia-Erzegovina finì per riunire popolazioni slave che dovevano obbedienza all’autorità dei sovrani serbi.
I Croati, anch’essi emigrati dalle regioni transcarpatiche al seguito degli Àvari, giunsero nella regione illirica all’inizio del VII secolo, un po’ più a ovest rispetto ai Serbi e, nella loro corsa al mare, si insediarono fino in Dalmazia, premendo sulle città latine della costa, che per secoli avrebbero opposto una strenua resistenza alla marea slavo-croata, appoggiandosi dapprima a Bisanzio, in seguito a Venezia.
Anche per i Croati, dopo una fase plurisecolare di occupazione delle regioni dell’entroterra e di una loro primitiva organizzazione in sclavinie, seguì la conversione al cristianesimo (che peraltro comportò contese tra un vescovo croato, insediato nella cittadina dalmata di Nona/Nin, e i vescovi latini delle città costiere) ed emerse progressivamente un potere unificatore da cui scaturì, a metà del secolo X, un Regno di Croazia di breve durata, che sopravvisse indipendente fino al 11028. Entrambi i regni, di Serbia e di Croazia, confinavano tra loro nell’attuale Bosnia-Erzegovina, che era quindi in questa epoca divisa in due, fungendovi da confine approssimativo il corso di due fiumi: la già citata Bosna, affluente della Sava, e la Narenta (Neretva), che sfocia in Adriatico.
La comune origine etnica delle due nazioni è evidente anche sotto l’aspetto linguistico: croato e serbo sono infatti oggi lingue quasi perfettamente coincidenti, la cui unica vera differenza risiede nel fatto di essere scritte, a distanza di secoli, l’una in caratteri latini, l’altra in caratteri cirillici. Spiega questo fatto l’esistenza di un dialetto, lo štokavo (što è la variante dialettale che significa «cosa?»), parlato sia dai croati che dai serbi, così come dagli odierni montenegrini e bosniaci, assurto in epoca moderna al rango di vero e proprio serbo-croato standardizzato. Gli altri due dialetti, il kajkavo della Croazia settentrionale (compresa Zagabria), e il čakavo, prevalentemente parlato nella Dalmazia centro-settentrionale e nelle isole, nella Lika e fino alla regione quarnerina e all’Istria, sono invece dialetti eminentemente croati.
A differenziare i due popoli, per il resto quindi perfettamente coincidenti, è stata quindi l’esperienza storica, iniziata sotto due regni differenti e separati, ma soprattutto il progressivo gravitare dell’uno, la Croazia, verso l’Europa occidentale e cattolica, e dell’altro, la Serbia, verso l’Europa orientale e ortodossa. Ciò ha prodotto ulteriori conseguenze politiche e culturali, dato che la Croazia in età moderna è stata quasi integralmente assorbita da Stati europei occidentali, come il Regno d’Ungheria, la Repubblica di Venezia e l’Impero austriaco, mentre la Serbia (e con essa la Bosnia-Erzegovina, oltre ad alcune regioni della Croazia) ha subito una lunga e per certi aspetti brutale dominazione ottomana.
A complicare ulteriormente il quadro si è aggiunto il fattore religioso: come se già non bastasse la divisione tra croati-cattolici (dipendenti dall’autorità pontificale romana) e serbi-ortodossi (dal 1219 dotati di una chiesa nazionale autocefala), si è aggiunto il terzo incomodo rappresentato dapprima dal bogomilismo e in seguito dall’islam.
Nascita della Bosnia
Fino al XIV secolo, stando tale equilibrio politico, la Bosnia non era nemmeno un’espressione geografica, non esistendo fino ad allora alcun territorio così denominato. L’origine di questo Stato è da ritrovarsi nell’evoluzione dei succitati regni di Serbia e di Croazia. Quest’ultimo, in particolare, morto nel 1089 il re Zvonimir, dopo un breve periodo di instabilità politica, si ritrovò privo di effettiva guida, così che la nobiltà accettò di riconoscere la sovranità della vicina e ben più potente Ungheria, il cui sovrano, Koloman (Colomanno) si incoronò anche re di Croazia nel 1102. Se è vero che la Croazia perse la sua indipendenza, è pur vero che sotto l’Ungheria fu riconosciuta alla regione una sua specificità, con la convocazione di una dieta (sabor), la nomina di un rappresentante regio (ban) e il pieno riconoscimento della nobiltà croata9. In tale contesto avvenne che l’Ungheria riconobbe un ban anche nella regione bosniaca (1154) sotto formale autorità croata e che uno di questi rappresentanti del re ungherese, il ban Kulin, offrì riparo a gruppi di eretici “pàtari”10 fuggiti dalle città latine della costa dalmata, convertendosi egli stesso all’eresia assieme a una decina di migliaia di cattolici. In seguito all’intervento immediato della Chiesa romana, il ban e una delegazione patara giurarono nel 1203 fedeltà alla Chiesa, davanti a un suo delegato, così come davanti al re d’Ungheria. Ma l’eresia patara continuò a diffondersi nella regione tanto che la Chiesa perorò ancora l’intervento del re d’Ungheria nel 1221, inviando in quell’area un delegato pontificio e introducendovi i domenicani. Non bastò neppure questa soluzione, sia perché l’Ungheria non era abbastanza forte da riuscire a sradicare da quelle contrade isolate di montagna l’eresia, nonché per il fatto che l’intervento ungherese suscitava nella popolazione slava locale una certa volontà di resistenza, rafforzandone anzi lo spirito d’indipendenza11.
Intorno al 1250 il vescovo cattolico che vi risiedeva fu costretto ad abbandonare la regione trasferendosi a nord della Sava, mentre andava diffondendosi un’organizzazione ecclesiastica definita ecclesia bosnensis. Questa col tempo sarebbe stata identificata con il bogomilismo, versione balcanica e slava (il termine bogomil si tradurrebbe pressappoco in “amato da dio”, derivando dall’antica radice slava bog, col significato di “dio”, e mil, traducibile come “amato” o “caro”) della grande eresia dualista (“dualista” perché riconosceva l’esistenza del solo mondo spirituale contrapposto a quello materiale, negando la Trinità, la natura del Cristo e non riconoscendo la Chiesa, le sue istituzioni, i suoi riti e i sacramenti) diffusa a quel tempo in molte regioni dell’Europa meridionale, dall’area pirenaica ai Balcani, i cui adepti furono noti sotto differenti definizioni: bogomili, appunto, in area balcanica, ma anche patari, catari o albigesi. Ciò che rende a dir poco eccezionale il caso bosniaco è che l’eresia bogomila ebbe l’opportunità di organizzarsi quasi indisturbata all’interno di uno Stato che fu l’unico dell’Europa medievale a riconoscere e preservare una Chiesa eretica. Lo Stato nel XIII secolo ancora non esisteva, ma stava per sorgere.
In effetti la nobiltà croata nel territorio bosniaco appoggiava le istanze dei bogomili, in opposizione alle ingerenze di Roma e dell’Ungheria, così che col tempo si saldò un’alleanza tra la nobiltà e l’ecclesia bosnensis. Invero nella seconda metà del Duecento l’Ungheria corse ai ripari riuscendo a ridurre l’area bosniaca all’obbedienza grazie all’appoggio dei conti Šubić, potenti magnati croati della Dalmazia, che tra il 1299 e il 1322 riuscirono ad ottenere il titolo di ban per la Croazia, la Dalmazia e la Bosnia12. Ma ad aiutare la causa bosniaca ci si mise proprio l’Ungheria attraverso il re Carlo Roberto (Caroberto) d’Angiò il quale, superati gli effetti della crisi dinastica che era stata prodotta dal cambio di dinastia nel Regno, passato dagli Arpadi agli Angiò, pensò bene di ridurre la potenza dei Šubić, affidando dal 1322 il territorio bosniaco al ban Stefano II Kotromanić, esponente di una famiglia nobiliare locale. Grave errore che permise ai Kotromanić di ritagliare per loro un vero e proprio regno indipendente popolato da croati e serbi e, soprattutto, dominato dalla Chiesa bogomila. L’annessione della regione che era stata la Zaclumia (Zahumlje), uno dei primi principati serbi, diede alla Bosnia l’accesso all’Adriatico e ai commerci con le città latine della costa dalmata e in particolare con Ragusa (Dubrovnik), favorendo allo stesso tempo lo sfruttamento minerario della regione, richiamandovi minatori e tecnici tedeschi, attratti dai ricchi giacimenti di piombo e argento13.
A Stefano II succedette nel 1353 il nipote Stefano “Tvrtko” (letteralmente “il duro”), costretto inizialmente dal re d’Ungheria ad abbandonare la regione costiera a ovest della Narenta e ad accettare un più stringente obbligo di vassallaggio (1357), che non gli impedì tuttavia di continuare, in accordo con la nobiltà e la Chiesa bogomila, la politica d’autonomia fino ad allora perseguita. Tra alterne vicende, tra cui una vittoria sul campo contro gli ungheresi, l’esilio in Ungheria provocato dalla nobiltà locale che temeva l’affermazione del suo potere, e il ritorno in Bosnia, riconosciuto ancora una volta come ban dal sovrano ungherese, il potere di Tvrtko si ampliò riuscendo ad avere ragione delle resistenze nobiliari14. Frattanto l’occasione per un’espansione territoriale era offerta dalla decadenza del Regno serbo dei Nemanjići che, alla improvvisa morte del grande Stefano Dušan, nel 1355, si frantumò in una serie di principati autonomi sui quali solo nominalmente regnava il figlio e successore Stefano Uroš V, trovando egli stesso una prematura morte, nel 1371, in una battaglia contro i turchi presso il fiume Marica, in Tracia15.
Ne poteva quindi approfittare Tvrtko, discendente in linea femminile dai Nemanjići, che già aveva stretto alleanza con Uroš V e che, due anni dopo la sua morte, si alleò con il principe Lazar Hrebeljanović, che regnava in autonomia sulla Serbia settentrionale, contro il giuppano Nikola Altomanović, che si era ritagliato uno Stato a est della Bosnia e che fu pertanto suddiviso tra i due alleati, permettendo a Tvrtko di mettere le mani sul vecchio principato serbo di Travunija, sulle bocche di Cattaro e sull’alta valle della Drina. In seguito, la morte del re d’Ungheria Luigi I il Grande, nel 1382, cui seguì un periodo di crisi, permise all’ambizioso bosniaco di liberarsi della tutela ungherese per espandersi ulteriormente lungo la costa, in direzione delle città latine dalmate di Spalato, Traù e Sebenico (solo Ragusa in questo periodo rimase indipendente). Nel 1377 Tvrtko si fregiò del titolo di re di Serbia e di Bosnia nel monastero di Mileševa, in quella parte di Rascia che era stata annessa alla Bosnia. Un luogo particolarmente sacro perché custodiva le spoglie di san Sava, il fondatore della Chiesa serba; dettaglio paradossale per un protettore di una setta eretica16.
Ma si era ormai al tramonto di quello Stato, giacché la potenza turca ottomana premeva alle porte della Serbia e l’alleanza rinnovata tra Tvrtko e il principe Lazar non poté impedire la cocente sconfitta dell’armata serbo-bosniaca a Kosovo Polje, il 28 giugno 1389, da parte dei turchi, i quali riuscirono a catturare Lazar e a giustiziarlo. A Tvrtko, in un clima crepuscolare per i destini della Serbia, non rimaneva che consolarsi con l’assunzione, in mancanza di concorrenti, della corona di Croazia e Dalmazia, nel 1390, rendendo a questo punto il suo Stato un vero e proprio dominio serbo-croato che non poteva non essere esaltato, secoli più tardi, nel Novecento, come un antecedente storico che avrebbe prefigurato o addirittura anticipato la Jugoslavia17. Invero si era trattato, come si è detto, di una storia nata quasi per caso, un po’ per la diffusione di una setta eretica e un po’ per l’ambizione di una famiglia magnatizia, il tutto grazie alla protezione offerta dalla natura montuosa del territorio bosniaco e all’argento che garantiva che le finanze dei Kotromanić non si esaurissero prima del tempo. Ma non fu mai, se non per i bogomili che vi avevano trovato la loro terra d’elezione, una vera patria nazionale. I sudditi di Tvrtko invero non erano neppure tutti bogomili, ma in buona parte croati cattolici e serbi ortodossi e Tvrtko stesso avrebbe potuto definirsi un croato con origini serbe. Inoltre la breve durata del Regno, destinato a spegnersi con i successori di Tvrtko, non riuscì a fornire un soddisfacente patrimonio di memorie storiche condite di quel tanto di eroismo in grado di consacrarne l’avvenire in un’epoca posteriore. Tuttavia un risultato senz’altro si ebbe e fu quello di dare a quel territorio un nome specifico, Bosnia, pur privo di qualsiasi connotazione etnica; la neutralità identitaria del termine “Bosnia” fa sì che ancora oggi il toponimo sia ben accetto ai croati, ai serbi e naturalmente ai musulmani locali che rivendicano l’identità bosgnacca (bosnjak).
Il declino del Regno di Bosnia, la conquista ottomana e la conversione all’islam
Proprio l’esistenza dei bosgnacchi, ovvero i musulmani di Bosnia, fino agli inizi del secolo scorso noti anche impropriamente come “turchi” (i quali, in verità, non colonizzarono, se non marginalmente, le regioni balcaniche annesse all’Impero ottomano), rappresenta oggi uno dei più curiosi esempi in Europa di mutazione di una comunità religiosa attraverso i secoli e le temperie storiche. Ciò avvenne in connessione diretta con gli eventi che si susseguirono alla morte del re Tvrtko, nel 1391. In quel frangente la debolezza strutturale del Regno emerse in modo conclamato. A differenza di quel che era stato il più potente e confinante Regno di Serbi sotto i sovrani Nemanjići tra XII e XIV secolo, il Regno di Bosnia era privo sia di un forte potere monarchico, sia di quel sistema di controllo sulla nobiltà, fosse esso di derivazione feudale-carolingia o bizantina, attraverso l’istituto della prónoia (equivalente a un feudo dotato di rendite, che dal XIII secolo divenne vitalizio ed ereditario), che garantiva al sovrano di poter contare su una cerchia di nobili fedeli alla monarchia, in grado di fornire le forze militari per reprimere dissensi o rivolte. Al contrario, la Bosnia era una realtà caratterizzata da un forte contropotere nobiliare che, alla morte di Tvrtko, ebbe l’opportunità di riemergere con prepotenza, assicurandosi di poter pilotare la successione in modo che non si affermasse il principio ereditario. Se è pur vero che il successore di Tvrtko fu scelto tra i Kotromanić, è altrettanto vero che l’assemblea magnatizia (Stanak) pose sul trono un cugino di Tvrtko, Dabiša (1391-95), debole figura che dovette immediatamente riconoscere Sigismondo di Lussemburgo, nuovo re d’Ungheria, quale suo naturale sovrano e lasciare all’Ungheria il possesso della Croazia e della Dalmazia18.
Alla morte di Dabiša subentrò l’anarchia prodotta dal conflitto tra le ambizioni delle famiglie magnatizie, approfittandone l’Ungheria per rinsaldare il controllo sulla Bosnia e, addirittura, riportare all’obbedienza religiosa la sua popolazione eretica. Sigismondo organizzò nel 1409 addirittura una crociata, che tuttavia non ottenne altro che riacutizzare il risentimento della popolazione locale. Frattanto le pretese sul trono di Ungheria da parte di Ladislao d’Angiò, re di Napoli, creò una spaccatura nella nobiltà ungherese, di cui approfittarono anche alcuni bosniaci, mentre Ladislao trovò conveniente vendere la Dalmazia, con le sue città e le isole, ad eccezione di Ragusa, alla Repubblica di Venezia, che fino al 1358 si era atteggiata a protettrice delle città latine e vi aveva posto alcuni presidi. Un decennio di conflitto tra pretendenti al trono ungherese garantì una tregua alla Bosnia, ma nel 1411, ormai uscito di scena Ladislao e riaffiorata l’ambizione di Sigismondo di riprenderne il controllo, avvenne l’irreparabile: il nobile Hrvoje Vukčić-Hrvatinić, assurto al vertice dell’indebolito regno bosniaco, strinse alleanza con i turchi-ottomani contro Sigismondo, le cui armate furono sconfitte e ricacciate al di là della Sava nel 1415.
Ma si trattava del più classico dei fatali errori compiuti nel corso della storia da classi dirigenti deboli e irresponsabili. Dopo quella data, infatti, l’influenza ottomana si consolidò, i nuovi sovrani dovettero avere il riconoscimento da parte del sultano e, addirittura, la consueta conflittualità tra famiglie magnatizie trovò nello stesso sultano un arbitro delle contese e il sostenitore di una parte contro l’altra, così che alcune di queste famiglie si fecero vassalle sultanali e i loro territori furono messi a disposizione degli ottomani. I successivi sovrani bosniaci commisero l’ulteriore errore, di fronte all’erosione del loro potere a favore della famiglie magnatizie alleate degli ottomani, di allearsi ancora una volta con l’Ungheria, promettendo il ritorno al cattolicesimo degli eretici bogomili. Fu in effetti questa operazione il vero colpo di grazia. Lo stanziamento di francescani, la propaganda cattolica e il bando ufficiale contro i bogomili ricompattarono i magnati in difesa della specificità bosniaca e della sua Chiesa. L’ultimo re bosniaco, Stefano Tomašević, assurto al trono nel 1461, si rivolse persino a papa Pio II per garantirsi una difesa contro i turchi, ormai in procinto di attaccare la Bosnia, ma tutto fu inutile e nel 1463 il sultano ottomano Mehmet II Fatih, il conquistatore di Costantinopoli, organizzò una facile campagna militare contro il Regno. Stefano Tomašević, catturato e costretto a collaborare alla conquista della Bosnia, fu infine giustiziato19.
Sopravvisse ancora per qualche decennio, nel sud della regione, un principato autonomo attraversato dalla Narenta (Neretva) e con alcuni tratti di costa fino alle bocche di Cattaro, sussistente su ciò che erano state la Zaclumia (Zahumlje) e la Travunija. Lo possedeva con il titolo voivodale una famiglia magnatizia che si era alleata con i turchi per conservarne il dominio, separandosi di fatto dal resto della Bosnia. Il voivoda Stefano Vukčić-Kosača ruppe infine definitivamente con la Bosnia, ottenendo nel 1448 degli ottomani il riconoscimento per sé stesso del titolo di herceg (termine di origine tedesca equivalente a “duca”), che derivò a quel territorio il nome di Erzegovina (Hercegovina) ancora oggi esistente, sebbene privo di confini definiti. Le continue guerre dell’herceg Vukčić-Kosača non fecero altro che indebolire ulteriormente la nobiltà bosniaca e agevolare la conquista turca della Bosnia, così che nel 1463 la stessa Erzegovina fu quasi integralmente occupata dalle armate ottomane, sopravvivendo solo la fascia costiera, liquidata infine nel 148220.
Sopravvisse invece quasi miracolosamente all’invasione ottomana la confinante striscia litoranea della Repubblica di Ragusa (Dubrovnik), peculiare Stato assimilabile a una Repubblica marinara italiana, evoluta come Venezia da un’originaria enclave bizantina sulla costa, resasi progressivamente indipendente e che mantenne un’identità culturale mista latina e slava. Ma il miracolo della preservata indipendenza ragusea era rappresentato, oltre che da un ricco tributo versato al sultano ogni anno, fin dal 1458, anche dalle promesse di tenere lontana Venezia da quel pur breve tratto di costa e dalla garanzia di fornire una spinta economica ai territori bosniaci ad essa confinanti. Peraltro i mercanti ragusei erano già presenti in Bosnia da secoli e vi rimasero, conservando privilegi e vantaggi giuridici, fino alla metà del XVII secolo21. E la Repubblica ebbe così l’opportunità di rimanere libera dal servaggio ottomano fino alla fine dei suoi giorni, avvenuta peraltro per mano francese, nel 1808.
La Bosnia a questo punto fu assorbita nella compagine dell’Impero ottomano, organizzata come beylerbeyk (provincia) e vi rimase fino al 1878 senza subire particolari scossoni, con l’eccezione della sortita del principe Eugenio di Savoia, comandante dell’esercito imperiale austriaco nella guerra della Lega Santa (coincidente con la Sesta guerra turco-veneziana) contro l’Impero ottomano, condotta all’indomani del secondo fallito assedio ottomano di Vienna del 1683. Le armate del principe Eugenio giunsero quindi nel 1697 fino a Sarajevo, che fu saccheggiata, costringendo il pascià di Bosnia a trasferire il governo della provincia a Travnik per poco più di un secolo. Fu questa una di quelle date spartiacque della storia della città, che peraltro ne segnò negativamente lo sviluppo fino all’Ottocento. Ad ogni buon conto si può affermare che la Bosnia, assieme alle regioni popolate da albanesi, fu uno dei territori balcanici che meglio si integrò nella realtà ottomana.
Avvenne in effetti in Bosnia qualcosa di incredibile e unico in tutto lo spazio balcanico e spiegabile soltanto attraverso congetture, ovvero la conversione in massa di un intera comunità religiosamente omogenea, quella dei bogomili, all’islam. Non che la conversione alla religione dei nuovi dominatori fosse un fatto isolato, come l’esperienza degli albanesi (e di non pochi cristiani rinnegati di origine slava, greca, valacca, sassone, ungherese e persino zingara) sta a dimostrare. È pur vero che c’erano cospicui vantaggi di natura giuridica, personale e fiscale ad aderire al culto islamico ed inoltre, nell’ultima fase di vita del Regno di Bosnia, l’odio per le intromissioni ungheresi nella vita religiosa del Paese, tale da portare a una breve crociata contro i bogomili, e la tardiva oltre che autolesionista alleanza tra la monarchia bosniaca e ungherese per eradicarvi il bogomilismo, che avrebbe prodotto persecuzioni anche crudeli, potrebbe aver spinto questa importante comunità cristiana eterodossa a vedere nei turchi un prezioso alleato contro i nemici della fede, più che dei nemici della fede. Tanto più che la stessa nobiltà bosniaca aderiva già in gran parte al bogomilismo, così che la conversione per costoro rappresentò anche il mezzo per conservare i privilegi feudali, oltre al possesso di terre e contadini i quali, a loro volta, si sarebbero convertiti. A questo punto il passaggio, da ciò che per certi versi non era nemmeno un vero e proprio culto cristiano, all’islam potrebbe essere stato vissuto dai contemporanei come una spontanea e naturale evoluzione22.
Sia come sia, avvenne che tra la seconda metà del XV secolo e l’inizio del XVI si consolidò quella tripartizione religiosa della Bosnia-Erzegovina foriera di tanti conflitti tra le comunità di musulmani e di cristiani cattolici e ortodossi. Dopo il 1492, inoltre, sopraggiunsero un buon numero di ebrei sefarditi espulsi dalla Spagna che andarono a popolare città e centri minori della regione, protetti dalle leggi ottomane relativamente tolleranti che regolavano i rapporti tra la fede dei dominatori turchi e le altre due religioni monoteiste. Infine, per quanto riguarda la città di Sarajevo, quello che era stato un piccolo villaggio medievale dal nome di Vrhbosna, fu colonizzato da turchi fin dal 1428 e, dopo il 1463, ospitò il serraglio (saray) o palazzo del beylerbey, che le fece mutare il nome in Bosna Saray. Da quel momento il villaggio diventò una vera città – per gli slavi semplicemente “Sarajevo” – superando i 20 mila abitanti nella seconda metà del XVI secolo23.
Identità bosgnacca, identità bosniaca?
A questo punto sorge spontaneo domandarsi se sia possibile individuare un’identità nazionale prettamente bosniaca e se questa identità possa essere rivendicata innanzi tutto dai bosgnacchi, ovvero da coloro che si identificano come comunità musulmana di Bosnia. La risposta è con tutta evidenza un doppio no per entrambe le domande. No, non può essere considerata la Bosnia una nazione: perché non esiste un’etnia bosniaca, essendo stata la Bosnia una terra di popolamento per entrambe le popolazioni croate e serbe, a loro volta etnicamente omogenee; perché non esiste una specifica lingua bosniaca, semmai si è diffusa una variante del dialetto štokavo che presenta alcune differenze lessicali rispetto al serbo-croato; perché inoltre non è mai esistito uno Stato bosniaco che rivendicasse esplicitamente l’unione dei popoli della Bosnia. Se il Regno di Bosnia tardomedievale, durato per giunta poco meno di un secolo, era poco più di uno Stato feudale ribelle alla monarchia ungherese e profittatore delle disgrazie che colpirono il Regno serbo alla morte di Dušan, nemmeno si può dire che in età contemporanea, epoca che vide risorgere gli ideali nazionali, si assistette mai alla nascita di movimenti indipendentisti bosniaci sostenuti da tutte e tre le comunità religiose e dotati di un certo seguito.
Dopo l’occupazione della Bosnia da parte dell’Austria-Ungheria (1878), infatti, i movimenti nazionalisti bosniaci furono rivolti primariamente all’unificazione della regione alle madrepatrie croata e serba e, da un certo periodo in poi, prevalse nettamente il disegno unitario volto a riunire croati, serbi e musulmani di Bosnia in un unico Stato per gli slavi meridionali. E, in questo senso, l’esperienza del Regno di Bosnia medievale, il cui sovrano regnava su territori popolati da serbi e croati, poteva in effetti essere visto come precorritrice della nascente Jugoslavia. E infine no, non possono considerarsi i bosgnacchi come i veri bosniaci. Perché se è pur vero che sarebbero i discendenti di quei cristiani convertiti all’eresia bogomila e fattisi musulmani dopo la conquista ottomana, a loro volta i croati e i serbi della Bosnia possono vantare altrettanti diritti storici di popolamento della regione: sono tutte e tre le comunità, al di là delle scelte religiose, discendenti dirette di quelle invasioni àvaro-slave dell’inizio del secolo VII.
Ciò che è solo in parte variato è la loro distribuzione sul territorio bosniaco che è in effetti, nel corso dei secoli, si è in parte modificata, fermo restando, almeno fino al conflitto del 1992-1995, una generale condizione di equilibrio fra le tre comunità su quasi tutto il territorio, con una disposizione a macchia di leopardo. La predominanza di una comunità sull’altra, in tutta la Bosnia-Erzegovina, è sempre stata infatti puramente relativa, se non in alcune aree rurali più omogenee. Dopo la pulizia etnica e lo spostamento di masse di profughi da una regione all’altra, oltre alla firma degli agli accordi di Dayton, nel 1995, che sancirono la creazione di due comunità autogovernate all’interno dello spazio bosniaco (la Federazione di Bosnia-Erzegovina e la Repubblica Srpska), si è prodotta una maggiore omogeneità territoriale per ciascuna delle tre comunità, rafforzando l’elemento serbo nella Repubblica Srpska e quello croato e musulmano nella Federazione di Bosnia-Erzegovina. Insomma, la vecchia Bosnia assai mista per cultura e fedi in ogni sua contrada, sopravvissuta in buona parte al ritiro ottomano dalla regione e a due guerre mondiali, non esiste pressoché più.
È vero inoltre che l’originario confine tra le comunità croate e serbe, posizionato lungo l’asse fluviale Bosna-Narenta, si è spostato più a ovest a causa delle invasioni turche. Diverse comunità di serbi, infatti, tra il XVI e il XVIII secolo presero la decisione di abbandonare le terre da loro storicamente popolate (l’ultima “Grande migrazione” vide la fuga dei serbi dal Kosovo, dopo l’arresto delle truppe della Lega santa alle porte di Belgrado, nel 1690-94) per spostarsi più a nord e a ovest, a ridosso dei domini asburgici e veneziani, insediandosi nell’Ungheria meridionale (in quella che sarebbe diventata la Vojvodina), nella Slavonia centro-orientale, nella Bosnia nord-occidentale (e in questa parte dello Stato è in effetti la città di Banja Luka, capitale della Repubblica Srpska), fino a giungere in alcune aree della Dalmazia e della Lika24.
Tale migrazione produsse non pochi problemi nell’età contemporanea, giacché i serbi hanno sostenuto il diritto a rivendicare il possesso anche delle regioni da loro tardivamente popolate in Bosnia, mentre in Croazia le operazioni militari note con il nome in codice “Lampo” (Bljesak) e “Tempesta” (Oluja) hanno liquidato tra maggio e agosto 1995 la presenza serba in Slavonia, Dalmazia, Lika e Kordun25, attuando una “pulizia” del territorio che, se da una parte ha prodotto la tragedia dell’esodo di circa 200 mila serbi e un migliaio di morti sospette (per i quali il generale croato Ante Gotovina ha subito l’incriminazione da parte del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, venendo arrestato nel 2005, condannato in primo grado a 24 anni di reclusione, ma rilasciato nel 2012 dopo l’appello), dall’altra ha di fatto conseguito l’effetto voluto, ovvero una pacificazione per mezzo dell’omogeneizzazione “etnica” del territorio croato conteso, impedendo così future rivendicazioni serbe su quelle regioni.
L’esistenza della Repubblica Srpska, che l’osservazione di una carta mostra chiaramente disposta ad arco lungo tutto il confine settentrionale e orientale della Bosnia-Erzegovina, rende evidente questo fattore: se la porzione orientale della Repubblica Srpska, che coincide con la vallata della Drina e con l’area montana a ridosso del Montenegro, è stata interessata da popolamento serbo fin dal VII secolo, quella occidentale, delimitata dalla Sava, dall’Una e attraversata dal basso corso del Vrbas, è invece l’esito del popolamento dei secoli XVI-XVIII. Un’usurpazione, secondo i croati e i bosgnacchi; la rivendicazione di un sacrosanto diritto, secondo i serbi che vi abitano; un bel rompicapo per un osservatore imparziale. Il tutto non privo di ricadute per l’equilibrio politico-istituzionale dell’attuale debole Stato bosniaco-erzegovese.
Lo stesso osservatore imparziale alle prese con il mosaico bosniaco potrebbe ragionare sul mistero per cui, a poche centinaia di chilometri di distanza e nel medesimo spazio balcanico, possano convivere realtà come, giustappunto, la Bosnia-Erzegovina, con le sue tensioni e rivalità tra le tre comunità che la abitano, solo apparentemente smorzate e tenute sotto controllo dall’equilibrio stabilito dagli accordi di pace del 1995, e l’Albania, un Paese popolato da una sola etnia (con una modesta presenza greca nel sud) e anch’esso, esattamente come la Bosnia, diviso al suo interno fra tre comunità religiose (musulmana, cristiana ortodossa e cattolica) che però, al contrario della Bosnia, convivono da secoli in armonia e in pieno accordo senza avanzare alcuna recriminazione, anche in tempi recenti. Il miracolo albanese era spiegato, quasi un secolo e mezzo fa, da un suo illustre concittadino assurto al rango di funzionario ottomano, come la prova che la vera fede degli albanesi sia l’albanesità26, ovverosia che, al di là delle differenze religiose, l’attaccamento alla patria ancestrale (per un popolo che la abita da almeno tre millenni) generi un sentimento identitario più forte di ogni altro. Tra gli slavi che popolano la Bosnia, invece, giunti in quella regione poco più di mille anni fa, prevarrebbe forse – azzardiamo l’ipotesi – ancora un atavico istinto tribale a dividersi in gruppi e fazioni, mancando peraltro una solida identità nazionale (a meno di non identificarla in uno spazio più ampio, la patria jugoslava, esperienza peraltro che non ha funzionato affatto) che possa fare da collante e scongiurare divisioni e lotte settarie.
Sia come sia, il risultato è che la Bosnia-Erzegovina ha vissuto, vive e probabilmente vivrà sempre (salvo ravvedimenti e miracoli d’ispirazione albanese) in una condizione di precarietà e di tensione ricorrente tra le sue comunità, solo provvisoriamente ricompattate e all’apparenza in grado di convivere in armonia nei periodi di relativa quiete, in particolari stagioni storiche che favorirebbero lo sviluppo economico, sociale e politico della regione. Così come già avvenuto in altre epoche, più o meno recenti, con esiti che indussero lo scrittore bosniaco Ivo Andrić a ragionare in questi termini per quel periodo di pace apparente che, nella Bosnia occupata e poi annessa all’Austria-Ungheria, precedette le due guerre mondiali e, con esse, l’inizio di quella stagione di vendette incrociate e di faide intercomunitarie che ha prodotto frutti velenosi fino al 1995:
«La popolazione trovava lavoro, aveva buone occasioni di guadagno e viveva in sicurezza. Era sufficiente perché la vita, la vita esteriore, si incamminasse anche in Bosnia sulla strada “del perfezionamento e del progresso”. Tutto il resto era ricacciato in quegli oscuri recessi della coscienza dove vivono e fermentano i sentimenti elementari e le credenze indistruttibili delle singole etnie, religioni o caste che, apparentemente morti e sepolti, preparano per un avvenire lontano sovvertimenti e catastrofi insospettate, senza i quali, sembra, i popoli non possono vivere, in particolare nelle nostre contrade»27.
Bosnia-Erzegovina: parallelismi tra fine XIX e inizio XXI secolo
Con un salto temporale non indifferente arriviamo al presente. Alla Bosnia-Erzegovina partorita in un hangar di una base militare statunitense in Ohio, dove convennero gli inviati serbi, croati e bosniaci, sotto gli auspici della presidenza di Bill Clinton, che nel novembre 1995 siglarono gli accordi di Dayton. La guerra scoppiata per riportare in seno alla Jugoslavia (o quel che ne rimaneva, ovvero la Serbia e Montenegro) la secessionista Repubblica di Bosnia-Erzegovina, proclamatasi indipendente nel marzo 1992, degenerò presto in un conflitto a più dimensioni, in cui si intrecciavano, in un turbine di cause e concause dirette e indirette, secolari attriti tra le comunità religiose, memorie mai sopite di violenze e massacri compiute nelle due guerre mondiali, tentativi di preservare l’unità jugoslava, separatismi subregionali su base nazionale o comunitaria, tentativi di dare al conflitto una valenza di guerra santa, aleggiando infine su tutto il fanatismo di opposti nazionalismi che puntavano con ogni mezzo a conquistare o a preservare quanto più territorio bosniaco, producendo così una feroce e insensata guerra civile che, in determinate fasi, sembrò assumere l’aspetto di un conflitto di tutti contro tutti.
Non ci si soffermerà sulla cronaca di quegli anni di guerra, ma è senz’altro importante sottolineare che la Bosnia-Erzegovina indipendente che abbiamo sotto gli occhi non è il prodotto di una secessione di velluto alla maniera della Slovacchia, ma il risultato di un compromesso tra spregiudicati e ambiziosi attori politici (Slobodan Milošević e Franjo Tuđman, rispettivamente presidenti di Serbia e Croazia), ottenuto dopo quattro lunghi anni di guerra sulla pelle di quattro milioni di bosniaci, con un bilancio di circa 100 mila morti (soprattutto tra la comunità bosgnacca) e sistematiche violazioni dei diritti umani. Tutto questo, si comprenderà, non si dimentica facilmente e i trent’anni di pace apparecchiata da attori locali e garantita da organismi sovranazionali (ONU, UE) e organizzazioni non governative possono essere serviti ai bosniaci non tanto per riflettere sugli errori e a progettare un futuro di convivenza, quanto semmai a ricacciare la memoria degli orrori «in quegli oscuri recessi della coscienza dove vivono e fermentano i sentimenti elementari e le credenze indistruttibili delle singole etnie». In attesa che per ciascuna di esse arrivi il momento della rivincita o della vendetta. L’ottimismo, dunque, può essere malriposto e la prudenza è senz’altro il metodo migliore col quale leggere il presente e immaginare il futuro della Bosnia-Erzegovina, senza mai pertanto dimenticare la lezione di Andrić.
Per certi aspetti, infatti, la Bosnia-Erzegovina post Dayton può apparire una copia della Bosnia rimasta sotto formale protettorato austro-ungarico tra il 1878 e il 1908. In seguito alla rivolta del 1876, animata prevalentemente dai contadini serbi di Bosnia contro i proprietari terrieri bosniaco-musulmani (bey), si mise in moto un processo che comportò un accordo segreto tra Russia e Austria-Ungheria (1877) per la spartizione delle reciproche influenze nella regione balcanico-danubiana. Poco dopo lo scoppio di un conflitto tra Russia (con alleati balcanico-danubiani) e Impero ottomano si concluse nel compromesso raggiunto nel contesto del congresso di Berlino (giugno-luglio 1878) che, tra le altre cose, confermò le aspirazioni balcaniche dell’Austria-Ungheria, consentendo a questa di occupare e amministrare la provincia ottomana della Bosnia, pur sotto la formale sovranità ottomana. Un annessione de facto salvata dall’apparenza di una concessione de jure da parte del sultano. Nel 1908 la rivoluzione dei Giovani Turchi spinse l’Austria-Ungheria a trasformare il dominio de facto in annessione ufficiale.
In tale frangente il governo austro-ungarico si incaricò di promuovere un certo progresso economico e sociale nella regione, pur stando attento a preservare gli equilibri comunitari preesistenti, attuandovi, come in tutte le province dell’Impero, quel gioco spregiudicato che mirava a rafforzare il potere di determinate etnie in specifici territori, per garantirsi un maggiore controllo sulle etnie più irrequiete. Così avvenne anche in Bosnia dove, dal 1882 al 1903, fu chiamato a governarla il funzionario ungherese Benjamin von Kállay, il quale in una prima fase intese privilegiare l’elemento cattolico, favorendo persino lo stanziamento di contadini croati nella pianura lungo la Sava, al fine di riequilibrare il peso delle tre comunità. Se non che i croati (di Bosnia, ma anche della Croazia vera e propria, autonoma ma dipendente dalla corona ungherese) si convinsero che si trattasse di un primo passo per la creazione della “Grande Croazia”, fatto che, assieme alla proclamazione del Regno di Serbia (1882) e al progressivo intensificarsi dei rapporti politici e culturali tra i serbi di Bosnia e Belgrado, convinse von Kállay a cambiare nettamente strategia28.
Iniziando a diffidare dei croati e dei loro confidenti spirituali, i francescani, così come dei serbi, ormai in odore di irredentismo, privilegiò e tentò in un secondo tempo di rafforzare la comunità musulmana, ovvero i bosgnacchi, cercando di preservarne gli antichi privilegi, puntando a promuoverne la crescita culturale e la coscienza identitaria, in vista del progetto di fare della Bosnia-Erzegovina un laboratorio per creare un’identità nazionale nuova, prettamente bosniaca e filo-asburgica29. Il tentativo, naturalmente, non fu coronato da successo e, anzi, non fece altro che rinfocolare la diffidenza e il sospetto tra le tre comunità, come si vide bene all’indomani dell’attentato all’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, assassinato il 28 giugno 1914 a Sarajevo da un giovane irredentista serbo, quando nei giorni e nelle settimane successive si scatenò, da parte di una milizia ausiliaria (Schutzkorps) formata da elementi in maggioranza musulmani e croati, una caccia indiscriminata ai serbi, sospettati di tradimento e di intesa con il nemico, arrestati, processati sommariamente, sovente giustiziati in pubblico come monito all’intera comunità.
Unico successo di von Kállay fu nel campo delle opere pubbliche: ferrovie, reti stradali carrabili, caserme, ospedali, scuole, musei, chiese e cattedrali. Allo stesso tempo per realizzare infrastrutture ed edifici pubblici occorreva aumentare le imposte, che crebbero di cinque volte e tutte peraltro a carico dei bosniaci, visto che la regione formalmente non era annessa all’Austria-Ungheria. E tutto questo apportando i consueti benefici che si osservano in contesti coloniali o simili, su cui è difficile trovare un consenso generale: “la strada del perfezionamento e del progresso” era stata senz’altro imboccata, c’erano più occasioni di lavoro, migliori possibilità di ricevere un’istruzione di qualità, ma allo stesso tempo le condizioni di vita dei contadini affittuari dei bey non erano migliorate e la regione era peraltro costretta ad importare grandi quantitativi di grano ungherese, pagati in natura con la cessione delle sfruttamento dei giacimenti di ferro, bauxite, cromo, piombo e manganese30.
Dopo il 1995 non è stato molto diverso, pur con tutte le differenze del caso, soprattutto in merito alla politica di convivenza tra le comunità. In base a una clausola (allegato 10, art. 5) degli accordi di Dayton, infatti, fu istituito l’ufficio dell’Alto Rappresentante per la Bosnia-Erzegovina, nominato dai Paesi occidentali garanti della pace, la cui funzione era formalmente quella di garantire sul posto il rispetto degli accordi siglati tra le parti e che dal 1997 fu rafforzato da un intesa, stipulata a Bonn, che ne rafforzava i poteri di intervento. La “clausola di Dayton” e i “poteri di Bonn” fecero in una certa qual misura dell’Alto Rappresentante per la Bosnia-Erzegovina una sorta di nuovo governatore austro-ungarico della Bosnia:
«Questa clausola fornì le basi giuridiche e politiche per istituire, nel dicembre 1997, un protettorato de facto attraverso l’adozione dei cosiddetti “poteri di Bonn”. Grazie ad essi gli attori internazionali assunsero prerogative senza precedenti, che andavano al di là delle questioni di sicurezza e comprendevano responsabilità civili e di governo, come il diritto di rimuovere dall’incarico funzionari locali democraticamente eletti, trasformando così, a tutti gli effetti, il paese in una “democrazia-protettorato”»31.
Tali condizioni in sé possono apparire per certi aspetti anche un male minore e senz’altro necessarie, visto il conflitto allora appena terminato e la scarsa affidabilità politica degli attori locali. Ma il modo di agire di alcuni di questi Alti Rappresentanti, tra i quali si è distinto senz’altro il britannico lord Paddy Ashdown (2002-2006), che fece ricorso ai “poteri di Bonn” più di quattrocento volte in quattro anni32, l’origine di alcuni di essi, come nel caso dell’austriaco di etnia slovena Valentin Inzko, Alto Rappresentante per ben 12 anni, tra il 2009 e il 2021, e la durata di tale istituto, ancora oggi esistente, fanno pensare davvero a una riedizione di quella carica che per un ventennio fu di Benjamin von Kállay. Tanto più che nel primo decennio successivo alla firma degli accordi di Dayton l’attività dell’amministrazione internazionale in Bosnia-Erzegovina tentò alchimie politiche che dovettero apparire la versione aggiornata della politica bosniaca di von Kállay. Gli ampi poteri attribuiti agli attori internazionali servirono infatti in questo periodo ad «orientare il processo di pace e dare vita alle istituzioni interne»33, a tratti non senza una certa assertività, ma paradossalmente affidandosi e fidandosi di quei leader “etnonazionali” che, almeno a parole, confermavano di voler appoggiare l’agenda di peacebuilding, e marginalizzando tutti gli altri, al punto che alcuni funzionari internazionali «pretendevano di conoscere i bisogni della popolazione meglio delle élite locali selezionate con elezioni (ragionevolmente) libere ed eque»34.
Il processo di modernizzazione calato dall’alto non diete i frutti sperati. Già nel 2005 la Commissione di Venezia del Consiglio Europeo, criticando l’incompatibilità tra i “poteri di Bonn” e la rule of law, ne raccomandò l’abbandono graduale. Frattanto il Consiglio Europeo di Tessalonica, nel luglio 2003, aveva tracciato la strada dell’inclusione dei Balcani nell’Unione Europea e pertanto l’assistenza internazionale della Bosnia-Erzegovina divenne un affare prettamente europeo. Nel 2005 l’ufficio dell’Alto Rappresentante assunse l’incarico di Rappresentante Speciale dell’Unione Europea, con il compito di assistere e monitorare il governo locale per prepararlo al processo di graduale integrazione nella UE35. Iniziò così una seconda fase della politica internazionale in Bosnia-Erzegovina nell’ottica dell’“interventismo come supervisione”, non più quindi agendo direttamente sull’operato dei governi dello Stato bicefalo, ma delegando progressivamente a questi la titolarità delle riforme e potenziandone le competenze amministrative36.
Anche in questo caso, tuttavia, non mancarono distorsioni e ingerenze. Da una parte, infatti, i funzionari europei si appoggiarono strumentalmente alla società civile, indicando il traguardo di inclusione del Paese nella UE per «assicurare il consenso locale a politiche decise altrove»37, stimolandone un certo slancio riformista, dall’altra però continuò la pratica paternalistica dell’imposizione delle politiche dall’alto, solo superficialmente occultate dalla narrazione della “titolarità interna” e della “legislazione responsabile”. Avvenne pertanto che:
«la titolarità nazionale divenne una tecnica per governare a distanza le popolazioni della regione e una sorta di esame di maturità per le autorità locali, che serviva all’UE, giudice autorevole, per valutare l’affidabilità dei leader domestici nell’attuazione delle politiche pubbliche provenienti dall’esterno»38.
Nell’agenda delle politiche pubbliche calate dall’alto vi era senz’altro la progressiva estensione alla Bosnia-Erzegovina delle liberalizzazioni economiche, in grado sulla carta di rendere dinamica la stantia economia locale. Almeno finché non arrivò la sveglia dei moti di Tuzla, nel 2014, a riorientare ancora una volta il processo decisionale. Se non che, questa volta, le pratiche di governo introdotte dai supervisori europei avevano favorito l’emersione di una classe politica locale che, accettando il compromesso della “titolarità interna” per radicarsi sul territorio e inserirsi nel gioco dell’economia liberalizzata, era ora in grado di reprimere e sedare essa stessa il dissenso dosando abilmente, con l’ausilio dei media locali, accuse ai manifestanti di essere delinquenti animati da moventi politici e muovendo al contempo le leve del clientelismo per sedare nuovi focolai di rivolta39. Nulla di nuovo, se non fosse che, a distanza di dieci anni da quegli eventi, si può dire che nulla sia cambiato, compreso il clima di generale disillusione che si respira nel Paese. Con questo segnando di fatto il fallimento delle politiche di modernizzazione ispirate dall’Europa, così come erano fallite, poco più di cent’anni prima, quelle promosse dall’Austria-Ungheria.
Stato federale bicefalo per tre comunità e con presidenza centrale tripartita
La Bosnia-Erzegovina creata dagli accordi di Dayton e confermata dalla ratifica del trattato di pace, firmato a Parigi il 14 dicembre 1995, è una strana costruzione istituzionale che, di fatto, sancisce il successo parziale della politica di partizione della regione a cui miravano l’allora presidente serbo Slobodan Milošević e il croato Franjo Tuđman. Di fatto gli accordi prendevano atto della realtà che si era andata creando nel corso del conflitto, dopo la proclamazione di indipendenza della Bosnia-Erzegovina con la creazione di Repubbliche secessioniste su base comunitaria. Inizialmente si trattava di queste:
- Repubblica di Bosnia-Erzegovina, proclamata il 3 marzo 1992 sotto la presidenza del musulmano Alija Izetbegović, che tuttavia non riuscì mai ad imporre la sua autorità su tutto il territorio dell’ex Repubblica socialista di Bosnia-Erzegovina (entità federata della Jugoslavia), potendo contare solo su deboli forze militari e paramilitari animate quasi esclusivamente da coscritti e volontari bosgnacchi. Incentrata su Sarajevo, estendeva la sua autorità su poche aree liberate e in enclavi circondate dal territorio delle repubbliche secessioniste.
- Repubblica Srpska (o Repubblica Serba di Bosnia), nata il 9 gennaio 1992 su iniziativa del poeta-psichiatra Radovan Karadžić e proclamata indipendente dalla Repubblica di Bosnia-Erzegovina il 7 aprile 1992, entità serba secessionista dotata di un proprio esercito guidato dal generale Ratko Mladić. Dalla “capitale” Pale, località di villeggiatura montana, le artiglierie serbe colpivano la città di Sarajevo assediata.
- Repubblica dell’Herceg-Bosna, entità secessionista croata proclamata il 15 maggio 1992 dall’ultranazionalista Mate Boban e divenuta Repubblica il 28 agosto 1993, con capitale Mostar.
- Provincia autonoma della Bosnia Occidentale (Zapadna Bosna), entità secessionista bosgnacca filo-jugoslava e alleata della Repubblica Srpska, incentrata sulla regione di Bihać e proclamata in dissenso dalla leadership di Izetbegović da Fikret Abdić, già direttore di una cooperativa agricola, nel settembre 1993.
Preso atto che i rapporti di forza erano tali da non scalfire, se non parzialmente, la preponderanza dell’esercito della Repubblica Srpska, la diplomazia occidentale si incaricò di riavvicinare croati e bosgnacchi, che fino ad allora si erano combattuti alacremente, agevolando un’alleanza che avesse come scopo la riconquista di porzioni di territorio sotto il controllo dei secessionisti serbi. L’alleanza fu siglata a Washington il 18 marzo 1994, imbarcando di fatto gli Stati Uniti nel conflitto a fianco della Croazia di Tuđman, il quale, in cambio dell’allontanamento di Boban, sua pedina in Bosnia, ottenne di poter contare su rifornimenti di armi al fine di riprendere il controllo sulla Slavonia e la Krajina40. Cosa che avvenne l’anno successivo con le già citate operazioni Lampo e Tempesta (maggio-agosto 1995). A questo punto si crearono le condizioni per una partizione di fatto della Bosnia-Erzegovina in due entità, dal momento che la forza dell’esercito serbo di Bosnia non poteva essere comunque sopraffatto dall’alleanza strumentale tra bosgnacchi e croati.
Gli accordi di Dayton (novembre 1995) stabilirono pertanto di mantenere in vita lo Stato denominato ufficialmente “Bosnia ed Erzegovina” (Bosna i Hercegovina) costituito in due entità a loro volta autonome, la Federazione di Bosnia ed Erzegovina (croato-musulmana) e la Repubblica Serba (Srpska), entrambe dotate di una propria costituzione, con organismi tipici degli Stati indipendenti e la possibilità di mantenere relazioni privilegiate (sorta di politica estera) con la Croazia e la Serbia, paventandosi anche la possibilità niente affatto remota di una loro successiva annessione ai rispettivi Paesi. Non mancarono peraltro le difficoltà di far accettare l’accordo e la convivenza tra le comunità croata e musulmana all’interno della stessa compagine governativa, tanto più in una città come Mostar, che aveva sofferto la divisione in due parti e la distruzione di monumenti simbolo da parte delle milizie croate, permanendo peraltro in quella città fino all’agosto 1996 il governo dell’Herceg-Bosna, poi costretto a dissolversi.
Questo strano esperimento di Stato bicefalo, con un governo centrale ma anche con due governi comunitari (ben più rilevanti dello stesso governo centrale), l’uno croato-musulmano e l’altro serbo, ebbe una bizzarra costituzione che prevedeva una presidenza collegiale tripartita: un bosgnacco e un croato, eletti nella Federazione, e un serbo, eletto nella Repubblica Serba, con incarichi a rotazione e uno dei candidati (colui che riceve più voti) nominato presidente della Presidenza di Bosnia-Erzegovina. Il parlamento bicamerale si divise in una Camera dei Rappresentanti (Predstavnički o Zapstupnčki Dom) e una Camera dei Popoli (Dom Naroda), la prima eletta con elezioni dirette, la seconda nominata dai parlamenti delle due entità federate, rispettando la proporzione di 5 membri per ciascuna delle tre comunità. Tutto ciò ha un valore relativo dato che in ciascuna delle due entità federate si elegge in forma diretta o indiretta un presidente di ciascuna entità federata, un primo ministro, i membri delle rispettive assemblee parlamentari, il tutto perfettamente come copia conforme dei medesimi organi a livello centrale, a cui si aggiungono, a livello locale, le articolazioni amministrative di ciascuna entità federata, rese complicate peraltro da un minore decentramento nella Repubblica Srpska, suddivisa solo in municipalità, e un maggiore decentramento della Federazione croato-musulmana, dove, oltre alle municipalità, a livello intermedio ci sono i cantoni (kantoni, secondo la definizione bosgnacca) e le contee (županije, secondo la definizione croata). Legittimo perderci la testa. Infine, per avere un’idea delle proporzioni, attualmente il Paese, nella sua forma unitaria e con confini di fatto rimasti invariati sin dal 1718 (pace di Passarowitz), ha una superficie di circa 51.200 chilometri quadrati, equivalente all’insieme di Lazio, Umbria, Marche e Abruzzi-Molise, e una popolazione censita nel 2013 di circa 3 milioni e mezzo di abitanti, meno di quanti ne vivano nella sola provincia di Roma.
Il 14 settembre 1996 si tennero nel Paese le elezioni presidenziali. Il candidato dei bosgnacchi, Alija Izetbegović, ottenne il maggior numero di voti e fu pertanto eletto alla testa dell’“Ufficio di Presidenza della Presidenza della Bosnia-Erzegovina”, detenendo la carica fino al 1998 e poi, per alcuni mesi, anche nel 2000. Un altro Izetbegović, Bakir, figlio di Alija, ha intrapreso la carriera politica, assumendo il suo primo incarico di “presidente della presidenza” nel 2012, a cui è seguito un secondo incarico nel 2014, un terzo nel 2016 e un quarto nel 2018. Ma chi era Alija Izetbegović? Urge aprire una parentesi non solo su Izetbegović ma sull’identità della comunità musulmana di Bosnia. È bene infatti chiarire che dal 1463 al 1878, periodo durante il quale la comunità bogomila ha aderito all’islam, la provincia ottomana della Bosnia è stata una delle propaggini europee dell’Impero più fidate e relativamente tranquille. L’adesione all’islam andava di pari passo con l’ottenimento di privilegi e con la nascita di un sentimento identitario prettamente musulmano, sebbene non vi fosse alcuna differenza etnica tra i musulmani bosniaci (salvo nel caso, invero abbastanza raro, di musulmani provenienti da altre regioni dell’Impero) e i loro “compagni di sventura” serbi e croati che abitavano da quasi un millennio nella stessa regione.
È come se in quei quattro secoli di dominazione straniera si fosse rotto qualcosa, come ben racconta nei suoi scritti Ivo Andrić, separando la percezione di sé della comunità islamica da quella serbo-croata, anch’essa peraltro segnata da competizioni nazionaliste. Sebbene una parte non indifferente della comunità bosgnacca avesse aderito, fin dagli inizi del Novecento, agli ideali jugoslavisti, questi erano senz’altro più diffusi tra le comunità croata e soprattutto serba. Accadde così che dopo la prima guerra mondiale permase, soprattutto tra i serbi, la memoria dell’adesione di numerosi bosgnacchi alla milizia ausiliaria degli schutzkorps, responsabile di arresti arbitrari, pubbliche impiccagioni e varie altre vessazioni a danno dei serbi. Così come, dopo la seconda guerra mondiale, gli stessi serbi non poterono dimenticare l’adesione ideale di numerosi bosgnacchi al governo ustascia di Ante Pavelić, capo collaborazionista della Germania nazista e dell’Italia fascista, al vertice dello Stato Indipendente Croato tra il 1941 e il 1945, così come la loro militanza nelle forze armate ustascia e persino nella divisione SS Handschar (“scimitarra”), creata appositamente per i musulmani bosniaci dal muftì di Gerusalemme Amin al-Husseini, e responsabile di inenarrabili efferatezze ai danni soprattutto dei serbi.
Fra le circa 20 mila reclute della divisione SS Handschar, abbigliate con il caratteristico fez, vi erano diversi militanti del movimento islamista bosniaco ispirato alla Fratellanza Musulmana noto come el-Hidaje (dall’arabo hidaya, “guida verso l’islam”), operante dal 1936 e punto d’arrivo dell’associazionismo panislamista diffusosi tra i circoli intellettuali dei musulmani bosniaci all’indomani dell’abolizione del califfato in Turchia (1924). Gemmazione di el-Hidaje fu l’organizzazione Mladi Muslimani (Giovani Musulmani) nata nel 1941 e sciolta nel 1949, così come immediatamente dopo la liberazione era stata sciolta la stessa el-Hidaje. Il maresciallo Josip Broz “Tito”, leader comunista della Jugoslavia post bellica, non si era risparmiato dal reprimere il movimento islamista, accusato di collusione con gli occupanti nazisti. La chiusura dell’organizzazione Mladi Muslimani fu seguita addirittura dalla comminazione di quattro condanne a morte e dall’arresto di numerosi suoi membri, tra cui un giovane ventiquattrenne di nome Alija Izetbegović41. È bene peraltro sottolineare come non fossero mancate numerose e convinte adesioni da parte della comunità bosniaco-musulmana sia alla lotta partigiana contro gli occupanti tedeschi, sia al regime titino, come nel caso del bosgnacco Džemal Bijedić, nativo di Mostar, primo ministro jugoslavo tra il 1971 e il 1977. Il leader comunista jugoslavo si premurava di bandire dalla nuova Jugoslavia socialista qualsiasi organizzazione politica o religiosa che avesse intrattenuto rapporti con gli ustascia o gli occupanti, diffidando dei suoi affiliati come il giovane Izetbegović.
Lo stesso Izetbegović che, ventuno anni dopo il suo arresto, nel 1970, diede alle stampe un manifesto dal titolo Dichiarazione islamica che riprendeva alcuni passaggi del noto scritto politico Pietre Miliari di Sayyid Qutb, considerato uno dei testi fondamentali dell’islamismo radicale, diffuso in Egitto cinque anni prima e il cui autore fu giustiziato dal regime laicista e panarabo di Gamal Abdel Nasser (Gamāl ʿAbd an-Nāṣir), accusato di aver attentato alla vita del presidente egiziano. All’indomani della morte di Tito (1983) Izetbegović fu di nuovo arrestato e processato con tredici imputati con l’accusa di fondamentalismo islamico e, più in generale, da queste vicissitudini giudiziarie ottenne l’aura di perseguitato dal regime titino42. Infine, nel 1990, creò il Partito di Azione Democratica (Stranka Demokratske Akcije, SDA), ancora oggi esistente e rappresentante del nazionalismo bosgnacco, movimento politico passato indenne nel decennio in cui furono esercitati i “poteri di Bonn” e che si identifica come conservatore e aperto al processo di integrazione della Bosnia-Erzegovina nello spazio europeo.
Il partito islamico moderato di Izetbegović nel frangente della frantumazione della Jugoslavia fu in grado di coagulare attorno a sé il sostegno della comunità laica bosgnacca proprio in funzione antiserba e anticroata, rinsaldando così lo storico legame tra la comunità musulmana di Bosnia e il mondo orientale nel quale questa comunità si era identificata nei quattro secoli di dominazione ottomana. Tuttavia la situazione disperata in cui versava la Bosnia sotto controllo del debole governo di Izetbegović, prima dell’accordo di alleanza con le milizie croate siglato a Washington, comportò un certo interessamento da parte della Repubblica Islamica dell’Iran, che fin dai primi mesi di vita della Repubblica di Bosnia-Erzegovina si adoperò per sostenere il governo di Sarajevo e tentare di trasformare (invero senza successo) il conflitto in Bosnia in un vero e proprio jihad.
Già nel 1992 vennero quindi inviate armi iraniane attraverso la Croazia e dislocati nel Paese qualche centinaia di Pasdaran (Guardiani della Rivoluzione), vedendo luce al contempo diversi centri culturali iraniani. I Paesi sunniti invece, malgrado la rete di passate amicizie islamiste di Izetbegović, preferirono mantenersi prudenti, soprattutto l’Arabia Saudita, timorosa di trasformare un conflitto locale in un nuovo jihad globale con caratteristiche afghane, foriero di pericolose implicazioni prodotte dal ritorno di guerriglieri radicalizzati nei rispettivi Paesi d’origine. Pertanto mancarono massicci finanziamenti e chiamate alle armi da parte degli ulema sunniti. Furono comunque donati centocinquanta milioni di dollari in assistenza e raggiunsero la Bosnia duemila veterani salafiti-jihadisti dell’Afghanistan, integrati nell’esercito bosniaco. Gli accordi di Dayton imposero, tra le varie clausole, il rimpatrio di tutti i cosiddetti (e relativamente pochi) “volontari stranieri”, facendo così di fatto cessare il jihad bosniaco43.
Si deve pur aggiungere, tuttavia, che la storia del radicalismo islamico bosniaco non è terminata nel 1995. Se da quel momento all’influenza iraniana si è sostituita quella saudita, grazie al potere dei petrodollari che si configuravano in aiuti alla ricostruzione e finanziamenti per la costruzione di moschee e centri culturali, si deve anche segnalare che la stagnazione economica, la disoccupazione, il disinganno verso le politiche di inclusione nello spazio europeo e, più in generale, le scarse prospettive per le giovani generazioni bosgnacche hanno prodotto casi di adesione alle più recenti edizioni del jihadismo su scala globale. Per esempio, durante il conflitto civile siriano, è stato stimato dall’International Centre for the Study of Radicalisation and Political Violence (ICSR), con sede a Londra, che tra il 2013 e il 2015 almeno 330 cittadini bosniaco-erzegovesi si siano arruolati nelle milizie islamiste (da quelle di matrice qaedista fino all’esercito del sedicente “Stato Islamico”) che combattevano contro l’esercito del regime baathista di Baššar al-Asad, contro le milizie sciite irachene e i peshmerga curdi44.
Un dato niente affatto rassicurante se si considera che, al di là dei numeri relativi ai cittadini di Paesi arabi (tra i 1500 e i 3000 provenienti dalla sola Tunisia e i 1500-2000 dall’Arabia Saudita), e quelli di alcuni Paesi europei alle prese con una difficile integrazione delle seconde o terze generazioni di immigrati (dalla Francia circa 1200 combattenti), l’afflusso di combattenti jihadisti dalla Bosnia è stato equivalente a quello fornito da Paesi come l’Egitto o da regioni come lo Xinjiang (Turkestan orientale), di poco inferiore a quello del Pakistan e circa la metà di quello della Turchia. Con la differenza che in Turchia vivono oltre 70 milioni di cittadini musulmani, mentre in Bosnia-Erzegovina nemmeno 2 milioni. L’influenza del wahhabismo nei Balcani e in particolare in Bosnia, giuntovi con i fondi per la ricostruzione sauditi, ha dato insomma i suoi frutti.
Attualmente, per avere un’idea del peso specifico delle tre comunità etno-religiose che vivono nel Paese, e sempre sulla base dell’ultimo censimento della popolazione in Bosnia-Erzegovina, quello del 201345, su circa 3,8 milioni di cittadini bosniaco-erzegovesi si riconoscono in peso decrescente le seguenti comunità, dichiarate impropriamente come “etnie” nel presente censimento:
- bosgnacchi: 50,12 per cento
- serbi: 30,83 per cento
- croati: 15,43 per cento
- altre etnie o non dichiarate: 3,62 per cento
I dati relativi all’appartenenza religiosa dei cittadini di Bosnia-Erzegovina peraltro combaciano quasi perfettamente con le percentuali relative all’etnia, confermando in questo senso l’equivalenza che si instaura tra identità religiosa ed etnica (musulmani-bosgnacchi; ortodossi-serbi; cattolici-croati) tale da rendere la religione la chiave dell’identificazione etnica. Interessanti, inoltre, i dati relativi alla distribuzione “etnica” nelle due entità federate, che mostrano tra loro ragguardevoli differenze. Al di là, infatti, dell’obbligo inscritto nell’articolato degli accordi di Dayton (non sempre osservato) di garantire per ciascuna entità federata il ritorno dei profughi nelle rispettive case, è avvenuta ed è ancora in atto di fatto un’omogeneizzazione comunitaria nelle due entità, così che, nella Federazione di Bosnia-Erzegovina (croato-musulmana) si hanno il 70,4 per cento di bosgnacchi, il 22,4 per cento di croati e il 2,6 per cento di serbi, mentre nella Repubblica Srpska i serbi dominano incontrastati con l’81,5 per cento, i bosgnacchi calano al 14 per cento e i croati sono appena il 2,4 per cento.
Politiche e tendenze in atto: Repubblica Srpska
La politica bosniaca è senz’altro un argomento più complesso di quanto già non lo sia la peculiare struttura istituzionale di questo bizzarro Stato a due teste con presidenza tripartita. È senz’altro degno di nota considerare un protagonista della politica bosniaca emerso fin dal 1998 e mai uscito di scena. Si tratta di Milorad Dodik, il sempiterno uomo forte della Repubblica Srpska e fin dal 1996 segretario dell’Alleanza degli Indipendenti Socialdemocratici (SNSD), un partito nazionalista serbo con tendenze demagogico-populiste e mai nascoste simpatie per la Russia di Vladimir Putin, che conserva da anni la maggioranza relativa all’Assemblea Nazionale dell’entità federata serba. Nella sua ventennale carriera politica Dodik ha già ottenuto di poter essere due volte eletto primo ministro della Repubblica Srpska (nel 1998-2001 e nel 2006-2010), membro serbo in capo alla presidenza tripartita di Bosnia-Erzegovina (2018-2022), due volte presidente della presidenza (2018-2019 e 2020-2021) e, infine, e ben più rilevante in quest’ultimo ruolo, presidente della Repubblica Srpska tra il 2010 e il 2018 e dal 2022 fino ad oggi.
Dodik è emerso quasi per caso, avvantaggiato dall’uscita di scena ufficiale (forzata dai termini degli accordi di Dayton) del carismatico capo politico serbo-bosniaco, Radovan Karadžić, leader dell’ultranazionalista Partito Democratico Serbo (SDS), che fu costretto a dimettersi dalla presidenza della Repubblica serba di Bosnia e che, tuttavia, intraprese una contesa con Biljana Plavšić, già docente di biologia all’università di Sarajevo e vicepresidente della Repubblica Srpska nei terribili anni 1992-96, durante i quali si distinse per le posizioni scioviniste nei riguardi della minoranza bosgnacca e per l’aperto appoggio alla pulizia etnica, fatto che le procurò il mandato d’arresto da parte della Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia che la condannò nel 2003 a undici anni di reclusione. La contrapposizione tra i due leader, l’ultranazionalista Plavšić passata dopo Dayton su posizioni relativamente più moderate ed eletta presidente della Repubblica Srpska, e l’altrettanto ultranazionalista rimasto radicalmente coerente con le sue idee, Karadžić, produsse una spaccatura all’interno dell’SDS e persino nel governo serbo di Bosnia, per cui i seguaci della Plavšić, favorevoli al nuovo corso, la sostennero dalla capitale Banja Luka, mentre i fautori della linea intransigente di Karadžić si ritirarono nella ridotta di Pale, sui monti di Sarajevo.
A risolvere il contrasto ci pensò il presidente serbo-jugoslavo Slobodan Milošević, il quale ormai considerava il conflitto bosniaco concluso, mirando semmai a ristabilire il potere serbo sugli albanesi del Kosovo, e aveva di fatto scaricato Karadžić, non più utile ai suoi piani (a questi fu permesso tuttavia di vivere nascosto a Belgrado, assumendo una nuova identità, dove fu infine arrestato nel 2008 per essere trasferito al tribunale dell’Aja). Milošević impose nuove elezioni nella Repubblica Srpska e fu così che, oltre alla conferma di Plavšić alla presidenza, fu premiato dai suffragi anche il leader socialdemocratico Milorad Dodik, che fu nominato primo ministro e il cui partito (SNSD) era stato negli anni precedenti l’unica forza di simbolica opposizione all’SDS. La graduale uscita di scena di Plavšić e un ritorno di fiamma del nazionalismo sciovinista nel 1998, in seguito all’elezione alla presidenza di Nikola Poplašen, un alleato bosniaco di Vojislav Šešelj, leader a Belgrado del Partito Radicale Serbo (SRS), non impedì a Dodik di conservare la carica ottenuta in precedenza sotto la presidenza Plavšić46.
Tanto più che anche Poplašen se ne uscì di scena, vittima dei “poteri di Bonn”: fu infatti giubilato dall’Alto Rappresentante per la Bosnia-Erzegovina nel 1999 proprio per non aver riconfermato Dodik al governo. Dodik era così entrato ufficialmente nella cerchia dei favoriti della comunità internazionale, così come nello stesso periodo capitava ai leader del Partito Socialdemocratico (SDP) nella Federazione croato-musulmana. Dodik era visto infatti come elemento moderatore all’interno della Repubblica Srpska, mentre il SDP era considerato un valido contrappeso all’SDA del vecchio Alija Izetbegović. Dodik ha così potuto per anni incanalare i sussidi euro-occidentali per consolidare la propria struttura di potere clientelare, così come avveniva nella Federazione da parte dei capi dei principali partiti “etnici”47. Se non che Dodik a un certo punto è incappato nelle maglie del pur debole potere giudiziario centrale.
Indagato dalla magistratura per alcuni scandali di corruzione, si è difeso nel 2008 accusando i «giudici musulmani» di pregiudizi nei suoi confronti, peraltro riuscendo ad uscirne indenne48. Senz’altro perché, al di là della lotta alla corruzione promossa dalla UE attraverso l’Alto Rappresentante in Bosnia-Erzegovina e al di là del varo di documenti strategici e leggi anticorruzione, è prevalso il tacito accordo tra funzionari internazionali e politici locali di preservare la stabilità politica ed economica al prezzo di edulcorare e annacquare l’applicazione di quelle stessi leggi. Così che si è permesso alla classe politica di preservare le reti clientelari indulgendo nelle consuete pratiche corruttive (pratica che assume il nome di štela), tanto che il Paese ancora oggi presenta il dubbio primato di trovarsi all’ultimo posto della graduatoria degli Stati europei in merito all’indice di corruzione percepita: 108esimo a livello globale nel 2023 (l’Italia è al 42esimo posto). Ma Dodik è riuscito ad uscire indenne da inchieste e processi anche perché da quel momento ha iniziato ad agitare il vessillo della secessione della Repubblica Srpska dalla Bosnia-Erzegovina, incoraggiato in questo dalla proclamazione unilaterale di indipendenza del Kosovo (17 febbraio 2008) e dagli strascichi prodotti dal rifiuto del governo serbo-bosniaco, nel 2007, di accettare un’intesa che ponesse limiti al potere di veto dei raggruppamenti etnici e di creare una forza di polizia unica per l’intero Paese49.
Le minacce di secessione hanno messo in fibrillazione non solo la stessa Bosnia-Erzegovina, ma anche la vicina Croazia. E così quegli stessi attori internazionali che avevano sostenuto e foraggiato Dodik per anni sono dovuti scendere a compromessi. Qualche anno dopo, nel 2011, avendo Dodik nel frattempo accettato di porre un freno alla campagna secessionista, tutte le accuse di corruzione nei suoi confronti furono ritirate50. Tuttavia il freno non fu abbastanza tirato, visto che nel 2012 scese in campo contro il presidente della Repubblica Srpska e il suo partito persino il procuratore capo degli Stati Uniti d’America presso la Corte di Stato (dettaglio che mostra, una volta di più, la peculiare condizione della Bosnia-Erzegovina di semi-protettorato occidentale). Ancora una volta l’ineffabile Dodik avrebbe promesso di intraprendere un dialogo con le autorità centrali per stabilire il perimetro del potere di intervento dei giudici e di non indire alcun referendum indipendentista nella Repubblica Srpska, mentre al contempo la UE allentava la pressione sul governo serbo-bosniaco. Tuttavia le prove generali di una secessione serbo-bosniaca mediante referendum si sono tenute nel 2016, come reazione alla sentenza della Corte costituzionale di Sarajevo (novembre 2015) che impediva lo svolgimento delle celebrazioni della data di fondazione della Repubblica Srpska, perché questa secondo i giudici sarebbe stata discriminatoria verso i non serbi colà residenti51.
Il 25 settembre 2016 al quesito «sei d’accordo che il 9 gennaio venga celebrato come il giorno della Repubblica Srpska» il 99,8 per cento del milione e 219 mila votanti ha risposto affermativamente. A favore del referendum si sono espressi diversi funzionari russi e la stessa Federazione Russa si è astenuta nel 2015 dal votare al Consiglio di sicurezza dell’ONU l’estensione della missione militare della UE in Bosnia-Erzegovina. Da allora è ufficialmente iniziato la stagione di idillio tra la Repubblica Srpska e il suo presidente e la Federazione Russa, con strette relazioni che proseguono ancora oggi. Peraltro Dodik ha potuto approfittare anche del cambio di vento politico in Serbia, Paese di riferimento per antonomasia, dove nel 2012 è stato sconfitto il programma centrista e filo-europeo del presidente uscente Boris Tadić (2004-2012), mentre gli elettori hanno promosso alle massime cariche del Paese esponenti del Partito Progressista Serbo, nazionalista moderato e solo blandamente pro-UE. Inutile aggiungere che dal 2012 tutti i presidenti serbi non hanno mai fatto mancare il loro sostegno a Dodik, così come peraltro nemmeno Tadić aveva fatto.
Si arriva così ai giorni nostri e al conflitto in Ucraina. Da allora (24 febbraio 2022) le relazioni tra Banja Luka e Mosca si sono ulteriormente intensificate. Se in un primo tempo al ministro degli esteri della Federazione Russa Sergej Lavrov fu persino impedito, tramite il divieto di sorvolo da parte di tutti gli Stati che circondano la Serbia, di raggiungere Belgrado, ove si sarebbe dovuto incontrare il 6 giugno con il suo omologo e da lì, forse, proseguire alla volta di Banja Luka per non far mancare il sostegno di Mosca alla comunità dei serbi di Bosnia, alla fine è avvenuto che fosse Dodik ad andare a Mosca, anzi a Kazan (circa 800 chilometri a est della capitale russa), il 24 febbraio 2024, dove ha potuto incontrare Vladimir Putin. Nell’occasione si è avuta la concretizzazione dell’idillio, sottolineato dalle dichiarazioni del presidente della Repubblica Srpska contro le sanzioni alla Russia e contro l’adesione della Bosnia-Erzegovina alla NATO, mentre Putin ha dichiarato di considerare lo Stato serbo-bosniaco un amico della Russia e ha insignito Dodik dell’Ordine di Aleksandr Nevskij, una delle più alte onorificenze della Federazione Russa. Onorificenza peraltro già concessa anche al presidente serbo Aleksandar Vučić nel 2019.
Qualche giorno dopo, il 1 marzo, a margine del Forum diplomatico di Antalya (Turchia) Dodik ha incontrato una delegazione russa guidata dal ministro degli esteri Lavrov. Il comunicato pubblicato sul sito del Ministero degli Affari Esteri della Federazione Russa52, oltre a dare per scontata «l’intensificazione dei progetti di cooperazione bilaterale», non lascia spazio a nessun equivoco in merito all’opinione russa relativamente all’attuale condizione della Bosnia-Erzegovina:
«La situazione in questo Paese è stata ampiamente discussa nel contesto del ruolo della Russia come stato garante dell’Accordo Quadro Generale per la Pace in Bosnia-Erzegovina (Dayton) del 1995. L’interferenza dannosa e illegale negli affari interni della sovrana Bosnia-Erzegovina da parte dell’Occidente, che sta perseguendo una politica neocoloniale volta a minare le fondamenta di Dayton e a violare i diritti costituzionali dei suoi popoli, è considerato un fattore chiave nel complicare la situazione politica. La linea di principio della Russia a sostegno dell’Accordo di Pace è stata riaffermata come l’unica base per garantire stabilità, sicurezza e sviluppo nel Paese e nella regione nel suo complesso»53.
Si potrebbe tradurre così: «al momento la Russia si limiterà solo ad alzare la voce contro l’Occidente e la sua tutela “neocoloniale” in Bosnia-Erzegovina, ma permarrà la spada di Damocle dell’appoggio russo a qualsiasi mossa volta a tutelare i diritti costituzionali di uno qualsiasi di quei popoli (quello serbo, nello specifico) che formano la Bosnia-Erzegovina». La minaccia della secessione della Repubblica Srpska dalla Bosnia-Erzegovina, con tutte le conseguenze del caso, rimane pertanto ancora attuale, ma da parte del Cremlino non sembra ancora essere arrivato il momento di concretizzarla. Tale minaccia non può tuttavia essere sottovalutata nel breve-medio termine, fintanto che permane l’incertezza in merito allo status sull’indipendenza del Kosovo e fintanto che gli sviluppi della politica del governo di Belgrado, in seguito alle contestate elezioni dello scorso dicembre 2023, rendono più rigidi i rapporti tra la presidenza Vučić e gli Stati membri dell’Unione Europea.
Politiche e tendenze in atto: Federazione croato-musulmana
Relativamente più tranquillo il quadro politico della Federazione di Bosnia-Erzegovina (lo Stato croato-musulmano) dove si è registrata un’alternanza nelle principali cariche di governo tra esponenti del SDA e del SDP. Il primo partito, fondato da Alija Izetbegović, si è confermato col tempo una formazione su base “etnica”, rappresentante gli interessi della comunità bosgnacca su posizioni conservatrici e islamico moderate nonché pro-UE. Per certi aspetti una formazione non molto diversa, come posizionamento ideologico, dal partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) in Turchia, per lo meno fino all’involuzione autoritaria, accentuata dopo il tentativo di colpo di Stato del luglio 2016, da parte del suo cofondatore e attuale presidente della Repubblica Turca, Recep Tayyip Erdoğan. L’altra formazione, il Partito Socialdemocratico (SDP), è il contrappeso laico di centro-sinistra al SDA e altrettanto favorevole all’integrazione nell’Unione Europea. Peraltro si tratta di un partito che, nato inizialmente per rappresentare la minoranza croato-cattolica e in parte anche serbo-ortodossa nella Federazione, si è col tempo aperta all’elettorato bosgnacco, oggi predominante, perdendo in parte la caratteristica di partito interconfessionale e non “etnico” (a parole lo sono tutti, ma non nei fatti) della Bosnia-Erzegovina.
Permane invece, in rappresentanza della cospicua minoranza croata, un partito “etnico” di riferimento, l’Unione Democratica Croata (HDZ), formazione nazionalista moderata e di centro-destra, anch’essa favorevole all’integrazione nell’Unione Europea. Questo partito è invece riuscito ad aggiudicarsi con una certa frequenza la presidenza della Federazione, in virtù della maggiore competizione tra SDA e SDP che indebolisce il peso specifico del voto bosgnacco per l’elezione presidenziale in parlamento, dove si creano alleanze variabili che negli anni hanno premiato la terza forza rappresentata dal HDZ. Peraltro, con l’eccezione della breve parentesi della presidenza della Federazione assunta dall’esponente nazionalista croato Živko Budimir, già ufficiale dell’esercito croato e generale in quello croato-bosniaco, in carica tra il 2011 e il 2015, dal 2003 fino ad oggi la presidenza della Federazione è sempre andata ad esponenti croati del HDZ. Il vero potere, a differenza che nella Repubblica Srpska, non è tuttavia nella mani del presidente della Federazione, ma del primo ministro, carica dove l’alternanza tra i due partiti bosgnacchi è invece quasi certezza matematica.
Unica vera crisi politica che ha attraversato il Paese nella sua interezza è stata quella del 2014. A fare da detonatore è stata la crisi finanziaria globale del 2008, che si è riverberata sulla Bosnia-Erzegovina in ragione dell’esposizione finanziaria delle imprese locali, che persero in media tra il 60 e il 76 per cento del loro valore, provocando licenziamenti e un’impennata della disoccupazione soprattutto tra le fasce più giovani della popolazione. Non era ancora superata la crisi del 2008 che ne seguì un’altra, nel 2012, prodotta dalla recessione europea in seguito alla crisi del debito nell’area euro, diminuendo la domanda di beni importati, le rimesse e il turismo, inducendo ulteriore povertà e disoccupazione54. In tale frangente le prime serie manifestazioni di malcontento si ebbero a Sarajevo fin dai primi mesi del 2008; scrive a questo proposito Roberto Belloni, ordinario di Scienza politica all’università di Trento e studioso di politiche e problemi dei Balcani occidentali:
«Le motivazioni civili, non etniche che sospingevano queste proteste confermarono il fatto che molti bosniaci condividevano le stesse preoccupazioni, e che identificavano le élite predatorie e le politiche pubbliche neoliberali della comunità internazionale, anziché i membri di un diverso gruppo nazionale, come la principale causa dei loro problemi»55.
Rientrata questa prima fase di manifestazioni di piazza, l’ondata di sdegno e proteste toccò la Repubblica Srpska, dove tra il 2012 e il 2013 si tennero proteste contro la speculazione edilizia a danno di un parco pubblico di Banja Luka, sul quale un affarista legato al presidente Milorad Dodik aveva ottenuto i permessi per costruire un complesso residenziale e commerciale (poi effettivamente realizzato)56, a cui seguirono proteste contro l’inefficienza della burocrazia che di fatto rallentava la concessione dei documenti per l’espatrio ai neonati accompagnati dai genitori, alcuni dei quali si recavano all’estero per essere sottoposti a cure mediche salvavita. Ma la grande ondata protestataria esplose l’anno successivo, all’apice della crisi economica, con il tasso di disoccupazione al 44 per cento (quella giovanile al 62 per cento). I licenziamenti di operai prodotti dalla privatizzazione dell’intero settore industriale a Tuzla, terza città del Paese (110 mila abitanti) e principale centro manifatturiero della Federazione croato-musulmana, fecero detonare la protesta nel febbraio 2014. Il rancore e la frustrazione contro la corruzione e l’incapacità della classe politica locale fece diffondere le proteste in tutti i principali centri della Federazione e anche in alcune città della Repubblica Srpska. I manifestanti formarono dei “plenum”, sorta di assemblee informali di cittadini, senza distinzione di “etnia”, che si riunivano per discutere e approvare le rimostranze e le richieste da esporre al governo57.
Tuttavia dopo qualche mese l’ondata protestataria si smorzò fino a scomparire. Avevano pesato sia i timori, da parte degli aderenti ai “plenum”, di perdere i pochi posti di lavoro assicurati dai legami politici, di incorrere in sanzioni e chiusure per chi possedeva attività commerciali o produttive, e pesò anche lo scarso coinvolgimento delle ONG sostenute dai finanziamenti internazionali, che miravano alla preservazione della stabilità e criticavano (venendo per questo apertamente sbeffeggiate dai “plenum”) qualsiasi attività che potesse suscitare giudizi controversi o intenti provocatori. Infine, il peso determinante per il fallimento del movimento di protesta lo ebbero i media, schierati dalla parte della classe dirigente politica e pronti a indicare i manifestanti come delinquenti comuni. Persino la natura ebbe la sua parte, colpendo nella primavera del 2014 la Bosnia-Erzergovina con piogge battenti e alluvioni che indirizzarono la militanza popolare dei “plenum” verso attività di volontariato per lenire i danni delle inondazioni58. Negli anni successivi la lenta ripresa dell’economia e il rinsaldarsi dei legami clientelari legati alla distribuzione delle risorse finanziarie internazionali fecero il resto e una debole pace sociale si è ristabilita.
La Bosnia-Erzegovina e il processo di adesione all’Unione Europea
Al di là di questo aspetto la Bosnia-Erzegovina è uno dei Paesi balcanici con il più alto tasso di disaffezione nei confronti dell’Unione Europea. Il miraggio dell’adesione del Paese nell’Unione è lentamente declinato passata la prima fase di entusiasmo, nei primi anni di questo secolo, in seguito alla crisi economica del 2008-2014 e, per certi aspetti, all’incancrenirsi di quelle pratiche clientelari che sono state agevolate dalle oligarchie politiche beneficiate dal paternalistico peacebuilding della UE attraverso il suo Alto Rappresentante, oltre che dalla transizione all’economia di mercato anch’essa comunemente attribuita alla UE. Il risultato è che nel primo quarto di questo secolo si è assistito a un rapido declino del sostegno dell’opinione pubblica bosniaca all’inclusione del Paese nell’Unione Europea. Secondo due sondaggi (Gallup Balkan Monitor e Regional Cooperation Council), tra il 2006 e il 2018 alla domanda «pensi che l’adesione all’UE sarebbe una cosa positiva?» le risposte affermative sono passate dal 70 per cento ad appena il 45 per cento, il dato più basso dei Balcani dopo la Serbia, sebbene non manchino segnali di ripresa del consenso e notevoli variazioni tra la Federazione e la Repubblica Srpska59.
E questo avviene proprio quando il processo di adesione della Bosnia-Erzegovina all’Unione Europea sembra avere accelerato, sebbene sempre in un’ottica che ricorda il paradosso, ascritto al filosofo magnogreco Zenone, di Achille e la tartaruga. Formalmente, dopo due decenni di “apprendistato” alle buone pratiche politiche, amministrative ed economiche, il 15 febbraio 2016 il Paese ha formalmente fatto richiesta di adesione all’Unione Europea e nel dicembre ha ricevuto dalla Commissione Europea il questionario sull’adeguamento alla trentina di criteri richiesti dall’Unione per poter dare avvio al negoziato. Facendo seguito a una serie di raccomandazioni, nell’ottobre 2022 la Commissione Europea ha richiesto che il Consiglio Europeo prendesse in considerazione lo status di candidato all’adesione della Bosnia-Erzegovina, confermando le misure legali intraprese dal governo bosniaco per adeguarsi alle richieste di Bruxelles. Il Consiglio Europeo tenuto nel marzo 2024 ha quindi finalmente aperto al negoziato di adesione (l’Italia in questo ha fatto la sua parte)60, condizione che pone ora la Bosnia-Erzegovina sullo stesso piano dell’Ucraina e della Moldavia (Paesi con i quali il Consiglio Europeo nel dicembre 2023 ha acconsentito all’apertura di negoziati) e un passo indietro rispetto a Paesi che hanno già aperto il negoziato: Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia.
Si segnala peraltro che il negoziato di adesione è iniziato fin dal 2012 per il Montenegro e dal 2014 per la Serbia. Il percorso è quindi in un certo senso solo agli inizi. Frattanto il Paese, che pure per la sua condizione di semi-protettorato europeo rimane ancorato all’Occidente, si ritrova colto sul guado in questa stagione di equilibri geopolitici in movimento. Il conflitto in Ucraina ha di fatto permesso a una delle due componenti federate di questo Stato bicefalo dei Balcani occidentali di rinsaldare ancor più i rapporti con la Russia, mentre l’altra unità federata rimane culturalmente divisa tra Occidente e Oriente, quest’ultimo rappresentato dall’ex potenza imperiale che ha dominato per quattro secoli sulla Bosnia: la Turchia. È un dettaglio simbolico che mostra l’importanza dell’influenza turca in area balcanica il fatto che, in occasione della rielezione di Recep Tayyip Erdoğan alla presidenza della Repubblica di Turchia, il 3 giugno 2023, fossero presenti solo cinque Paesi europei con le rappresentanze del medesimo livello presidenziale, tutti dell’area balcanica: Bulgaria, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e…Bosnia-Erzegovina61. Peraltro va sottolineato come, al di là del sincero europeismo espresso dai maggiori partiti bosgnacchi, le élite musulmane bosniache abbiano interiorizzato negli anni un certo senso di vittimizzazione in seguito al conflitto civile del 1992-95, identificando sovente l’Europa e, più in generale, l’Occidente come un’entità estranea alla cultura nazionale, entità che in quei tragici anni di conflitto civile si sarebbe voltata dall’altra parte, tradendo in una certa misura la causa nazionale dei musulmani di Bosnia e non ostacolando una partizione del Paese che rende ancora oggi difficile la convivenza. In questo senso il modello di modernizzazione promosso in Turchia dal presidente Erdoğan e dal partito islamico-moderato AKP sembra rappresentare per alcuni un esempio meglio riuscito di quello promosso dall’Europa e culturalmente più affine62.
- Jože Pirjevec, Serbi, croati, sloveni. Storia di tre nazioni, Bologna, Il Mulino, 1995, ed. 2015, 228 p. [citazione alle pp. 74-75] ↩︎
- Edvard Cucek, Kemal Monteno, cantare una vita, in “Osservatorio Balcani e Caucaso”, 26 gennaio 2023; https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Kemal-Monteno-cantare-la-vita-223017 ↩︎
- https://tg.la7.it/spettacolo/regista-kusturica-cremlino-putin-grazie-per-guerra-in-ucraina-19-04-2024-210033 ↩︎
- Ivo Andrić, Na Drini ćuprija, Belgrado, Prosveta, 1945; trad. italiana, Il ponte sulla Drina, Milano, Mondadori, 1967; ed. 2016, 446 p. ↩︎
- Will the Census in BiH be conducted next Year?, in “Sarajevo Times”, 1 febbraio 2022; https://sarajevotimes.com/
will-the-census-in-bih-be-conducted-next-year/ ↩︎ - Per una sommaria ricostruzione dell’impatto delle invasioni degli Àvaro-Slavi sull’Impero bizantino: Georg Ostrogorsky, Geschichte des Byzantinischen Staates, Monaco, C.H.Beck, 1963; trad. italiana, Storia dell’Impero Bizantino, Torino, Einaudi, 570 p. [citazione alle pp.70-71, 85-86] ↩︎
- Jože Pirjevec, Serbi, croati, sloveni, op.cit, pp.12-16 ↩︎
- Ivi, pp.87-90 ↩︎
- Ivi, p.90 ↩︎
- Pàtari o patarini era la definizione, la cui etimologia rimane incerta, che si dava agli aderenti al movimento religioso popolare ispirato dalla parte più responsabile della società ecclesiastica che si batteva contro il malcostume e gli abusi del clero, quali la simonia (ovvero la compravendita di cariche ecclesiastiche), il concubinato e, più in generale, contro la corruzione morale e materiale dei suoi esponenti. Il movimento pataro ebbe come epicentro Milano, nella metà dell’XI secolo, ma il termine si estese in seguito anche ad analoghi movimenti di riforma del clero diffusi nelle città dalmate, i quali sarebbero stati accusati di eresia. ↩︎
- Mihailo Dinić, I Balcani (1018-1499), in The Cambridge Medieval History, vol.IV The Byzantine Empire, Cambridge, Cambridge University Press, 1966; trad. italiana Storia del Mondo Medievale, vol.IV La riforma della Chiesa e la lotta fra papi e imperatori, Milano, Garzanti, 1979, pp.596-643 [citazione alle pp.624-625] ↩︎
- Ivi, p.626 ↩︎
- La cittadina di Srebrenica, nella Bosnia orientale, dove si consumò tra l’8 e il 15 luglio 1995 l’eccidio di oltre settemila civili bosniaco-musulmani, fu per secoli nota per i giacimenti di argento, per cui fu chiamata in età romana Argentaria e, dopo l’insediamento slavo, con il toponimo attuale che deriva dal serbo-croato srebro, “argento”. ↩︎
- Mihailo Dinić, I Balcani (1018-1499), op.cit., p.627 ↩︎
- Jože Pirjevec, Serbi, croati, sloveni, op.cit, p.16 ↩︎
- Mihailo Dinić, I Balcani (1018-1499), op.cit., pp.627-628 ↩︎
- Jože Pirjevec, Serbi, croati, sloveni, op.cit, p.92 ↩︎
- Mihailo Dinić, I Balcani (1018-1499), op.cit., p.634 ↩︎
- Ivi, pp.635-636 ↩︎
- Ivi, pp.636-637 ↩︎
- Gilles Veinstein, Le province balcaniche (1606-1774), in Historie de l’empire ottoman (sous la direction de Robert Mantran), Parigi, Librairie Arthème Fayard, 1989; trad. italiana, Storia dell’Impero Ottomano, Lecce, Argo, 1999, 880 p. [citazione alle pp.323-324] ↩︎
- Jože Pirjevec, Serbi, croati, sloveni, op.cit, p.19 ↩︎
- Georges Castellan, Historie des Balkans (XIVe-XXe siècle), Paris, Fayard, 1991, 643 p.; trad. italiana, Storia dei Balcani, XIV-XX secolo, Lecce, Argo, 1996, 616 p. [citazione alla p.153] ↩︎
- Jože Pirjevec, Serbi, croati, sloveni, op.cit, pp.22-23 ↩︎
- Ivi, pp.146-147 ↩︎
- La frase originale «e mos shikoni kisha e xhamia, feja e shqyptarit asht shqyptaria» si traduce in «non badare alla chiesa o alla moschea, la fede degli albanesi è l’albanesità» ed è tratta da una poesia edita nel 1880, O moj Shypnis (“Oh mia Albania”) di Pashko Vasa, noto anche come Vaso Pasha (1825-92), albanese cattolico di Scutari che fece carriera come funzionario imperiale ottomano. Tra gli incarichi di maggiori rilievo ricoperti fu segretario dell’ispettore generale per la Bosnia (1863-64), governatore di Edirne nel 1879 e governatore (mutasarrif) del Monte Libano (1882-92), ovvero la regione di Beirut. Poeta, saggista e grammatico, poliglotta (scrisse spesso in francese e in italiano), nel 1847 fu in Italia, prima a Bologna poi a Venezia, e nell’ottobre 1848 prese parte con gli insorti veneziani alla sortita del forte di Marghera (27 ottobre 1848). Alla fine della restaurata Repubblica di Venezia di Daniele Manin (agosto 1849) fu tenuto in arresto dagli austriaci ed espulso in territorio ottomano. Della sua esperienza in Italia scrisse il libro di memorie, in italiano, La mia prigionia, episodio storico dell’assedio di Venezia (Istanbul, 1850). Cfr. Robert Elsie, Historical Dictionary of Albania, Lanham-Toronto-Plymouth, Scarecrow Press, 2010, 560 p. [cit. alle pp.465-467]. ↩︎
- Ivo Andrić, Il ponte sulla Drina, op.cit., p.233 ↩︎
- Georges Castellan, Storia dei Balcani, XIV-XX secolo, op.cit., p.402 ↩︎
- Jože Pirjevec, Serbi, croati, sloveni, op.cit, p.119 ↩︎
- Georges Castellan, Storia dei Balcani, XIV-XX secolo, op.cit., p.401 ↩︎
- Roberto Belloni, I Balcani dopo le guerre. Ascesa e declino dell’intervento internazionale, Roma, Carocci, 2022, 256 p. [citazione alla p.38] ↩︎
- Ivi, p.39 ↩︎
- Ibidem. ↩︎
- Ivi, p.40 ↩︎
- Ivi, p.114 ↩︎
- Ivi, p.42 ↩︎
- Ivi, p.43 ↩︎
- Ivi, pp.46-47 ↩︎
- Ivi, pp.194-195 ↩︎
- Jože Pirjevec, Serbi, croati, sloveni, op.cit, pp.145-146 ↩︎
- Gilles Kepel, Sortir du chaos. Les crises en Méditerranée et au Moyen-Orient, Parigi, Gallimard, 2018, 528 p.; trad.italiana, Uscire dal caos. Le crisi nel Mediterraneo e nel Medio Oriente, Milano, Raffaello Cortina, 2019, 424 p. [cit. alla p.80] ↩︎
- Ivi, pp.80-81 ↩︎
- Ivi, pp.81-82 ↩︎
- https://icsr.info/2015/01/26/foreign-fighter-total-syriairaq-now-exceeds-20000-surpasses-afghanistan-conflict-1980s/ ↩︎
- Popis stanovništva, domaćinstava i stanova u Bosni i Hercegovini, 2013. Rezultati popisa (Census of Population, Households and Dwellings in Bosnia and Herzegovina, 2013. Final Results);
https://web.archive.org/web/20171224103940/http://www.popis2013.ba/popis2013/doc/Popis2013prvoIzdanje.pdf ↩︎ - Lucia Betti, Bosnia-Erzegovina, in Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti, VI appendice, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2000; consultato sul sito:
https://www.treccani.it/enciclopedia/bosnia-ed-erzegovina_(Enciclopedia-Italiana)/ ↩︎ - Roberto Belloni, I Balcani dopo le guerre, op.cit., pp.65-66 ↩︎
- Ivi, p.75 ↩︎
- Ivi, p.117 ↩︎
- Ivi, p.95 ↩︎
- Ivi, p.144 ↩︎
- https://www.ansa.it/nuova_europa/it/notizie/rubriche/politica/2024/02/21/dodik-a-putin-siamo-contro-la-nato-e-sanzioni-a-russia_43e459da-7765-4f09-8f1c-d4c4760139e9.html ↩︎
- https://mid.ru/en/press_service/photos/meropriyatiya_s_uchastiem_ministra/1936191/ ↩︎
- Roberto Belloni, I Balcani dopo le guerre, op.cit., pp.133-134 ↩︎
- Ivi, p.190 ↩︎
- L’episodio ricorda la quasi contemporanea ondata di proteste che attraversò la Turchia nella tarda primavera ed estate del 2013, partite da un analogo progetto di speculazione edilizia favorita dal partito AKP nel cuore del quartiere Beyoğlu di Istanbul, dove era prevista la cementificazione del parco Gezi nei pressi della piazza Taksim. ↩︎
- Roberto Belloni, I Balcani dopo le guerre, op.cit., pp.190-194 ↩︎
- Ivi, pp.194-195 ↩︎
- Ivi, p.165 ↩︎
- https://www.esteri.it/it/sala_stampa/archivionotizie/comunicati/2024/03/missione-del-ministro-tajani-a-sarajevo/;
https://www.ansa.it/nuova_europa/it/notizie/nazioni/bosnia/2024/03/04/tajani-italia-impegnata-per-lingresso-della-bosnia-in-ue_b071ee3d-f8af-430b-9956-053f3a4d0c8f.html ↩︎ - Mehmet Uğur Ekinci, “Perché la Turchia è potenza balcanica”, in Limes, 7/2023, pp. 221-226 ↩︎
- Roberto Belloni, I Balcani dopo le guerre, op.cit., p.174 ↩︎
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