Avviene talora che fra un oggetto e un altro o tra un evento e un altro non si veda un intermediario visibile o quantificabile, ma unicamente il semplice vuoto, cioè un’assoluta apparente assenza, una sequenza non coordinata nei suoi elementi, una sorta di buco nero spesso attraversato dal silenzio.
Si sa che il vuoto materiale esiste e in fisica è uno dei teoremi fondamentali nella concezione dello spazio. Secondo W. Leibniz (1646-1716)in alcuni casi “esiste” anche il “vuoto di forme”, quando cioè non ci sono sostanze capaci di colmare i gradi di percezione. Il vuoto, però, non è solo quello rapportato allo spazio di tipo cartesiano, ma anche a quello con la coordinata tempo (A. Einstein).
Nella Relatività Generale questo concetto è precisato e ampliato con l’aggiunta della nozione di “campo”, nel quale sono rappresentati tutti i fenomeni fisici. Le mutazioni in questi ultimi vengono spiegate come un mutamento nella struttura metrica del “campo”. Quindi nell’osservare la curvatura dello spazio e del tempo, e dunque la elasticità di questi ultimi, l’unità di misura non è più quella euclidea (il numero), ma il calcolo viene operato nelle diverse parti del “campo” considerato come un tutto, a seconda delle variazioni nella densità della materia e dell’energia. In questa visione unitaria del reale, prescindendo dal “campo”, non vi sarebbe nulla, neppure lo spazio vuoto.
Che cosa è, allora, il vuoto? Come si può facilmente notare, esso non è tanto o unicamente espressione di quell’ “horror vacui” esistenziale quanto soprattutto un raffinato e delicato vettore-veicolo di informazioni per l’intelligenza: solo ha bisogno di essere osservato e ben “letto” nel suo significato di Insieme fra un indizio e l’altro (eventi, oggetti), prescindendo dalle personali supposizioni.
Probabilmente nella conoscenza esso è e opera sotto forma di energia vibratoria e ondulatoria apparentemente invisibile che chiede soltanto, per così dire, di essere raccolta e attentamente decodificata in un linguaggio che diventi intelligibile.
Questa appunto è la ricerca del “legame”, che, pur esistendo, non tutti riescono a coglierlo nella sua interezza. Sostanzialmente quest’ultimo è una particolare forma di relazione che impercettibilmente va a stabilirsi fra le parti di un Insieme soltanto a prima vista lontane, distinte e distanti fra di loro.
Operativamente questa si definisce come una sorta di riposizionamento di un messaggio che non appare più isolato dal suo contesto, ma che quasi scopre, per un’autonoma dinamica interna, di poter possedere un suo senso solo se “rapportato a…”.
I.Kant (1720-1804) aveva distinto due forme di “legami”: la prima è quella costituita dalla connessione delle cose fra di loro nell’ordine causale (legame effettivo); la seconda riguarda le stesse ma nell’ordine finale (nesso finale).
Per A. N. Witehead (1861-1947) il “legame”, insieme alle cose e alle percezioni, fa parte degli elementi ultimi della medesima realtà, quindi esso stesso è un “quid” sotto certi aspetti anche quantificabile se non nel peso almeno nella sua rilevanza formale.
Le parti, dunque, sono tali perché riferite a un tutto, cioè a un “Insieme” che le contiene. Ma cosa è l’Insieme? Nella sua primitiva elaborazione questo concetto, anche se con G. Cantor (1845-1918) ha occupato poi un posto centrale nella Teoria dei Numeri, all’inizio è stato inteso come “aggregazione in un unico tutto di oggetti determinati e distinti della nostra intuizione o del nostro pensiero: oggetti che sono detti elementi dell’Insieme” (G. Cantor).
Una simile definizione, però, si presenta insoddisfacente sia perché la nozione di “aggregato” può essere ritenuta identica a quella di Insieme, sia perché, richiamandosi a “oggetti di intuizione o di pensiero”, sembrerebbe fondarsi solo sull’esperienza interna della persona e introdurre così nozioni di natura psicologica soggettiva e non invece oggettiva. In realtà il concetto di Insieme non è altro che la generalizzazione di quello di “coesistenza”, delimitata da due condizioni: la distinzione degli elementi dell’Insieme e la determinabilità di tali elementi.
Questa teoria, considerata così nella matematica, se da una parte tenta di garantire queste due condizioni, dall’altra, però, prescinde completamente dal carattere intuitivo sia degli Insiemi che dei suoi elementi costitutivi.
Nella Logica moderna invece, che interessa di più al nostro discorso, la nozione di Insieme si identifica con quella di classe, che implica l’idea di “unitarietà” e non di pura e spesso incoerente aggregazione. Perciò le cosiddette coincidenze in questa ottica vanno rilette con grande attenzione e senza superficialità, perché niente in esse vi è di casuale, ma esiste sempre un “rapporto interno” fra gli “indizi” (segni) da cogliere nel tempo per essere poi inseriti in un tutto (significato) che “improvvisamente” va a illuminare i singoli componenti dando loro così un senso. Schematicamente riporto nella figura che segue le relazioni che esistono in una serie di eventi apparentemente lontani fra di loro.
Relazioni tra “segni” e “Significato” (Campanozzi)
In questa figura sono visivamente rappresentate le reciproche relazioni nascoste fra i vari indizi-segni (A – B – C – D): dall’ultimo di questi (D) si delinea nel contempo il quadro del significato complessivo e la giustificazione del punto di partenza (A). Alla fine l’Insieme, a sua volta, chiarisce e dà un senso ai singoli passaggi temporali degli eventi, cioè A-B-C.
Occorre, allora, saper cogliere il valore linguistico del vuoto, che con il suo potenziale apporto informativo è sempre di natura logico-spazio-temporale e in qualche modo si rifà più a un collegamento sintattico (richiamo di concetto) che non a uno strettamente grammaticale (causa-effetto).
Questa è un’operazione importante del processo intuitivo per evitare di vagare nel buio della frammentarietà, dove ogni tassello si ridurrebbe a un qualcosa di banale, di scisso, di oscuro e di avulso dal contesto complessivo e rivelarsi privo di importanza per il cosiddetto “salto quantico” nell’apprendimento del tutto destinato a essere irrimediabilmente perduto. Così agiscono appunto il “nesso finale” di Kant e il “niente si spiega con se stesso” di K. Gödel (1906-1978).
Percepito allora con sufficiente certezza che “anche” il vuoto “parla” con un suo particolare codice da intuire nei suoi nessi logici, le possibilità offerte alla conoscenza dalla decodificazione di tale Linguaggio sono tante e riferibili a molte categorie di fenomeni: da quelli cosiddetti anomali ai numerosi accadimenti la cui “conoscenza” sarà nota solo al culmine del loro verificarsi.
Collegando le parti di questo tutto ancora ignoto si può pervenire anche a vere svolte di vita o a un qualcosa d’Altro che potrebbe andare al di là del comune modo di muoversi nella scienza. Sono quei “Gradini che non finiscono mai” dei quali parla il Premio Nobel Giorgio Parisi nella sua Autobiografia (novembre 2022).
Lo spettro della conoscenza dovrebbe, dunque, svilupparsi liberamente a 360 gradi con uno sguardo prospettico che superi i limiti angusti della sensazione in modo da poter sistemare il reale e ampliare così gli orizzonti del sapere. La stessa ricerca scientifica con le relative scoperte non procede forse seguendo proprio simili regole?
Questi apparenti vuoti, dunque, parlano continuamente e avrebbero bisogno solo di essere finalmente ascoltati, verificati e meditati!
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