A proposito del saggio di Massimo Crosti Nitti interprete del Novecento
Quattordici/D Lexicon Fresco di stampa
Salvatore Sechi
Docente universitario di storia contemporanea
Salvatore Sechi prende spunto dall’uscita del del saggio di Massimo Crosti Nitti interprete del Novecento1 per denunciare colui che definisce una fra le più illustri “vittime” designate” di quella che definisce “l’accoppiata sistema elettorale proporzionale-partiti di massa”. Secondo Sechi “Francesco Saverio Nitti sperimentò subito sulla propria pelle, nel secondo dopoguerra, che per lui nel vertice del potere non c’era posto. Di qui un’esistenza vissuta tra solitudine e ruoli di pura immagine e di minoranza”. Lo storico sardo non esita a intitolare la sua recensione2 “Nitti e la débâcle di democratici e socialisti”: “per dare la dimensione reale del personaggio, a ragione Crosti – scrive lo storico sardo – ricorda due momenti in cui Nitti espresse una prospettiva, vale a dire il possibile indebolimento, se non il declino, dei regimi democratici. Dopo la Prima guerra mondiale quando, al pari di John Maynard Keynes, giudicherà eccessivo il peso delle sanzioni a carico della Germania, prevedendo che, per reagire ad esso, Berlino avrebbe scatenato il secondo micidiale conflitto internazionale. [Poi nel secondo dopoguerra] il successo degli Stati Uniti nella guerra fredda non gli fece velo nel paventare i grandi pericoli connessi all’isolamento dell’Urss. Ma non precipitò mai nell’album di cui è ricco il Pci, cioè nella figura patetica, ambigua, del compagno di strada, dell’iscritto in un registro speciale segreto. Nitti non si prestò neanche a figurare come il primo sottoscrittore dei manifesti (in generale sempre filosovietici) e del culto delle differenze auto-attribuitesi dal Pci. Quella della lega buona, accreditata da Eric Hobsbawn, cioè del “comunista italiano”, una sorta di isola felice nella plaga miserevole del comunismo centro-europeo e mediterraneo”.
26 ottobre 2024
L’accoppiata sistema elettorale proporzionale-partiti di massa ha avuto vittime designate, anche illustri. Ad essere privilegiata da questa proposta di un sistema democratico avanzato fu la creazione di una catena di comando che consentisse ad un leader di munir si di una leadership devota e a volte capace e appassionata.
Per quanti non potevano eccellere per meriti propri (accademici o di competenze specialistiche, eccetera) la ruota del pavone al capo li condannava a restare confinati nell’ombra, a levigare le loro ambizioni. A non emergere. per non impensierirlo e creargli crucci.
È la storia di Antonio Giolitti e Palmiro Togliatti fino, si può forse dire, ad Antonio Tatò ed Enrico Berlinguer e a Giuliano Amato e Bettino Craxi, per fare qualche esempio.
Francesco Saverio Nitti sperimentò subito sulla propria pelle, nel secondo dopoguerra, che per lui nel vertice del potere non c’era posto. Di qui un’esistenza vissuta tra solitudine e ruoli di pura immagine e di minoranza.
La politica contemporanea rifugge, quando non le esecrano, dalle competenze e dalla stessa cultura, perché per rimediare alla mancanza di entrambe, in parlamento e nei grandi partiti in grado di distribuire risorse e mance, ci sono apparati e strutture di servizio. Suppliscono anche alla più cosmica ignoranza dei rappresentanti di un popolo che esercita la sua (dubbia) sovranità votando nella misura del 48 per cento.
L’esempio più eclatante nella storia della repubblica è il ministro Matteo Salvini. Non dispone di nessuna cultura se non l’arte malefica di riuscire a profferire ogni giorno ideuzze micro-demagogiche in contrasto con quelle del governo di cui fa parte.
Può così col suo carico di miserabilismus, permettersi di declassare il consenso elettorale al suo partito, la Lega, dal 33 per cento al 9 per cento. Senza che nessuno (premier, capo dello Stato, la tristissima stampa che ci trastulla la pena di vivere, eccetera), in questo paese prigioniero di ombre, fallito come Stato e come nazione, osi chiedergli di cambiare aria o mestiere.
Neanche il mondo politico che gli agrari spedirono in parlamento con l’Unità d’Italia era impressionante per la sua preparazione legislativa, tecnica o culturale. Ma si riconosceva in personaggi come Francesco Saverio Nitti o Sidney Sonnino, per fare due esempi diversi.
Ea un liberale di sinistra, cioè riformista, che prima di essere scelto come ministro nel governo Giolitti del 1911, aveva ritenuto opportuno munirsi di conoscenze scientifiche e tecniche anche specialistiche. Per rispettate il mandato degli elettori oltre che la sua personale moralità.
Nel nuovo saggio Nitti interprete del Novecento redatto da un giovane studioso come Massimo Crosti, tanto l’autore quanto storici di una diversa generazione come Francesco Barbagallo nella prefazione, convengono nel datare l’appartenenza di Nitti
“alla felice epoca storica in cui si poteva affermare che una vasta cultura fosse il miglior viatico per una efficace azione politica” (p. xii)
Questo bisogno di munirsi di una sorta di dote o scorta di competenze e conoscenze era strettamente collegata a quanto il ceto politico odierno pensa di poter esorcizzare fino a prescinderne, cioè una visione generale, un disegno del futuro, e della collocazione dell’Italia in esso.
Quando, nella primavera del 1911, Giovanni Giolitti assegna a Nitti il ministero di agricoltura, industria e commercio, l’intellettuale (e parlamentare dalle elezioni del 1904) di Muro lucano da un ventennio si era impadronito di una tematica estesa e significativa.
La saprà mettere a frutto sul piano delle riforme come il controllo pubblico sulle assicurazioni generale, come l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, l’Iri eccetera. Fanno parte dell’elaborazione di una teoria dello sviluppo che Giuseppe Are seppe cogliere in lui contrastando l’allora facile profezia che dal Sud non potesse venire se non arretratezza e corruzione.
Ma, per dare la dimensione reale del personaggio, a ragione Crosti ricorda due momenti in cui Nitti espresse una prospettiva, vale a dire il possibile indebolimento, se non il declino, dei regimi democratici.
Dopo la Prima guerra mondiale quando, al pari di John Maynard Keynes, giudicherà eccessivo il peso delle sanzioni a carico della Germania, prevedendo che, per reagire ad esso, Berlino avrebbe scatenato il secondo micidiale conflitto internazionale.
In secondo luogo, il successo degli Stati Uniti nella guerra fredda non gli fece velo nel paventare i grandi pericoli connessi all’isolamento dell’Urss. Ma non precipitò mai nell’album di cui è ricco il Pci, cioè nella figura patetica, ambigua, del compagno di strada, dell’iscritto in un registro speciale segreto. Nitti non si prestò neanche a figurare come il primo sottoscrittore dei manifesti (in generale sempre filosovietici) e del culto delle differenze auto-attribuitesi dal Pci. Quella della lega buona, accreditata da Eric Hobsbawn, cioè del “comunista italiano”, una sorta di isola felice nella plaga miserevole del comunismo centro-europeo e mediterraneo.
Crosti non ha riserve nell’offrire l’immagine, non sempre inedita, ma da questo volume costruita sull’analisi dell’ampio spettro del pensiero politico, di Nitti. Tutto converge verso quella minoranza di italiani, rievocata e anche di recente da Giuliano Amato come la sua patria ideale: liberal-democratici, quando non liberal-socialisti.
Perché non hanno avuto, al di là di qualche influenza, né grande né un piccolo successo? La domanda prorompe spesso nelle domande di Amato, la si percepisce sottotraccia nella narrazione di Crosti e in chi l’aveva tradotto in partito, appunto il Partito Italiano d’Azione.
Dopo si esaurì l’alba di questo movimento politico per lasciare quasi tutto lo spazio alla sinistra socialista e comunista, al suo legame di ferro, scolpito nell’antifascismo.
Voglio dire che la cultura politica del terza-forzismo finì travolta dal piombo nell’ala che gli si era incuneato come un fuoco inceneritore a lenta accensione dopo gli anni Venti quando tutto venne sacrificato all’alleanza con l’Unione sovietica e con i comunisti.
Non suonò un campanello d’allarme nel 1939 quando Stalin strinse un’alleanza di spartizione quasi coloniale con Hitler.
Purtroppo, lo scoppio della guerra contro il nazifascismo costrinse a riproporre un’alleanza innaturale dei liberaldemocratici e dei socialisti liberali con i comunisti. In Italia Nenni fece durare questa stagione dei pas d’ennemi a gauche! fino al 1956, non sradicando il filo rosso dell’unità della sinistra. Era ormai una gogna, il cappi o al collo di una primavera liberal-socialista.
Da soluzione empirica, risposta circoscritta, il frontismo è diventata feticcio e mito impedendo l’affermazione delle idee di personaggi come Nitti.
Ancora oggi la bandiera dell’antifascismo di Elly Schlein è lo straccio, la vecchia maschera di un cedimento assoluto al comunismo, anche se quest’ultimo fortunatamente sembra avere la vitalità di un morto che cammina.
- Massimo Crosti, Nitti interprete del Novecento, prefazione di Francesco Barbagallo, Napoli, Editoriale Scientifica Italiana, 2024, 240 p. ↩︎
- Questa recensione è uscita contemporaneamente nel quotidiano on-line La giustizia, 7 agosto 2024. Cfr. https://lagiustizia.net/nitti-e-la-debacle-di-democratici-e-socialisti-di-salvatore-sechi/. ↩︎
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