Vincitore del premio Strega e del premio Mondello 2015 “La ferocia” è un romanzo noir che tratta della mala gestione da parte di un sistema paese corrotto situato nel Sud Italia. Fin qui onore e merito allo scrittore Nicola Lagioia con plausi meritati.
Purtroppo, però, non si può dire lo stesso della pièce teatrale presentata a Roma nell’ambito del REF 2023 che ne è scaturita grazie all’adattamento drammaturgico da parte della compagnia VicoQuartoMazzini.
L’elemento base della storia è una famiglia barese che fa da specchio ad una società malata e a tutte le manchevolezze di un sistema ambientale che purtroppo ancora oggi non accenna al cambiamento, nonostante il viver male di una popolazione che troppo spesso è considerata figlia di un Dio minore e che vede i suoi giovani abbandonare quei luoghi nativi per cercare altrove condizioni migliori che consentono loro una qualità di vita superiore. Dallo spettacolo spettrale come scenografia, emergono tutti gli stereotipi che hanno caratterizzato il nostro paese e non solo al Sud.
Infatti il dilagare di una certa mentalità, cioè di avvalersi del potere per perseguire proventi personali, non accenna ad esaurirsi. Il teatro e il cinema non hanno mai trascurato di affrontare questi problemi, ancora oggi i nostri attuali comici fondano la loro satira che a volte risulta essere più efficace delle varie proteste pubbliche, proprio su questi argomenti, sollecitando così, almeno si spera, l’interesse dei nostri amministratori.
A questo proposito voglio citare, tra i tanti comici, non a caso un certo Antonio De Curtis il quale, con grande ironia e sarcasmo, nel film “Gli onorevoli” del 1963 declamava a gran voce e col megafono a tutto il suo condominio “Votantonio Votantonio”, sottolineando con savoir faire, tutto il marcio che si nascondeva dietro i futili discorsi e le promesse elettorali da parte di una categoria ormai avvezza ad ottenere solo scopi autoreferenziali.
Ritornando al nostro spettacolo, ritengo che al di là della messinscena molto incentrata sugli argomenti finora citati, ci sia altro, infatti ogni personaggio facente parte del clan familiare in sede di rivisitazione della propria vita, in occasione della dipartita della prima figlia, pare, ufficialmente morta suicida, si analizza. Torna indietro nel tempo colpevolizzandosi e rimpiangendo le occasioni mancate non realizzabili in quel determinato momento a causa degli impedimenti attribuiti alla figlia, in questo caso da parte della madre che, come spesso accade vigliaccamente, ascrive ai figli la non realizzazione delle proprie aspirazioni.
Non meno importante gli altri due figli e il capofamiglia, la loro analisi è molto chiara: l’uno medico che viene coinvolto suo malgrado nelle losche faccende del padre; l’altro invece che viveva altrove, finge di essere al di fuori di quelle malefatte di cui non era a conoscenza e che non condivideva assolutamente, tanto che lascia intendere ad un certo punto una eventuale denuncia contro il padre. E il padre, senza commenti, cerca giustificazioni ed escamotage che possono poi discolparlo. Un quadro terrificante!
Rispetto a queste scene così apocalittiche il pubblico è rimasto freddo, non ci sono stati applausi a scena aperta e, in sala, si notava una certa impazienza registrata in piccoli movimenti, segni di stanchezza nel seguire lo svolgimento dello spettacolo da parte degli spettatori. “In un momento così buio come quello che stiamo attraversando, forse, a mio modesto parere, non sarebbe stato male fare intravedere uno spiraglio di luce. Lenire le ferite, a volte ci consente di sopportarle con maggiore dignità”.
Ciò che è mancato allo spettacolo è il salto di qualità nella sceneggiatura, cioè nel trasformare un’opera letteraria in una teatrale. Tenere l’attenzione del pubblico è essenziale, perché l’ensemble sia recepito nel modo giusto, in fondo il teatro è per il pubblico ed esso vive quel momento magico nel buio della sala, in simbiosi con la esternazione e la realizzazione di idee ed emozioni in sintonia con gli attori sul palcoscenico. Quindi Chapeau bas al pubblico sovrano!
L’arte sublima, deforma nel bene e nel male la realtà senza per questo nulla togliere all’essenza delle cose raccontate e filtrate attraverso le coscienze a cui sono destinate per diventare altro ed essere assimilate come proprie. Se ciò non si verifica sosteneva Umberto Eco, se uno scritto perde l’attenzione di chi ne fruisce, non diventerà mai un testo, infatti, esso per divenire tale dovrà avere un ipotetico lettore, fosse pure lo stesso autore, diversamente rimarrà un foglio chiuso in un cassetto.
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