Dunque. Quando mia madre mi vedeva apprestarmi ad uscire ben vestito, ben pettinato e soprattutto ben lavato, soleva intonare in mio onore quella meravigliosa aria per basso tratta da “Le nozze di Figaro” di Mozart.
“Non più andrai, farfallone amoroso, notte e giorno d’intorno girando; delle belle turbando il riposo
Narcisetto, Adoncino d’amor”
Diciamo che (forse) lo faceva per affetto materno e per predisporre il suo amato figliolo alla quasi certa delusione amorosa che lo attendeva. Ma la questione è un’altra.
Mia madre aveva la terza elementare e sin da adolescente aveva dovuto lavorare in uno dei negozi di mio nonno. In famiglia si apprezzava la lirica (due zii macchinisti al Teatro di Cagliari) ma posso tendenzialmente escludere che avesse sviluppato approfonditi studi di carattere mozartiano in particolare sui testi di Lorenzo da Ponte.
Del resto, anche questo mi è chiaro nel ricordo, quell’aria si affiancava nei discorsi quotidiani ad altre citazioni spesso di carattere operistico.
Una lunga attesa, ritenuta noiosa o inutile, veniva commentata ironicamente con “Un bel dì vedremo levarsi un fil di fumo”.
E posso garantire che nel tono non vi era alcuna condivisione per la povera Butterfly che attende amorosamente il traditore Pinkerton.
Antonio Gramsci avrebbe probabilmente valutato queste forme di espressione mutuate dalla “cultura alta” come “cascami inerti e degradati della cultura dominante”.
Del resto lui sognava il realizzarsi della figura di intellettuale organico come consapevole insieme e rappresentante della vera cultura popolare fondata sul lavoro e su quella specifica percezione del mondo che ne deriva.
Peccato che poi quella figura evocata si sia poi tradotta nella intellettualità del Partito Comunista Italiano autoproclamatosi rappresentante delle classi subalterne.
La vera questione è però un’altra.
Occorre chiedersi intanto perché e come mai quella particolare aria abbia avuto la capacità di sganciarsi dal contesto iniziale e riprodursi autonomamente per diventare elemento costante di cultura diffusa e di percezione del mondo.
Ma, soprattutto, occorrerebbe cercar di capire se in questo processo abbia mantenuto in toto o in parte quel valore iniziale che la caratterizzava.
Ovviamente queste domande valgono per le arie musicali come, per esempio, per la poesia,
L’espressione “Lasciate ogni speranza o voi che entrate” cammina tranquillamente per il mondo sorreggendoci anche di fronte allo porta dello studio del dentista o all’ingresso in campo della nostra squadra quando incontra la Juventus.
Apparentemente nel pronunciare quelle parole nessuno pensa a Caronte e alla iscrizione sulla porta dell’Inferno :
” Giustizia mosse il mio alto fattore; fecemi la divina podestate,la somma sapïenza e ‘l primo amore.Dinanzi a me non fuor cose create se non etterne, e io etterno duro. Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate.”
ma forse le cose non sono poi così semplici.
Il punto è che stiamo parlando di espressioni artistiche che hanno fatto un balzo ulteriore per entrare a pieno titolo nella dimensione simbolica.
Il simbolo è quella cosa (oggetto o documento) capace di trasmettere contenuti peculiari e non legati alla sua forma quando incontra qualcuno che lo riconosce in quanto tale e prescinde dalla sua natura materiale.
Il simbolo, insomma, parla soltanto quando trova l’ascoltatore giusto, altrimenti rimane suono o oggetto e basta.
L’esempio più semplice è la mezza moneta messa dalla madre al collo del figlio soldato in partenza per la guerra.
Un oggetto privo di qualunque valore per chiunque ma ripieno di valore per una sola persona, che teme vederlo tornare nelle mani di un commilitone del ragazzo.
Così quei riferimenti operistici o poetici (e ce ne sono tanti) assumono di colpo il loro vero spessore. Richiamano mondi lontani dal qui e adesso e scagliano la loro forza verso il momentaneo oggetto di attenzione.
Se dall’altra parte vi è la corretta sensibilità quelle parole, scelte fra tante, apriranno dei varchi di pensiero che potranno durare molto di più del momento.
Se non, pazienza. Continueranno a vivere staccate dai contesti in cui sono nate per riproporsi altre ed altre volte.
Su una delle grandi strade consolari romane, in vicinanza alla periferia, c’è un grande bar d’angolo con ampie e luminose vetrine.
La bella scritta che campeggia sopra è Horus caffè.
Caspita! Horus, il mitico figlio di Iside e Osiride, nato dopo che la madre ricompone il corpo del padre (smembrato dal perfido Seth) e vendica il padre offeso ed ucciso.
Horus, cui è affidato il ciclo invasivo delle acque del Nilo e ha come simbolo l’Occhio che sembra anticipare l’Occhio Onnisciente della tradizione cristiana.
Horus, l’avversario del Caos non casualmente nato dopo la momentanea ricomposizione del corpo del padre Osiride.
In lui si addensò nel corso dei secoli una gigantesca quantità di valori e di stimoli.
Insomma, una presenza nella Storia e nella coscienza collettiva di assoluto spessore.
Ogni giorno passano davanti a quella scritta migliaia di macchine, bloccate nel traffico della Tiburtina.
Migliaia di persone non possono fare a meno di leggerla, ma qualcuno di loro saprà certamente chi è Horus e, magari al volo, proietterà il suo pensiero verso il Nilo.
Magari penserà che ci vorrebbe una Divinità come quella per sconfiggere il Caos della strada impazzita.
Forse, ma solo forse, qualcheduno deciderà di informarsi un poco meglio su cosa voglia dire quella parola esposta con tale potenza.
Per gli altri, di nuovo pazienza. Sarà per un’altra volta.
Insomma, un messaggio può cambiare natura ed arricchirsi di una funzione simbolica che lo sottrae alla episodicità per determinare effetti più profondi nella coscienza di chi lo incontra e percepisce.
Questa possibilità è però strettamente legata non al messaggio in quanto tale, ma alla sua preesistente presenza, per quanto a volte inconsapevole, in chi lo riceve.
Ma cosa succederà oggi, quando il numero di messaggi emessi da moltissime persone cresce esponenzialmente ed è destinato a crescere sempre di più?
Viviamo immersi in un continuum senza sosta di comunicazione, che spesso ci spinge ad essere superficiali per non sentirci soffocati.
Alle spalle abbiamo un percorso collettivo cosparso di contenuti importanti che hanno dominato il panorama e ci hanno regalato parole, segni e suoni capaci di parlare per sempre al nostro pensiero più interno e riservato.
Come si comporrà il nostro inconscio nella sovrabbondanza di messaggi? Riusciremo a selezionare quel che vale per conservarlo? Come troveremo in questo nuovo contesto le sintesi che dovrebbero guidarci?
I messaggi e i contenuti che ci guidano, simbolici o meno che siano, sono cresciuti e si sono stabilmente affermati in un contesto di scarsità generalizzata.
In quel quadro e attraverso una infinità di ripetizioni e di esecuzioni hanno conquistato quel luogo immateriale da dove, se evocati, continuano a parlarci.
Ora dovrebbero continuare a vivere in un mondo che sembra conoscere soltanto il “qui e ora”.
E come farà l’intraprendente Figaro a raccontarci perché e come tormenta il povero Cherubino, l’elegantone cortigiano capace di conquistare tutte le donne?
E perché dovremmo stare ancora sentire la disperazione di Butterfly? La conclusione della storia era prevedibile e prevista. Peggio per lei se non ha voluto sentir ragioni.
Sinceramente non so come potrà andare a finire.
Il nostro collettivo sistema di formazione dei valori è sottoposto a una pioggia di messaggi parziali e incontrollabili che sembrano a volte avere la forza per influenzare istantaneamente il Presente, salvo poi la verifica negativa finale.
Non lo so, e sinceramente, ho paura.
Mi conforta e sostiene il ricordo di un racconto giovanile.
Una nostra lontana parente litigò violentemente con suo padre.
In preda al senso di colpa scappò sui tetti della Cagliari vecchia e, di fronte agli sbigottiti sguardi dei vicini, intonò
“Quel vecchio maledivami”
Aveva riassunto e riportato a se stessa la disperazione di Rigoletto, che in quel momento intuisce e prevede quel che sta per succedergli.
La musica di Giuseppe Verdi aveva camminato, quel giorno, sulle gambe di questa giovane donna di fronte al mare di Cagliari.
In fondo, quale dimostrazione migliore (e più bella) della forza eterna di quel brano, di quei personaggi e di quel racconto?
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