Da qualche settimana è ripreso l’attivismo di noti esponenti di quello che fu un partito politico di grande rilievo nel secolo scorso, il Partito Socialista Italiano. Per la verità è un fenomeno che si rinnova quando sono in vista competizioni elettorali e quindi anche questa volta l’elezione del nuovo parlamento europeo fissato per la primavera del prossimo anno ha fatto scattare l’allarme, cioè la necessità di unire le diverse correnti per cogliere l’obiettivo di superare la soglia del 4% ed eleggere i propri rappresentanti a Bruxelles. Sono trascorsi trent’anni da tangentopoli e quel che rimaneva del psi è stato sottoposto più volte e in vario modo al giudizio degli elettori ottenendo sempre lo stesso risultato, più o meno l’uno per cento. E’ cambiato il corpo elettorale, sono cambiati i candidati, ma non è cambiato il risultato. Forse sarebbe utile fare qualche riflessione sulle ragioni per le quali i cittadini del nostro Paese rifiutano di esprimere il proprio consenso ad un partito con un nome glorioso, ma che evidentemente è fuori dal tempo.
La transizione è un processo lungo che designa il passaggio non solo da un sistema economico ad un altro, ma anche il passaggio da un vecchio ordinamento politico, divenuto anacronistico, ad uno nuovo non ancora definito. Il vecchio ordinamento, quello scaturito dai risultati della Seconda Guerra Mondiale, è entrato in crisi con il Sessantotto.
Tra il 1989 il ’92 la crisi è esplosa e il vecchio sistema politico è andato in pezzi, ma un nuovo ordinamento del Governo e dello Stato ancora non è nato e in verità stenta ancora oggi a nascere. La crisi culturale e politica che attraversiamo ha sullo sfondo i problemi di questa lunga transizione: prima il passaggio alla società dell’informazione, la nascita del Villaggio Globale che segnano un grande cambiamento della società italiana. Poi la rivoluzione digitale. Nulla è più come prima: la lunga crisi della Repubblica e la fragilità del sistema dei partiti sono all’origine di Tangentopoli nel contesto di un processo di destrutturazione del sistema industriale e del potere economico che portano con se il mutamento dei partiti e delle politiche del nostro Paese.
L’inizio del nuovo millennio è segnato dalla fine delle ideologie, in particolare di quel paradigma socialista che ha segnato nel Novecento grande parte della storia dell’Europa e quella della emancipazione delle classi lavoratrici nel mondo.
Poggiava su due pilastri fondamentali: l’idea dello sviluppo economico come processo di concentrazione industriale e operaia e di liberazione di risorse potenzialmente crescenti capaci di determinare una dinamica sociale nella quale l’obiettivo era la conquista del potere da parte della classe operaia; l’altro pilastro era la centralità dello Stato, non solo per il governo della Nazione, ma nelle società democratiche occidentali garante dell’equilibrio nel conflitto fra capitale e lavoro. Nella sostanza il presupposto del paradigma socialista era che lo sviluppo e l’organizzazione della produzione generavano nel tempo il soggetto collettivo antagonista del capitale, la classe operaia. E l’antagonista diventava il protagonista di quel processo politico “rivoluzionario” per la conquista e la gestione del potere statuale in funzione della socializzazione. Ma il progetto socialista è stato anche allevatore di democrazia e di progresso costruendo in Europa un sistema di garanzie, il welfare state, che ha messo la classe operaia nella condizione di condurre le sue lotte e di organizzare, attraverso il partito e il sindacato, una propria cultura e una azione politica in conflitto con il potere del capitale e in cui lo Stato era arbitro. Questa è stata la strategia socialdemocratica.
Nella seconda metà del Novecento aveva assunto una crescente importanza la distribuzione della ricchezza creata dal processo economico capitalistico determinando uno spostamento dell’asse centrale del conflitto dalla sfera della produzione a quello della distribuzione e del consumo. Welfare e sistema fiscale garantivano una sufficiente redistribuzione della ricchezza creando condizioni favorevoli allo sviluppo delle lotte sindacali determinando un sempre maggior peso dei partiti della sinistra. Il conflitto distributivo, al centro delle dinamiche sociali, trasformava il lavoratore in consumatore.
Alla fine del secolo scorso la qualità della vita dei cittadini e le conquiste del mondo del lavoro rendono evidente il successo del “modello” riformista.
Ma il sipario del nuovo millennio si apre e noi inconsapevoli spettatori assistiamo ad un evento straordinario: al posto della compagnia della vecchia commedia c’è sulla scena un attore non in carne ed ossa, ma virtuale che parla con un piccolo schermo. Ride e balla, sembra felice, mentre un altro attore conta i dollari che crescono nelle sue mani quanto più il primo si diverte. Sul palcoscenico di quel teatro immaginario si rappresenta un nuovo copione, la nostra nuova vita quotidiana fatta di social e di selfie.
Si è aperta una fase di transizione tra il vecchio ordine economico e uno nuovo, il capitalismo cambia la sua natura, da produttore di merci a produttore di danaro, i lavoratori da salariati diventano autonomi. E in un mondo globalizzato tutti i cittadini del pianeta lavorano inconsapevoli in un sistema capitalistico che non produce merci per creare valore, ma il valore nasce dal commercio del valore stesso, è nato il capitalismo finanziario. Ma non basta, in uno spazio di tempo breve, quel capitalismo ne ha generato uno tutto nuovo, niente più merce, né danaro, basterà che miliardi di uomini entrino nel mondo digitale, il capitalismo delle piattaforme, come lo hanno battezzato. E così ci troviamo nei panni di quell’attore virtuale, parliamo con la chat, scriviamo il post, siamo amici su fb, facendo il nostro quotidiano lavoro implicito: battiamo le lettere di una tastiera e dall’altra parte del mondo un anonimo “trust” accumula la ricchezza che produce quel nostro “implicito” lavoro.
La storia ci insegna che le ideologie nascono all’indomani di grandi cambiamenti e creano nuovi modelli di società che vanno in crisi quando quelle condizioni nuovamente cambiano. Non ci rimane quindi che rimettere la testa sui libri, mettere in moto il meccanismo creativo della scoperta teorica, costruire un nuovo Pensiero perché le condizioni storico-economiche nelle quali era nata l’ideologia socialista non esistono più, ma rimane attuale la lotta per il potere, la necessità di conquistare un nuovo equilibrio tra capitale e lavoro, in definitiva un futuro migliore.
I greci usavano il termine krisis per dire che scegliere vuol dire anche scartare: rileggendo i testi del pensiero socialista si può facilmente rintracciare la sua radice nella difesa degli interessi della comunità rispetto agli egoismi individuali e dello Stato etico autoritario. Così come si può ricostruire un sistema di valori condiviso mettendo al centro di una nuova ideologia il rispetto della dignità della persona, liberata dal bisogno e dalla paura per uscire dalla spirale di sfiducia come disse Franklin D. Roosevelt durante la seconda guerra mondiale (1941). E da qui ripartire, lasciando alla memoria il culto del passato.
P.S. Qualunque sia l’approdo dei due leader del “terzo polo” una cosa è certa: questi politici finiranno con l’essere sconfitti dalla loro stessa volontà di vincere.
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