Niente più schwa, chiocciole o asterischi in Argentina: Javier Milei, il presidente ultra liberista e ultra conservatore, ha vietato l’uso del “linguaggio inclusivo” e di “tutto ciò che riguarda una prospettiva di genere” nella pubblica amministrazione. In Argentina, il linguaggio inclusivo è usato negli enti governativi, nelle scuole, nelle università, ma anche nel linguaggio di tutti i giorni, o almeno fino ad oggi. Benché le Nazioni Unite sottolineino come «l’uso del linguaggio inclusivo è un modo estremamente importante per promuovere l’uguaglianza di genere e combattere i pregiudizi», da quest’anno in Argentina sarà abolito.
La notizia arriva a ridosso della Giornata Internazionale dei Diritti della Donna, una giornata importante per rivendicare non solo lo spazio fisico, ma anche di parola delle donne.
I problemi sono altri
Additate come questioni marginali o superflue, le riflessioni sul linguaggio, in particolare quello di genere, vengono comunemente percepite come un capriccio intellettuale. Si tende a pensare che le parole siano “solamente parole” e che comunque “i problemi sono ben altri”. Si sottintende quindi che le parole che usiamo non hanno un impatto sulla realtà. Ma se il linguaggio è il mezzo attraverso cui quotidianamente narriamo e riflettiamo su ciò che ci circonda e su ciò che siamo, davvero non ha alcun valore?
Il potere delle parole
Le parole hanno potere e rilevanza perchè tracciano un confine tra cosa esiste o meno all’interno del nostro spazio sociale condiviso. Attribuire un nome a qualcuno o a qualcosa significa riconoscerne l’esistenza ed il valore per le persone e la società: una cosa esiste se può essere nominata. Il linguaggio quindi è qualcosa che va preso sul serio e con la necessaria “sensibilità”.
Fare attenzione alle parole, specialmente in un discorso pubblico, non è un lusso, ma una necessità, soprattutto per le donne più giovani. E oggi, più che mai, molte di loro manifestano e rivendicano questa stessa necessità: il riconoscimento sociale passa anche attraverso il linguaggio, ma come ottenerlo?
Mentre da una parte c’è chi lotta a favore della parità di genere in ogni suo aspetto, quindi anche sul piano linguistico, dall’altra invece c’è chi mantiene viva l’asimmetria tra uomo e donna. All’inizio del suo mandato, Giorgia Meloni, prima donna a ricoprire la più alta carica del Consiglio, chiede di essere chiamata “il presidente”. Perché questa richiesta?
Perché Meloni nel privato è una “donna, moglie, cristiana” ma pubblicamente è il presidente?
Sensibilità e generazioni
Quando le nuove generazioni spingono per un linguaggio più accogliente e meno discriminante per le donne, in realtà reclamano un mondo più equo e inclusivo. Le generazioni più mature faticano a comprendere queste battaglie ma la questione è solo in parte generazionale, perchè diversamente, dai soliti conflitti qui non ci sono due schieramenti in disaccordo: non solo non c’è incontro, ma non c’è nemmeno scontro. Eppure la questione esiste: una parte è decisa ad affrontarla, l’altra invece la ignora opeggio la delegittima.
Processi culturali- egemonia culturale
Culturalmente, il maschile è il genere associato al potere, al prestigio, al privilegio, mentre il femminile rimanda soprattutto alla maternità, alla cura, alla casa. Il potere rimane dunque ben delimitato all’interno della sfera maschile e fatica a inglobare quella femminile: la maestra è femmina, il professore è maschio; l’infermiera è femmina, il medico è maschio; la segretaria è femmina, il notaio è maschio. Non è un caso quindi che alcune donne decidano di presentarsi al maschile nelle professioni socialmente attribuite agli uomini, come se al titolo maschile venisse attribuito maggiore valore.
Così facendo, però, loro stesse tengono vivi questi squilibri di potere, anziché normalizzare la presenza delle donne in tutti gli ambiti professionali e far diventare un’abitudine linguistica l’uso dei femminili professionali (avvocata, sindaca, ministra). Il linguaggio non solo nomina la realtà, ma rimanda a un insieme di significati capaci di plasmarla: il femminile professionale non è quindi un “formalismo linguistico”, ma lo strumento attraverso cui le donne si sentono socialmente riconosciute e legittimate nel loro ruolo.
Ma quindi il linguaggio di genere individualizza o collettivizza?
È qualcosa di individuale che si sviluppa nella collettività o, al contrario, è una questione sociale che ha ricadute sulle singole persone?
Oggi la questione di genere è un tema politico che sta creando sempre più partecipazione sia a livello personale che a livello collettivo, ma solo per una parte di popolazione.
Questo non è dunque un nuovo scontro generazionale: mentre i giovani abbracciano attivamente la lotta per la parità di genere in tutte le sue declinazioni, spesso le generazioni più mature mostrano un atteggiamento più severo e conservatore.
Non stupiscono la resistenza al cambiamento, la volontà di mantenere il privilegio maschile in una società storicamente patriarcale, l’ostilità verso un nuovo paradigma sociale o l’indifferenza. La questione è aperta. Resta il fatto che la discriminazione va combattuta con racconti e narrazioni diverse, ma soprattutto con parole diverse.
Che “sono pietre” e non capricci intellettuali.
NDT: La fotografia in evidenza è una celebre citazione dal maestro della beat generation W. S. Burroughs: “Il linguaggio è un virus venuto dallo spazio”. La citazione è poi divenuta titolo di un’altrettanto celebre canzone di Laurie Anderson.
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