Le critiche rivolte alla proposta governativa di un Liceo del Made in Italy sono pretestuose e non condivisibili.
Come Presidente dell’ “Associazione Culturale Eccellenze Italiane” sono oltre 22 anni che mi adopero per l’emersione, il riconoscimento e la promozione dei punti di forza del nostro Paese non solo all’estero ma anche nella stessa in Italia (c’è una lacuna, gli Italiani dovrebbero conoscere meglio i propri punti di forza, anche per saperli gestire con consapevolezza). E ho impostato il mio lavoro nella convinzione che valorizzare i punti di forza del nostro Paese sia nell’interesse generale, dunque non un elemento “divisivo” tra le varie forze politiche, bensì un elemento su cui convergere.
Ed è per questo motivo che la mia Associazione si è sviluppata con una convergenza di intelligenze delle più varie culture politiche. Intelligenze. Cioè di gente che pensa.
E infatti che senso ha da parte della “sinistra” definire come “di destra” qualsiasi iniziativa che valorizzi il nostro Paese?
Siamo ancora al prevalere sotterraneo della logica della Internazionale, al famoso discorso di Togliatti (al XVI Congresso del PCUS): “È motivo di particolare orgoglio per me l’aver abbandonato la cittadinanza italiana per quella sovietica. Io non mi sento legato all’Italia come alla mia Patria, mi considero cittadino del mondo, di quel mondo che noi vogliamo vedere unito attorno a Mosca agli ordini del compagno Stalin.
È motivo di particolare orgoglio aver rinunciato alla cittadinanza italiana perché come italiano mi sentivo un miserabile mandolinista e nulla più. Come cittadino sovietico sento di valere diecimila volte più del migliore cittadino italiano ”.
Siamo ancora a questo punto?
Nei fatti non è stata l’Internazionale a vincere, bensì hanno vinto le multinazionali del capitalismo. Però la soluzione di affidare “al mercato” la capacità di regolamentare gli equilibri socio economici si è rivelata fallimentare.
Nel saggio “Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica” Martha Nussbaum, Docente di Law and Ethics all’Università di Chicago, ha lanciato un appassionato appello in difesa della cultura umanistica, a suo avviso essenziale ad una società democratica, in quanto scientismo e tecnicismo, con la presunta oggettività e indiscutibilità dei loro assunti, vanno bilanciati da un pensiero allenato ad essere vigile e critico.
Non è un caso che un tale appello parta proprio da Chicago, dove si affermò l’omonima scuola economica, caratterizzata da una visione neoliberista dell’economia le cui dinamiche venivano affidate al dogma della razionalità dei mercati.
E uno dei massimi esponenti di quella scuola, Richard Posner, ha fatto autocritica, dichiarando che la crisi ha dimostrato che “l’attuale generazione degli economisti non aveva ben capito come funziona l’economia”, che la “scuola di Chicago” ha fallito e bisognerebbe abolirne il termine.
Dunque la storia ha mostrato i limiti sia della internazionalizzazione “da sinistra”, sia di quella capitalista senza altre regole se non il profitto.
Quello che a mio avviso bisogna considerare è che ciascuna cultura deve portare al consesso globale i valori e gli strumenti che si è data e a cui è giunta attraverso l’evoluzione della propria storia.
Un presunto internazionalismo “appiattente”, da qualsiasi soggetto governato, non rende conto della ricchezza delle varie esperienze e tradizioni attraverso cui ogni cultura e ogni popolo ha trovato risposta e strumenti ai grandi interrogativi della umanità.
Ciascuno deve poter dare il meglio di sé.
E quando si parla di Made in Italy deve essere ben chiaro che non si sta parlando di prodotti da commercializzare, bensì della cultura attraverso cui quei prodotti si esprimono.
L’Italia è un grande Paese e deve essere messo nelle condizioni di dare il meglio di sé al consesso globale.
Deve esercitare una “globalizzazione consapevole”.
Ecco perché a mio avviso la proposta di un Liceo del Made in Italy è una proposta vincente. Perché nell’ambito di un Liceo è proponibile questa visione “culturale”.
Era una visione ben chiara a Bettino Craxi che fu il primo nella nostra storia a mettere a fuoco il Made in Italy, nella logica per la quale sosteneva la valorizzazione della nostra storia patria ed era orgoglioso di essere italiano (e non sovietico!)
Sono stati i socialisti con Craxi a “scoprire” il Made in Italy. E il fatto che esso fosse largamente sostenuto dalle Piccole e Medie imprese, rivelatesi poi vincenti anche grazie all’organizzazione territorialmente diffusa dei distretti.
Ciò, in una fase in cui il PCI e il suo sindacato di riferimento prendevano in considerazione quasi esclusivamente le grandi fabbriche con un gran numero di dipendenti che potevano essere più facilmente chiamati a raccolta, organizzati, condotti “alla lotta”.
Prevaleva un riconoscimento quasi esclusivo del ruolo della grande industria e della grande impresa nel sistema economico e produttivo del nostro Paese.
E, in una tale logica di centralismo, risultava più difficile organizzare i lavoratori dispersi in poche unità in aziende piccole e medie e spesso poco disponibili a considerare il rapporto con il loro datore di lavoro in termini di “lotta contro il padrone”, preferendo piuttosto dirimere eventuali controversie in termini personali con colui che magari aveva tenuto a battesimo il figlio.
Questo atteggiamento risulterà importante nei rapporti tra contrattazione centralizzata e contrattazione articolata.
Fu Craxi a guardare “oltre” la gestione macrofinanziaria della società e prediligere l’economia reale.
E questa scoperta del Made in Italy legato alle PMI a ben guardare è in armonia con la valorizzazione – da parte sua – della italianità legata alla memoria del Risorgimento con la figura di Garibaldi fino ad arrivare alla sottolineatura del meglio che l’Italia potesse offrire di sè al consesso mondiale.
Del resto, come è stato messo in luce da più osservatori, compreso il Censis, il contributo all’occupazione delle aziende di piccola e media dimensione, nella fascia tra gli 11 e i 100 addetti, in molte fasi è stato maggiore rispetto a quella delle grandi.
E quello delle Piccole e Medie imprese nello sviluppo economico del Paese è un contributo di carattere strutturale, non di carattere congiunturale o pendolare come in alcuni casi si è dato a credere; e si è trattato di uno sviluppo diffuso e articolato sul piano territoriale con l’emergere di aree vitali fuori dal tradizionale schema duale Nord-Sud.
Inoltre, i dati dimostrano che già dagli anni sessanta i processi di innovazione, di diversificazione produttiva e di modernizzazione del tessuto della piccola e media impresa sono stati processi intensi e solidi.
Negli anni Ottanta le PMI hanno investito molto per l’innovazione tecnologica ma anche per la formazione e lo sviluppo delle risorse umane, per l’internazionalizzazione.
L’ottica con cui Craxi guardava allo sviluppo era la partecipazione collettiva. Pensava che fosse necessario far emergere le energie latenti, il potenziale di imprenditorialità di tanti italiani in tutto il Paese, al Nord al Sud.
Ai soggetti d’impresa e delle realtà locali si voleva dare riconoscibilità, riconoscenza e rappresentanza. Si voleva far crescere in loro e nel Paese la consapevolezza che non erano solo bravi imprenditori, bensì che erano un soggetto sociale e politico non marginale, ma centrale, in grado di ampliare e arricchire gli spazi ristretti della democrazia economica oltre la grande impresa.
Qui non si vuole certo affermare che non vi siano anche grosse aziende protagoniste a livello internazionale che – in quanto italiane – non possano essere definite tecnicamente Made in Italy.
Tuttavia è sulle PMI che si è affermato il brand.
E il nostro Paese non presidiava solo lo sviluppo dei settori tradizionali, ma anche quelli a tecnologia più avanzata.
Che le nostre esportazioni vadano anche oltre “le 4 A” di Alimentazione, Abbigliamento, Arredamento e Automotive lo dimostrano i dati:i più recenti disponibili (cfr. Indice Fortis Corradini della Fondazione Edison, 2021) dicono che su un totale di 5388 prodotti in cui è suddiviso il commercio internazionale, l’Italia occupa i primi 5 posti con ben 1.529 prodotti. Molti dei quali sono prodotti tecnologici che esportiamo anche in Germania.
All’autoflagellazione endemica del nostro paese non va contrapposta la retorica o l’ottimismo della volontà, bensì l’analisi documentata e dimostrata e la capacità di proposta nella risoluzione dei problemi.
La promozione del Made in Italy e dell’immagine dell’Italia è parte integrante dell’azione di governo e della politica estera Craxiana; si puntava sull’ammirazione e il rispetto di cui gode il Paese per la sua cultura e la qualità di ciò che produce.
Si era consapevoli del fatto che il Made in Italy non fosse semplicemente l’affermazione di prodotti di qualità, bensì la “traduzione in prodotto” di un retroterra di storia, arte, cultura che affascina il mondo.
Furono prese delle iniziative affinchè si diffondesse nell’intero Paese una consapevolezza anti retorica dei nostri punti di forza e del il valore e del significato della presenza internazionale delle nostre imprese.
Si organizzò la premiazione dei 100 Cavalieri dell’internazionalizzazione a Firenze; si fece a Roma la mostra dei 100 Comuni della piccola-grande Italia a Roma, nel complesso monumentale del San Michele, un’ apoteosi del Made in Italy che si moltiplicava in cento esempi diversi.
Come ha avuto modo di osservare De Rita, il concetto dell’internazionalizzazione per Craxi non era generico, né puntato solo sull’export, cioè alla modalità più tradizionale di penetrazione nei mercati, ma si declinava lungo sette piste precise: cooperazione allo sviluppo, grandi sfide, finanza, tecnologia, grandi lavori, cultura e l’itinerario di Marco Polo.
Era una visione di sistema-Paese e di un’internazionalizzazione globale che coinvolgeva diversi soggetti e progetti. Alcune di queste piste, sfide in settori come l’aeronautica, la medicina, la chimica, le telecomunicazioni erano fondamentali.
Con tutto questo retroterra nel quale l’economia del nostro Paese si è fortemente giovata dei prodotti Made in Italy con il consolidamento di un brand apprezzato in tutto il mondo (lo dimostra anche il flagello delle imitazioni) , non si vede alcuna ragione per la quale non possa essere considerato positivo un liceo del Made in Italy.
Il liceo del made in Italy è una buona idea.
E lo affermo a ragion veduta, proprio grazie alla mia esperienza di più di 22 anni dedicati a studi, ricerche, elaborazioni specifiche sui temi del Made in Italy e della eccellenza italiana.
E lo affermo dopo aver constatato che la narrazione corrente non rende affatto conto dei punti di forza del nostro Paese, che sono proprio quelli che i giovani devono essere abituati a conoscere e “maneggiare” per sentirsi a pieno titolo inseriti in buone prospettive future.
Il Liceo del Made in Italy ha lo scopo di conoscere, sostenere e promuovere i punti di forza dell’Italia che si esprimono (ma non si esauriscono) nelle produzioni del cosiddetto Made in Italy.
Ed è essenziale che di Liceo si tratti, perché la preparazione umanistica deve essere presente in tutto il percorso formativo. Ed è giusto che le materie più strettamente attinenti al business, anche internazionale, dei prodotti Made in Italy siano introdotte dopo il primo biennio in cui gli apprendimenti di natura culturale risultino propedeutici agli apprendimenti più tecnici legati al business (normative, conoscenze dei mercati internazionali, gestione delle imprese, modelli di business ecc.).
A tal fine è importante che vi siano già dal primo biennio spazi di insegnamento unitario su quello che gli Italiani hanno dato al mondo nel corso dei secoli e che continuano a dare. In un’ottica che consideri dovere di ciascun Paese di contribuire con il meglio di sé allo sviluppo globale.
Una cosa, questa, che gli Italiani hanno saputo fare a livelli irraggiungibili, sia in ambito scientifico e tecnico che in ambito culturale ed artistico.
Dunque, perché il primo biennio sia propedeutico alla formazione sviluppata del triennio, è necessario da un lato che vi sia uno spazio di trattazione “unitaria” di quel che si potrebbe chiamare “italialogia culturale”, dall’altro lato che vi siano spazi specifici nell’ambito degli insegnamenti delle singole materie, affiancando agli insegnamenti tradizionali degli argomenti integrativi legati alla storia e allo sviluppo delle caratteristiche di italianità.
E’ vero che è nel ventesimo secolo che l’Italia ha condotto le sue manifatture ad altezze universalmente apprezzate.
Però anche Leonardo ha disegnato borsette.
Questo, per dire che non ci si improvvisa creatori di trend nel design industriale e manifatturiero se non si ha un retroterra culturale cui attingere.
Il mondo sa chi siamo e perciò le nuove classi abbienti dei Paesi “recentemente emersi” vogliono quel che meglio sappiamo fare.
Si è capito che oggi conta sempre meno il valore d’uso dei prodotti e di più la loro valenza simbolica, il significato culturale che incorporano.
“Andare oltre” è la cosa che noi sappiamo fare meglio.
Non siamo abituati ad accontentarci della funzione di un oggetto, vogliamo che l’oggetto sappia parlare ai sensi, agli occhi, al gusto, essere comunque componente evocatrice di una vita di qualità.
Questo non è proprio di tutte le culture. Ci sono culture che guardano esclusivamente alla funzionalità, senza preoccuparsi dell’estetica, e anche culture in cui è ritenuta positiva e legittima l’imitazione di prodotti ben riusciti.
La nostra consuetudine a “creare” il bello e ben fatto, andando oltre il già visto, oggi si traduce in valore.
Se prediamo in considerazione le componenti che determinano il prezzo di un prodotto Made in Italy, potremo vedere che il valore generato dalla mera sua fabbricazione si aggira su una quota molto inferiore rispetto al valore che nasce da attività fuori dalla fabbrica (ideazione, progettazione, design, personalizzazione, logistica, comunicazione, marchio, distribuzione, garanzia, assistenza, reputazione). E questo incide anche in termini di occupazione di addetti.
Si tratta di “mediatori cognitivi” che aumentano l’appetibilità del prodotto.
Questo è un esempio di come la dimensione immateriale, simbolica, possa essere presente perfino nelle produzioni materiali.
Il simbolo è qualcosa che rimanda ad “un’altra cosa” che va oltre l’oggetto.
Noi siamo capaci di “maneggiare la simbolicità degli oggetti” perché frequentiamo da millenni la percezione di una lettura “ulteriore” dell’esperienza sensibile.
E’ stato infatti chiamato “design dell’esperienza” questo nostro modo di far vivere il prodotto.
Per fare oggetti con questa “carica”, ci vogliono quegli enzimi innovativi che solo la cultura può dare.
Così la pensava Adriano Olivetti che, una volta, decise in un attimo di affidare la direzione di una sua filiale ad uno specialista in arte medievale.
Così la pensa Dainese, azienda di abbigliamento sportivo, soprattutto per motociclisti, più volte premiata per il suo impegno nell’innovazione tecnologica e nella creazione di nuovi materiali e nuove forme. La Dainese porta i propri dipendenti in giro per mostre e musei, dalla Biennale di Venezia al Mart di Trento e Rovereto, nella convinzione che sviluppare cultura e confronto con l’arte si traduca anche in stimoli per la creazione di nuovi prodotti.
L’equilibrio tra la creatività estetica e quella tecnologica viene dunque coltivato consapevolmente da chi opera nel Made in Italy, il quale è il risultato dell’attività di tante persone cui viene chiesto di dare il meglio di sé, inventando, investigando, scoprendo, progettando, costruendo.
Dunque, il profilo formativo definito dal DDL 497 va nella giusta direzione, in quanto inserisce il discorso di internazionalizzazione dei nostri prodotti all’interno di un quadro di formazione umanistica.
Dunque, un Liceo del Made in Italy deve lavorare sulla consapevolezza del contesto in cui il business si esprime.
Made in Italy è un marchio relativamente recente. Prima degli anni ’60 il marchio “Made in Italy” era imposto dagli importatori stranieri (soprattutto tedeschi e francesi) ai prodotti realizzati in Italia: si volevano così avvertire i propri concittadini che non si trattava di prodotti dei quali si poteva garantire la qualità, bensì di oggetti importati da un Paese dall’industrializzazione un po’ arretrata come il nostro.
Beh, ne abbiamo fatta di strada!
“Made in Italy” oggi risulta il terzo marchio più noto a livello internazionale (dopo Coca Cola e Visa, che spendono miliardi per affermare la loro immagine).
E siamo arrivati a vendere a tutto il mondo non solo prodotti “fashion”, ma anche macchinari di ogni genere.
Perfino alla Germania. Prodotti considerati di alta gamma proprio in quanto marcati “Italy”!…
Il consolidamento del nostro marchio nazionale si è realizzato non attraverso campagne di comunicazione studiate a tavolino, bensì solo e semplicemente perché le nostre aziende hanno saputo recuperare e valorizzare gli antichi saperi della creatività, del disegno, dell’abilità manuale; perché hanno saputo trasferire equilibrio e gusto alla produzione industriale, avendo cura di garantire qualità in ogni passaggio/fase produttiva.
E dunque che cosa vuol dire fatto “in” Italia?
Che senso ha questa collocazione territoriale indicata con “in”? Vuol dire realizzato in un Paese che, pur nelle sue differenziazioni regionali, garantisce delle “costanti” qualitative che vanno al di là del singolo manufatto per evocare un territorio d’eccellenza, un mito di bellezza e raffinatezza, una meta ambita di viaggio, un posto dove lo stile di vita è invidiato e ammirato da tutto il mondo.
Questo perché il Made in Italy non è un prodotto, è un concetto.
E ha radici lontane.
Made in Italy siamo noi!
Siamo quelli di cui si vuole apprendere- e magari condividere – lo stile di vita ritenuto di qualità.
Siamo quelli i cui prodotti sono accolti con piacere e successo, tanto da scatenare la corsa all’imitazione, alla contraffazione.
E noi… noi siamo quelli accolti a braccia aperte nei laboratori scientifici del mondo, perché siamo bravi e creativi, noi siamo quelli presenti in massa e con le massime responsabilità al Cern di Ginevra, perché i nostri fisici sono di altissimo livello, noi siamo quelli che hanno dato alla Stazione Spaziale Internazionale più della metà delle sue componenti tecnologiche oltre che bravissimi astronauti…
Noi che da sempre siamo protagonisti della Storia…
Una scuola che ci insegni a capire le ragioni di questo successo storico e come mantenersi a tale altezza non è solo utile è indispensabile.
Soprattutto perché ci sono forze che in maniera autolesionista remano contro questa comprensione.
Quella scuola è pensata come un centro di vita che aiuta a conoscere noi stessi.
Non basta infatti delegare ai “campioni nazionali riconosciuti” il ruolo esclusivo di “punti di forza”: essi sono emblemi, accanto a cui ci vogliono persone che serbano in sé la capacità di essere una per una “punti di forza” e che sono disponibili a dimostrarlo, mettendo in valore le proprie potenzialità. Persone che hanno ben chiaro che l’attenzione al “bene comune” è attenzione al “bene proprio”.
Haijme Kobayaschi è un manager che ha ricoperto incarichi di direzione in importanti aziende italiane e che ha scritto un libro prezioso, “L’Italia tra piacere e dovere. Lo stile manageriale italiano agli occhi di un giapponese”, nel quale cerca di spiegare ai suoi conterranei il successo dei prodotti Made in Italy.
Per studiare questo “successo” è stata perfino elaborata una metodologia di marketing, il Kansei Engineering, che ha ispirato alcuni prodotti, che però hanno lasciato freddi i consumatori.
Non si è sviluppato il kansei cioè la sintonia.
Le sue conclusioni sono che questo successo non dipende semplicemente dalla qualità dei manufatti o dalle nostre abilità di marketing, bensì “da come sono gli Italiani”, anche nella vita quotidiana. Il nostro kansei – dice Kobayaschi – non è radicato nel prodotto, ma nel Paese, in quello che è radicato in ciascuno di noi.
“La salvezza di questa nazione sta nel capire chi siamo” dice De Rita.
Chi ha portato l’Italia ai vertici delle economie mondiali, se non le mille eccellenze dei singoli cittadini, lavoratori, imprenditori, la loro creatività, il loro ingegno, la loro tenacia, la capacità di dare senso e continuità ai punti di forza che il nostro grande passato ci ha trasmesso? Chi se non i singoli italiani hanno costruito e mantengono quello stile di vita che il mondo ci invidia?
Se è vero, infatti, che l’eccellenza italiana è un’eccellenza “diffusa”, con ciò intendendo una sua incarnazione, attraverso i tempi, in tutti gli ambiti delle umane attività, che cos’è che sostiene questa diffusività? E si tratta di qualcosa che è esclusivo appannaggio dell’espressione del “genio” o in qualche modo caratterizza tutti gli Italiani?
Questo è l’appassionante interrogativo cui sono chiamati a dare risposta in primis gli studenti del Liceo Made in Italy.
Ci sono elementi che possiamo inserire nell’insegnamento della Storia e che ci riguardano: il fatto che non vi è area che caratterizza la nostra contemporaneità che non abbia visto e non veda degli italiani tra i protagonisti.
In tutte le svolte fondamentali della scienza, della tecnica, della cultura, dell’arte c’è sempre qualcuno di noi: la quantità e qualità dei dispositivi a cui abbiamo dato impulso è determinante e senza paragoni.
Qualche esempio.
Siamo noi ad aver “dato al mondo” scoperte rivoluzionarie come l’elettricità (Alessandro Volta, 1800) e la plastica (Giulio Natta, 1954), nonché i più importanti strumenti di comunicazione come telegrafo (ancora Volta che, con le sue scoperte sull’elettromagnetismo, apre le porte alla trasmissione telegrafica); fax (Giovanni Caselli, pantelegrafo precursore del fax, 1855); macchina da scrivere (chiamata “cembalo scrivano” e creata da Giuseppe Ravizza per consentire di scrivere ai ciechi, 1855); telefono (Meucci, brevetto 1871); radio (Guglielmo Marconi, 1895); telescrivente (Luigi Cerebotani, 1909); personal computer (Pier Giorgio Perotto, 1965); microchip e microprocessore (Federico Faggin, 1970); Mp3 e Mpeg, (Leonardo Chiariglione, 1992); l’algoritmo di Andrea Viterbi, con funzioni di scudo contro le interferenze per GSM.
Nella Storia possono trovare spazio le narrazioni di scoperte scientifiche di grande spessore e in ogni campo, Fisica, Astrofisica, Biologia, Medicina e non solo.
Per non parlare dei nostri contributi alle Arti e alla Musica. (Giustamente questo liceo prevede Storia dell’Arte lungo tutto il quinquennio).
Puo’ inoltre essere sorprendente l’enorme quantità di standard, strumenti di misura, canoni che l’Italia ha dato al mondo per favorire scambio e comunicazione.
O si può ricordare l’enogastronomia, la cui eccellenza indiscussa è stata costruita con tenacia, senza soluzione di continuità attraverso i tempi. Il primo libro europeo di ricette culinarie è il “De re coquinaria” di Marco Apicio (14 d.C.); la prima tutela di diritto d’autore ha riguardato la ricetta di un cuoco siciliano del Medio Evo; il secondo libro europeo di ricette, l’ “Epulario” è stato scritto da Bartolomeo Scappi, cuoco di papa Pio V (1570). E così via fino all’Artusi che ha codificato le nostre ricette regionali creando una “dimensione speciale” dell’Unità d’Italia.
Questa propensione dell’Italia verso il mondo è la prima lezione che gli studenti del Liceo del Made in Italy devono imparare.
SEGNALIAMO