PERCHÈ NON TE L’HO DETTO?

Pensavo di avermelo detto, tu a lei a me

“Avevo il sedere più bello del mondo, ma non ho avuto culo”: così Nadia Cassini ha scolpito il suo autoepitaffio che accompagna la notizia della sua scomparsa. Musa priapica dei boomer, generazione X e oltre, ma anche e sopratutto ispiratrice della grande tradizione dell’atellana italiana: ‘sant’oronzo del barile, c’è mia moglie nel cortile’ è la frase che esclama Lino Banfi, l’ordinario dentro tutti noi, quando vede cotanto splendore, un culo così perfetto che fu assicurato per 1 miliardo e duecento milioni di lire nel 1972.

Lo schema comico collaudatissimo era basato sull’idea, drammaticamente vera, che contanta bellezza generasse un balbettio del cuore che irradiava fino a un corto circuito del pensiero, una stasi dovuta a troppa energia scatenatasi dalla incommensurabilità delle forme.

Così avviene che nel film ‘L’insegnante balla con tutta la classe’ (1979) viene detta una delle più folgoranti battute della comicità italiana. Sempre Lino Banfi incontrando tale bellezza per strada dice così:

«Perché non te l’ho detto? Pensavo di avermelo detto, tu a lei a me.»

E’ una frase che esprime volutamente confusione, disorientamento, incertezza comunicativa. Ha una costruzione basata sulla sovrapposizione di livelli comunicativi che si intrecciano, generando ambiguità e smarrimento. La prima parte, «Perché non te l’ho detto?», sembra suggerire il dubbio del parlante rispetto alla propria memoria e alla gestione delle informazioni personali. La frase successiva, «Pensavo di avermelo detto», sposta il dubbio verso una dimensione di confusione interiore, come se il parlante si fosse rivolto a se stesso con parole inizialmente destinate ad altri. L’aggiunta finale, «tu a lei a me», estende ulteriormente la catena comunicativa, rappresentando simbolicamente una rete intricata di scambi verbali in cui è difficile tracciare chi abbia informato chi, chi sappia cosa e chi sia responsabile di eventuali malintesi. È un gioco circolare che nega chiarezza, colpe o responsabilità definite.

Così la frase produce nell’ascoltatore – o nel lettore in questo caso – una sensazione di spaesamento e destabilizzazione. L’effetto immediato è di mettere in dubbio l’affidabilità della comunicazione stessa, facendo emergere implicitamente il tema dell’incomprensione e della difficoltà di gestione delle informazioni nelle relazioni umane.

In sintesi, questa frase manifesta, attraverso una sintassi volutamente confusa, la fragilità della comunicazione e l’ambiguità delle relazioni, provocando ironia, spaesamento e, allo stesso tempo, riflessione sul modo in cui ci parliamo, o non ci parliamo, realmente.

E accade così che oggi parliamo, o non ci parliamo, di un altro personaggio dell’atellana contemporanea ovvero quel Donald Trump la cui politica-pantera ci ipnotizza come un derrière anni ’70. Un presidente che ha avuto il culo di essere eletto due volte – nonostante tutto, nonostante loro – dovrebbe già bastare come indizio. Eppure no: noi, democratici orfani di un secolo finito, continuiamo a fissare il culo, incapaci di decifrarne il codice.

Ha sfidato l’attentato, trasformando il proiettile in iconografia populista. Ha piegato i tribunali, i media, l’establishment. Mentre noi calcolavamo i suoi errori, lui calcolava il nostro disprezzo, e lo ha convertito in carburante. “Pensavamo di averlo capito”: invece no. Abbiamo letto i suoi tweet come se fossero errori di grammatica, non mosse strategiche. Abbiamo atteso il suo fallimento, mentre lui calcolava il nostro

Sta negoziando con Putin la fine di una guerra sanguinosa – senza diplomatici, senza protocolli. Sostiene Israele senza chiedere il benestare a Bruxelles. Impone dazi per risanare il deficit commerciale americano, mentre l’Europa, mai così divisa e mai così inconsistente, brancola tra tecnocrati e nostalgie.

Ha scelto come vice J.D. Vance, l’autore di Hillbilly Elegy – già lanciato come erede. Un messaggio chiaro: la working class non è più nostra. E noi? Continuiamo a parlare di fascismo, come se il manuale del ’900 avesse ancora risposte.

Siamo intrisi del culo del Novecento: crediamo ancora che la Storia sia lineare, che i populismi siano incidenti, che i social media siano solo strumenti. Trump no. Lui agisce nel caos, mentre noi lo studiamo. “Perché non te l’ho detto?”: perché eravamo occupati a dircelo tra noi, nei salotti, nelle università, nei giornali che leggiamo solo noi. 

Trump è un algoritmo che ride di noi. Noi siamo umani che pensavamo di averlo capito. Lui va avanti; noi indietreggiamo, inciampando in “tu a lei a me”, in quel groviglio di colpe non dette, di analisi mai abbastanza acute, di paure mai confessate. Intanto, lui ha già vinto ancora, senza bisogno che noi lo comprendessimo.

“Perché non l’abbiamo capito? Pensavamo di averlo capito. Lui a loro, loro a noi, noi a nessuno.”