La narrativa italiana degli anni Ottanta
Faccia a faccia – incontri, letture, miti letterari parte terza
La prima volta ci siamo incontrati alla Bompiani, in via Mecenate, a Milano. Era il tempo di Rimini, 1985, ma mi sembra ieri quando fece irruzione nella stanza dell’ufficio stampa. Alto, dinoccolato, giacca comoda e spiegazzata, t-shirt e tracolla: Ahò, avete preparato i soldi? Un sorriso ammiccante di contagiosa felicità, una folata di giovinezza. Poi saluti e abbracci con le tre funzionarie della casa editrice. Presentazioni. Eravamo coetanei, ma per me era già un mito.
Altri libertini, nel 1980, era stato una scarica di adrenalina per la narrativa italiana svillaneggiata da ideologismi vari e impastoiata nel presuntuoso sperimentalismo delle sue menti migliori. Quel libro aveva aperto le porte a un mondo nuovo di strati sociali marginali e giovani fuori da schemi convenzionali ma sfrontati e vitali con la loro radicalità di bisogni e crudezza di linguaggio. Infine, aveva combattuto e vinto contro il sequestro giudiziario di un anno.
Quell’anno lì, 1980, è stato anche l’anno de Il nome della rosa di Umberto Eco. Quei due lavori, entrambi legati all’officina creativa del Dams di Bologna (Eco fondatore e professore, Tondelli studente), hanno riaperto i giochi della narrativa italiana. Un rovesciamento di campo. Al largo, al largo! Via da vincoli e pastoie. Il romanzo è esplorazione del nuovo. Dentro e fuori di sé. È passione, è conoscenza.
Il romanzo ha una storia di giganti, conviene salire sulle loro spalle, come fa Eco che si smarca dal Gruppo ’63 e comincia la narrazione de Il nome della rosa alla maniera di Manzoni con la finzione del manoscritto. Un segnale fra i tanti, ma preciso. Il presente lo si può raccontare anche meglio da lontano con le lenti del passato.
Il romanzo è avventura. Autobahn (autostrada) è il titolo dell’ultimo racconto del «romanzo ad episodi» Altri libertini, esordio narrativo di Pier Vittorio Tondelli «…avventuraaaaa!», con l’eco adrenalinica di cinque a e la forza perentoria di un punto esclamativo, è l’ultima parola di quel testo.
I viaggi in autostop erano, in realtà, un proposito di vagabondaggio… per l’autobrennero da Carpi al Mare del Nord, «diciamo Amsterdam», e poi a seguire l’istinto, senza mete, indifferentemente verso «sabbie del deserto o montagne rocciose… o l’incenso dell’India o quello un po’ più forte tibetano e nepalese… o gli odori delle bettole di Marrakesh o delle fumerie di Istanbul».
L’idea del viaggio in Tondelli non era legata ad un luogo determinato e al suo paesaggio naturale o ad una concreta esperienza ma esprimeva simbolicamente la volontà di stringere il mondo dei giovani in un abbraccio senza confini dando piena cittadinanza letteraria al loro nuovo immaginario. Viaggiare per Tondelli significava seguire la tribù nomade dei giovani per filmarla.
Come un’Itaca ideale a cui fare ritorno, la sua scrittura avrebbe accolto e salvato il movimento erratico di quei tanti giovani Ulisse slanciati all’avventura da un intimo bisogno di libertà che non trovava soddisfazione in ambito alcuno… Il romanzo per Tondelli era vita.
Tante cose così avevo in testa quando lo incontrai quella prima volta in via Mecenate. Perciò mi impicciai con il registratore e la TDK. Lui sbuffò. Io arrossii. Ci dicemmo qualcosa. Ridemmo. Presi il blocchetto degli appunti e cominciai a scrivere. Però, gli dissi, per favore ricominciamo, che qui mi sa che è andato tutto in malora, e parla piano altrimenti non ce la faccio.
Rimini, 1985 – Un giornalista che si crede cinico e furbo e cerca il successo per poi scoprirsi abbastanza diverso da quello che pensava e trovare altro da quello che cercava, un’inquieta signora tedesca che cerca l’amore e la sorella, un sassofonista travolto da un amore inaspettato, un giovane regista e il suo amico sceneggiatore a caccia di soldi per il loro film; un omicidio con relativo strascico d’intrighi e corruzione, un suicidio e il dramma esistenziale del personaggio, amori disperati e amori felici, amori etero e amori omosessuali, l’annuncio e l’attesa della fine del mondo e l’inevitabile psicosi di massa: tutto questo e altro accade nella tua Rimini estiva brulicante di vita, soprattutto notturna, perché hai scelto un intreccio così articolato, vivace?
«Per una ragione letteraria. Dal tempo della mia tesi in estetica al Dams mi muovo nella direzione di un romanzo sinfonico con una pluralità di voci narrative seguendo un’esperienza letteraria che nasce nel XVIII secolo con gli epistolari di Rousseau, di Richardson. Mi interessava l’orchestrazione di storie molteplici e simultanee a ognuna delle quali far corrispondere un genere letterario: il giallo, il sentimentale con risvolti kitsch, l’esistenziale alla francese ecc…»
– Qual è per te l’aspetto più importante in un romanzo?
«Lo stile, che è il problema primario di ogni testo. Nei miei libri precedenti lo stile era tutt’uno con i personaggi. Il linguaggio era quello dei giovani ventenni degli anni Settanta. In Rimini alla pluralità dei personaggi corrisponde una pluralità di linguaggi.»
– Molti dei personaggi, in particolare quelli maschili, hanno la tua età: c’è qualche altro elemento che vi accomuna e li accomuna?
«Non avevo prestato molta attenzione a questo aspetto. Sì, in effetti molti dei personaggi sono formati sulla base della mia esperienza. Li accomuna la voglia di emergere, di successo. Cercano tutti di far vedere quello che valgono, di esprimere nel mondo il proprio talento. È questo, del resto, il tratto distintivo dei giovani degli anni Ottanta: l’identificazione di se stessi nella professione; al contrario degli anni Settanta in cui i giovani cercavano di esprimere la propria diversità nei confronti della società.»
– Nel romanzo Rimini è metafora del nostro Paese. Perché proprio Rimini?
«Certo Rimini non è rappresentativa dei problemi, della vita, della storia del Sud ma lo è senz’altro di una certa Italia industrializzata: l’Italia dei ceti medi, del boom economico, dell’impresa familiare che si arricchisce per poi sprofondare nella crisi degli anni Settanta. E che io racconto attraverso le vicende della pensione Kelly. Per queste ragioni, per questa sua particolare rappresentatività, ho scelto Rimini come contenitore facendovi confluire vicende che accadono nel resto dell’anno in altre parti d’Italia, storie che sarebbero anche potute avvenire altrove.»
– In appendice al libro sono elencate le musiche (da Springsteen a Joe Jackson, ai Talking Heads) come se avessi voluto dotare il romanzo di una colonna sonora quasi fosse un film.
«Nel primo libro avevo messo i titoli di coda (l’elenco di tutti i personaggi che avevano partecipato alla storia), in questo le musiche. Sono importanti le musiche elencate perché il romanzo l’ho scritto ascoltando quelle musiche e molta musica in genere. Scrivere è il mio modo di fare musica, di esprimere quell’anelito, quell’ansia di assoluto che è la caratteristica di ogni arte. Questo parallelo tra musica e scrittura ricorre diverse volte nel testo. La musica in Rimini è nel ritmo narrativo. La partitura del libro è orchestrata come una sinfonia: con gli adagi (le vicende del suonatore di sax), con i lenti (la storia di Bruno), con il gran finale rossiniano (serrato, velocissimo).»
– È difficile per un giovane farsi largo nel mercato editoriale?
«Sì, abbastanza difficile. È difficile farsi valutare sulla base della propria personalità, dell’opera, dell’impegno. Spesso valgono di più gli intrallazzi, le conoscenze. Esiste un establishment letterario (quello dei premi, delle pagine culturali dei giornali, dei professori, degli accademici) che – accecato dai propri fasti, da una cultura ottocentesca – non riesce a vedere il nuovo, non è assolutamente in grado di vedere il nuovo.»
– Ma qual è il nuovo?
«La grande cultura giovanile degli anni Sessanta, del rock, del pop che ha prodotto cambiamenti in tutte le arti tranne che in letteratura. E questo è inaccettabile.»
Camere separate, 1989 – Quella seconda volta ci incontrammo a Roma in una qualche redazione in centro. Lui era lì per preparare il primo numero di Panta, la nuova rivista letteraria della Bompiani così chiamata – suggerimento di Alberto Moravia – per assonanza con l’inglese Granta: numeri monografici con racconti di nuovi autori su un tema specifico. Per lui, in qualche modo, una continuazione con altri mezzi di quel lavoro di scopritore di nuovi talentiavviato alcuni anni prima con il progetto Under 25 insieme a Massimo Canalini di Transeuropa. Vedi alla voce Gabriele Romagnoli, Silvia Ballestra e Giuseppe Culicchia.
Quella volta lì era un’altra persona. Erano trascorsi solo quattro anni, pochi o tanti, chissà. Forse sapeva già della malattia. Chissà. Io so solo che aveva uno sguardo mesto e dolcissimo e modi pacati, quasi una sorta di ritrosia, ma forse era la stanchezza della giornata, o forse l’ora già buia di quel tardo pomeriggio, sta di fatto che in quella stanza accogliente di legno chiaro e luci discrete le sue parole mi sembrarono quasi confidenziali.
Un po’ come quelle pagine intime del romanzo in cui aveva scritto che sul ponte di un traghetto mentre dormivano riversi nei loro sacchi a pelo aveva vegliato sui più giovani come un fratello maggiore. Oppure quelle in cui dice del cimitero a un paio di chilometri dalla propria casa di Correggio e di come la sua vita – dopo le tante avventure nel mondo – si sarebbe poi compendiata nel breve viaggio fino «a là». O del disperato dolore di un padre che porta a casa la salma del figlio e di quanto sia intollerabile questo sovvertimento del ritmo naturale.
Fu, dunque, inevitabile cominciare così: Ma allora, come dice il risvolto di copertina, con questo quarto romanzo sei approdato alla cosiddetta maturità?
«Nel risvolto di copertina in effetti è usata questa espressione Romanzo della maturità ma la cosa, sinceramente, mi imbarazza. Maturo rispetto a cosa? Non so proprio dirlo. Del resto un autore non conosce mai del tutto le ragioni che lo muovono. Si scrive sempre un po’ al buio. Per esempio, che il narcisismo fosse un tema del romanzo, anzi: il tema, a me l’ha detto il critico Tagliaferri. Io non ci avrei mai pensato. La scrittura è un continuo e implacabile corpo a corpo con se stessi; qualcosa in cui impegnare, ancor più che nel rapporto con gli altri, tutta la propria sessualità, tutta la propria sentimentalità. Qualcosa, dunque, che ha molto a che fare con l’amore, la solitudine, il narcisismo, che sono poi, talvolta inconsapevolmente, come dicevo, temi ricorrenti di questo romanzo.»
Camere separate racconta la storia d’amore tra Leo e Thomas, la precoce morte di quest’ultimo e, quindi, la scoperta di sé, attraverso il dolore e la solitudine, da parte del giovane Leo, i cui dati in gran parte coincidono con quelli dell’autore.
– Qualcosa, però, è cambiata in questi dieci anni trascorsi dal suo primo libro e, quindi, anche in questo romanzo.
«A me piace descrivere le situazioni collettive, di gruppi, di giovani, di concerti, di luoghi affollati. Mi diverte e penso di essere divertente. L’ho fatto nei primi romanzi e probabilmente lo farò ancora. Questo libro, però, è nato da un bisogno profondo di riflessione sulle ragioni della scrittura e, più in generale, della mia stessa esistenza. È nato da un lavoro di dieci anni sulla solitudine.»
– Dunque è diverso dagli altri.
«Ogni libro è un’avventura a sé. Questo è un romanzo pieno di rispecchiamenti, di morte dell’immagine, di morte dell’ideale. Lo stesso lutto di Leo può essere inteso in senso più generale come il lutto di una generazione un po’ smarrita tra la voglia di buttarsi nel carrierismo, nel rampantismo e quella di guardarsi un po’ dentro per capire bene chi si è, qual è la propria verità, qual è la propria storia.»
– Così come Leo cerca continuamente di capire le ragioni della propria diversità. Solitudine, scrittura, omosessualità: in che cosa consiste la diversità che Leo avverte nei confronti degli altri?
«Certamente non nel fatto di amare un altro uomo. Siamo tutti uguali di fronte all’amore. Amiamo tutti allo stesso modo. La differenza la fa la famiglia, l’ambiente, l’educazione. Mi ha detto il mio editore francese che, secondo lui, il libro piacerà molto alle donne. A me in un primo momento è venuto da ridere pensando che non c’è neppure una donna nel romanzo. Poi, però, egli mi ha spiegato e ha detto che il libro mostra un uomo com’è, come ama, come soffre: le sue debolezze, i suoi slanci, il suo pianto. E questo, in effetti, può piacere alle donne. Le dinamiche d’amore, in fin dei conti, sono sempre uguali, in ogni rapporto: anche quando questo non è vidimato socialmente.»
– La diversità è, dunque, nella scelta della scrittura, dell’arte?
«Sì, è così. La scelta artistica, infatti, implica la necessità di vivere nei confronti della realtà in modo un po’ distaccato. Quando ne parli, la realtà non la vivi per cui sei sempre un po’ dentro e un po’ fuori: in un mondo separato com’è appunto quello della letteratura. A questa contraddizione generale della vita del protagonista si riferisce il titolo del romanzo e non semplicemente al fatto che i due amanti vivono in luoghi diversi. Prima pensavo che lo scrittore dovesse essere più buttato nel mondo, nella vita. Oggi, invece, penso che debba essere più appartato. Almeno credo. Forse perché ormai ho superato i trent’anni.»
– La solitudine è, quindi, un valore positivo.
«Certamente. La solitudine è per Leo un momento di pienezza in cui egli acquista coscienza di sé e della propria storia fino a riallacciarsi al bambino che era, all’infanzia, ai primi ricordi della sua vita. Io penso che chi ama veramente la vita non sia il gaudente, il libertino ma il monaco perché questi cerca l’assoluto. È un po’ così anche per chi scrive.»
– Non è cambiato, invece, il tuo riferimento alla musica, il tuo tentativo di coniugare musica e scrittura. Sembrano, però, diversi i modelli musicali. Quali sono oggi?
«Altri libertini e Pao Pao si rifacevano alla musica rock. Rimini poi è stato il tentativo di costruire il libro come una partitura sinfonica. Anche in Camere separate c’è un tentativo di orchestrazione sinfonica in tre movimenti (che sostituiscono lo spazio angusto e soffocante dei capitoli), il riferimento però è alla musica ambientale o minimale di Brian Eno ed altri. Quella musica in cui le note girano, girano una sull’altra e sembra che non cambi mai niente, non avanzi niente e poi, invece, ti accorgi che quella musica è ancor più scavante di altre e più ricca di immagini.»
Un week end postmoderno, 1990 – Di quell’ultimo incontro nella hall di un albergo nei pressi di Piazzale Clodio a Roma, ricordo bene il disappunto e la quieta fermezza con cui commentò lo sciatto e spocchioso trafiletto di un quotidiano che proprio quel giorno «stupidamente e prevedibilmente» aveva liquidato il suo nuovo lavoro con un banale: Tondelli ha svuotato i cassetti (sottinteso, per vanagloria). Gli ricordai allora quello che mi aveva detto la prima volta circa i tanti cambiamenti che la grande cultura del rock aveva apportato in ogni ambito tranne che in letteratura e insieme convenimmo nell’aggiustare il tiro: fuori dalla realtà del tempo, non era la letteratura ma la critica letteraria.
Parlammo a lungo, adagiati nelle ampie e comode poltrone di quella hall. Bevemmo qualcosa. Era stato di recente a Bari, e parlammo anche di quello. Era piacevole ascoltarlo. Le sue erano parole di persona colta e vissuta che dalla propria esperienza aveva ricavato la leggerezza di un sereno e affabile disincanto.
Di Un week end postmoderno è semplice l’assunto, solo una raccolta di articoli e interventi vari in gran parte già editi nel corso degli anni Ottanta, e complesso l’indice, diciassette pagine iniziali più altre diciotto finali per quello dei nomi. Un week end postmoderno è una trama intessuta di tanti fili, ognuno può percorrerla a modo suo e, come in un «libro di consultazione», spaziare facilmente in lungo e in largo secondo il proprio estro e la propria curiosità, che è poi, al tirar delle somme, l’anima vera di questo testo e il presupposto per stabilire con esso il giusto feeling.
Partecipe e disincantato al tempo stesso, Pier Vittorio Tondelli è stato il migliore cronista dei tanti fermenti creativi che hanno animato negli anni Ottanta il mondo giovanile e della provincia e che però raramente hanno trovato interlocutori attenti e sensibili.
Nella nostra conversazione, quella sera, «lavoro romanzesco» fu la prima definizione del libro di cui parlammo.
«Sì, per molti aspetti Un week end postmoderno è un lavoro romanzesco: un viaggio, fatto a scenari, negli anni Ottanta e, in particolare, nella cultura giovanile di questo periodo; un po’ come un romanzo critico e cioè una serie di apparati o sottotesti che però si prestano ad una lettura narrativa».
– Ma quale immagine del mondo giovanile viene proposta al lettore da questo libro?
«Io credo che, per esempio nella parte chiamata fauna d’arte o in quella dedicata alla vita culturale e creativa nella provincia, questo libro proponga il ritratto di un’Italia giovanile molto fervida e alacre: al Nord come al Sud, dall’area metropolitana di Napoli al Salento a Cagliari a Pordenone all’entroterra emiliano. Per le mie stesse origini, io sono sempre stato molto interessato al problema dell’espressività artistica della provincia e trovo che questa negli anni scorsi, proprio grazie ai vari gruppi giovanili, fosse tutt’altro che vuota e sonnacchiosa come vien fuori, per esempio, da certi libri di Piero Chiara.»
– Gli anni scorsi, dunque, non sono stati solo frivoli come si dice…
«A me non interessa che gli anni Ottanta siano stati quelli del vuoto, dell’immagine, dell’apparenza, dell’individualismo, del rampantismo eccetera. Forse è vero. Anzi: in gran parte è vero. È vero, però, ed è quello che a me interessa (anche per fedeltà alla mia storia), che c’è stata la persistenza di certe tematiche degli anni precedenti, come dimostra il movimento degli studenti, per quanto le richieste rivolte dai giovani alla società siano state diverse che nel Sessantotto o nel Settantasette. Però ci sono state. E poi i primi tre o quattro anni sono stati molto divertenti: pieni di feste, party, discoteche; senza contare il massiccio ritorno dei giovani alle arti figurative, complice il successo internazionale della transavanguardia.»
Fu ricorrente quella sera nelle sue parole l’indicazione negli anni Ottanta di una frattura (che per lui coincideva con l’esperienza dell’ultimo romanzo, Camere separate), come se qualcosa all’improvviso si fosse spezzata e consumato un grande dolore. Nell’insistenza e nell’accento con cui ne parlava riverberava l’eco di un fatto che travalicava l’ambito sociale o di costume per sconfinare in quello privato.
«Certo – disse, infatti, senza tentennamenti – sono stati anche anni spietati. Tutta questa festa poi è finita: per alcuni anche molto male, e cioè con la morte. Nel libro, sotto sotto, molto velato c’è un po’ questo senso di malinconia, di tristezza come di una stagione all’ inferno…»
– Come, del resto, già in Camere separate…
«Certo: di lì, infatti, parte questo lavoro. Camere separate è stato un libro sofferto, azzerante che un po’ mi ha bloccato e proprio per superarlo mi sono impegnato in questo. Riprendere in mano le fila di dieci anni di scrittura, ritrovarne le persistenze o le parti comiche, divertenti, di osservazione e satira della gente comune (cose che, forse, avevo tralasciato per mete più letterarie) è stata per me una cura importante, decisiva: una felice ricognizione nei miei temi che mi ha ridato fiducia.»
– Allora stai già pensando a un nuovo romanzo?
(Lo dicemmo con il tacito e sincero slancio di un augurio)
«No, non sono ancora nella condizione psicologica e nervosa per buttarmi nell’avventura della scrittura.»
Poi non c’è stato più tempo. Solo i titoli di coda.
L’abbandono, 1993, è il secondo tomo e l’epilogo narrativo del precedente volume Un week end postmoderno. Anche in questo caso, dunque, una raccolta di pagine sparse e già edite nel corso degli anni Ottanta. Frammenti noti, isolatamente, ma che insieme, grazie all’abile regia e acume critico di Fulvio Panzeri, costituiscono un prezioso mosaico poiché da esso emerge con estrema chiarezza la dinamica che sosteneva la scrittura di Tondelli. E precisamente il rapporto stretto tra due termini – molto caratteristici della sua persona e della sua produzione – apparentemente antitetici. Tanto che un’interpretazione frettolosa e riduttiva può spingere a riferirli a momenti distinti e separati mentre essi in realtà hanno sempre convissuto, alimentandosi reciprocamente. Anzi: solo in rapporto tra loro assumono il significato pieno che gli compete.
C’è dunque il Tondelli scrittore dei giovani legato a filo doppio a una ben precisa realtà sociale – anche quando essa ormai anagraficamente lo escludeva – abbracciata con slancio profondo e adesione corporale in ogni sua sfaccettatura e contraddizione e finanche mito e moda: dalle trasgressioni e i concerti rock degli anni Settanta alle feste rutilanti del decennio successivo; dai bagordi della creatività alla miseria della droga; dalle lotte, agli slanci libertari, all’ansia di affermazione del proprio talento.
Ammaliato dai suoi riti di massa, addolorato dalla loro scomparsa: di questa tribù – della quale si sentiva fratello maggiore – Tondelli è stato l’epico cantore e instancabilmente ha cercato di unificarne i ranghi sparsi in una lingua comune, una vera e propria koiné giovanile che sapesse raccontare le emozioni con il sound del parlato. E che poi svolgendosi si è irrobustita di un nuovo spessore letterario, procedendo dal racconto in presa diretta al romanzo polifonico giocato su più registri.
Non a caso egli – unico tra gli autori della nuova leva emersa negli anni Ottanta – non si è mai adontato dell’etichetta di giovane scrittore, intendendola appunto come riferimento al suo destinatario privilegiato. Quest’ansia comunicativa, complessiva e non solo letteraria, ha poi alimentato il suo lavoro di scopritore di talenti portato avanti con i tre volumi collettivi del progetto editoriale Under 25 (Transeuropa di Masimo Canalini), nelle cui pagine hanno trovato spazio per la prima volta una trentina di giovani autori, diversi dei quali hanno in seguito continuato in proprio con case editrici nazionali. Un’iniziativa che ancora oggi merita di trovare chi la continui degnamente portando avanti con la stessa intensità l’invito – da Tondelli sempre rivolto a quanti si avventuravano nella scrittura – a disciplinare nello stile l’esuberanza del vissuto: «Forse la differenza tra uno scrittore cattivo e uno valido è tutta qui… Uno prende in giro i lettori, l’altro è consapevole che tutto il suo lavoro è esclusivamente un’operazione sul linguaggio, cioè sui modi di dire una determinata cosa».
Ma quella determinata cosa che Tondelli ha sempre detto nel suo personale «corpo a corpo» con la parola è che un autore «è sempre conteso… fra questo buttarsi fuori, scarnificarsi in pubblico e il bisogno di scappare, tornare nel silenzio». Abbandonare per assistere «alla propria morte nel cuore della persona amata»: e così conoscersi profondamente. Abbandonare, dunque, nel culmine della passione, prima che l’amore finisca: per velarne lo splendore di nostalgia e rimpianto nella solitudine della scrittura; per ricavarne un senso e una pienezza in qualche modo assolute, prima che realtà crudelmente imponga la propria limitata e angusta lettura. C’è sempre quest’altra faccia della luna in ogni parola di Tondelli ed è proprio essa la forza che le proietta al di là del semplice valore descrittivo e documentario di calco della realtà giovanile.
Questa dialettica è sempre viva; è consapevolmente elaborata sul piano della riflessione e particolarmente evidente nell’ultimo lavoro; è lo spleen vero delle sue pagine. Come ci suggeriscono queste parole del ‘90 riportate ne L’abbandono come conclusione: «Sono tornato sulla mia automobile e ho preso la strada di casa. Non volevo arrivare. In realtà, avrei voluto essere magicamente fermato in quella situazione in movimento. Le facce, le corporature, i visi, i gruppi, gli atteggiamenti, le parlate, i gerghi, le musiche erano tornati. Non sarebbero mai più stati la mia vita, ma la mia vita avrebbe fatto sempre riferimento a loro. Per quanto distante mi capiterà di andare, per quanto solitario o in fuga mi capiterà di vivere.»
Perciò anche, senza retorica, a noi che di senso abbiamo bisogno per fare argine al dolore, ci sia consentito attribuire una valenza simbolica alla sua stessa morte. Ci ha lasciati, Tondelli, nel culmine d’una passione. Com’era scritto che fosse.
Biglietti agli amici, 1997 – Attraverso la scrittura narrativa negli anni Ottanta una generazione ha ritrovato il mondo. E se stessa. Scriveva Pier Vittorio Tondelli in Biglietti agli amici: «Lui si è chiesto perché da qualche anno ama viaggiare, mentre, quando aveva vent’anni, assolutamente no. E trova una ragione: quando era giovane non aveva la scrittura… Ora, invece, tutto lo interessa e lo riguarda perché ha la scrittura, ha uno strumento, ha gli occhi, una bocca, uno stomaco per mangiare e guardare la realtà».
Biglietti agli amici fu pubblicato nel 1987 in forma quasi privata dall’editrice Baskerville, poi riedito da Bompiani in un raffinato ed elegante volume corredato da ampio materiale documentario.
Biglietti agli amici ebbe una prima tiratura di ventiquattro copie consegnate da Tondelli ad altrettanti amici il giorno di Natale dell’’86. L’anno successivo arrivò in libreria una seconda edizione con tutte le copie autografate dall’autore, che pregò giornalisti e critici di non parlare di questo suo lavoro «personale… artigianale, curato, prezioso…».
Un «livre d’art…», un piccolo oggetto di culto: leggendario e introvabile, anche a causa di un errore di stampa che comportò la distruzione delle successive copie di rincalzo. Nel ’91 Tondelli – già provato dalla grave malattia che di lì a poco l’avrebbe ucciso – aveva ripreso il testo per una riedizione: affidata alla cura di Fulvio Panzeri, che l’ha anche arricchita d’una sua preziosa nota critica.
Biglietti agli amici comprende ventiquattro brevi prose: una per ogni ora del giorno, ciascuna dedicata ad un amico e introdotta da una tavola astrologica e angelica con funzione propiziatoria e non retorica ricavata da The Magus di Barrett. È il libro dei trent’anni e ha come riferimento principale Trentesimo anno di Ingeborg Bachmann.
Tranne alcuni biglietti antecedenti, è stato scritto tra Rimini (’85) e Camere separate (’89) e segna il passaggio dell’attenzione preminente di Tondelli dal plot alla ricerca dentro di sé, che nel nuovo romanzo prenderà la forma elegiaca della «riflessione sull’abbandono come ferita e dimensione della nuova unità di tempo».
Con Biglietti agli amici – scrive Panzeri – Tondelli si raccoglie «in più intimo volo». Si concentra su di sé «per imparare ad amare quella persona che porta il suo stesso nome. Ora sa che per imparare a scrivere e a progredire deve amare quella persona» (Biglietto n° 21).
Dopo aver aggredito il mondo con la traslazione letteraria della «cultura del rock», il «sound del linguaggio parlato», i gerghi giovanili e le scorribande narrative tra la via Emilia e il West; dopo aver dato voce in Dinner Party (‘84) al disincanto della «generazione del ‘77»; dopo aver celebrato riti e miti postmoderni nel canto polifonico di Rimini: con Biglietti agli amici, infine, Tondelli ritrova se stesso nel «ritorno» agli affetti più cari.
Prende così quota quel volo intimo che lo avrebbe riportato in famiglia a Correggio e che il 7-8 settembre ‘91 gli avrebbe fatto appuntare queste parole sulla traduzione testoriana della Prima lettera ai Corinti: «Io ho sempre pensato che la scrittura avrebbe potuto con gli anni e col lavoro “salvare” la storia miserrima… (la mia) … Ma non sarà così. La letteratura non salva mai, tanto meno l’innocente. L’unica cosa che salva è Amore, la fede e la ricaduta della Grazia».
Sono parole d’una limpidezza commovente, come un caldo abbraccio dentro il quale non c’è altro che affetto. Non sono una sconfitta ma la conquista di una verità attraverso la letteratura per avviare un cammino oltre la letteratura: «…il percorso che io cerco di intraprendere e di cui, sinceramente, non vedo ancora la realizzazione, non è altro che il Satori buddista, l’illuminazione interiore sul tutto. Ma per fare questo la Via della Croce è il percorso giusto? E la carità? E la testimonianza?».
Dubbi, interrogativi che il tempo non gli ha dato modo di sciogliere, sta di fatto però che «quel grande male anche metafisico, l’Abbandono, è stato in qualche misura superato».
(3 – continua)
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