Pietro Germi è senz’altro uno dei grandissimi del cinema italiano, eppure nessuno lo cita mai come tale. Il suo era un cinema per il pubblico al quale raccontava storie che dovevano divertirlo. E divertire al cinema, diceva, significa non soltanto far ridere ma anche emozionare, commuovere, piangere ed anche mettere a nudo la realtà. I suoi tre film satirici (Divorzio all’italiana, Sedotta e abbandonata, Signore e signori) raccontano la storia del costume italiano in modo impietoso.
Pietro Germi era un personaggio fuori del coro e forse per questo tenuto in disparte dalla critica del tempo. Ma Pietro Germi è stato un gigante alla faccia di chi non lo capì e di chi ancora continua ad ignorarlo o a sottovalutarlo.
A Pietro Germi si rimproverava di non essere comunista, da parte di critici ortodossi, come Barbaro o Aristarco. O meglio si rimproverava di non avere nei suoi film una visione “ortodossa” della classe operaia. I film dello scandalo furono Il Ferroviere e Un uomo di paglia, dove si rappresenta un operaio nelle sue debolezze umane, che lo tengono lontano dalla “lotta di classe”.
Questo scriveva Barbaro: “… a me questi operai di Germi che si comportano senza intelligenza e senza volontà, senza coscienza di classe e senza solidarietà umana – metodici e abitudinari come piccoli borghesi – la cui socialità si esaurisce in partite di caccia domenicali o davanti ai tavoli delle osterie – che non hanno né brio né slanci, sempre musoni e disappetenti, persino nelle cose dell’amore- che ora fanno i crumiri e ora inguaiano qualche brava ragazza, spingendola al suicidio – e poi piangono lagrime di coccodrillo, con le mogli e dentro chiese e sagrestie – questi operai di celluloide, che, se fossero di carne ed ossa, voterebbero per i socialdemocratici e ne approverebbero le alleanze, fino all’estrema destra, non solo sembrano caricature calunniose ma mi urtano maledettamente i nervi”.
L’ortodossia ideologica fa prendere un abbaglio a un critico acuto come Barbaro, il quale non giudica il film per quello che è ma per quello che dovrebbe essere secondo la linea del partito. E fa indignare anche altri critici comunisti, meno legati alla ortodossia, come Antonello Trombadori, direttore de Il Contemporaneo, il quale insieme al condirettore Carlo Salinari e allo storico Paolo Spriano, scrive nel 1956 a Palmiro Togliatti una lettera che contiene una indignata lamentela e con la quale chiedono al segretario del partito di incontrarsi con Germi per non allontanare un uomo e i “mille come lui” così importanti per il movimento antifascista : «Veniamo proprio in questi giorni dall’aver visto un film italiano assai bello e commovente, certamente popolare: “Il ferroviere”, di Pietro Germi. È un’opera di un socialdemocratico militante, eppure è un film pervaso da ogni parte di sincero spirito socialista».
La lettera non ebbe nessun seguito, perché Togliatti né altri dirigenti del partito incontrarono mai Pietro Germi, e non fu neppure pubblicata. Fu fatta conoscere, nel 1990 quando Togliatti era morto da 26 anni, Germi da 16, e il partito comunista stava pure cambiando nome.
Pietro Germi, nonostante gli attacchi, sta a rappresentare il fallimento della politica dirigistica nel cinema e nella cultura messa in atto da una parte importante del partito comunista. Una politica che fallì anche con il padre del neorealismo come Vittorio De Sica, nelle cui opere i protagonisti si comportano in maniera isolata, in perfetta solitudine, lontanissimi comunque dalla classe e dal partito.
Una politica che fallì anche con Federico Fellini il quale seguiva un suo mondo fantastico che prescindeva da tutto e che difendeva con ogni mezzo, rivolgendosi persino ai gesuiti e ai cardinali.
Il successo mondiale fu in qualche maniera lo scudo che schermava De Sica e Fellini mentre Germi non godeva di nessuna protezione, essendo la sua fama, fino all’Oscar ottenuto con Divorzio all’italiana, circoscritta nell’ambito domestico. E poi Germi era socialdemocratico militante e dichiarato, e quindi da emarginare.
Ma Pietro Germi, anche se soffriva molto di questi attacchi e di queste critiche ingiuste e strumentali (così mi ha riferito Mario Raimondo, un importante intellettuale, grande esperto di teatro, che in quegli anni fu nel partito socialdemocratico), in realtà seguì la sua strada, continuando a raccontare la realtà italiana usando la sua grande arte e il suo grande mestiere (non dimentichiamo che oltre ad essere regista fu anche un ottimo attore), padroneggiando i generi cinematografici più diversi, fino al momento più alto raggiunto con la trilogia satirica.
L’Italia è un paese in cui i grandi si ricordano soltanto quando ci sono gli anniversari, non mi sembra che ci siano stati grandi ricordi per Pietro Germi, i cui film continuano ad essere ignorati soprattutto fra i giovani. Non ci sono stati convegni, né rassegne televisive e neppure opere restaurate.
In un Paese che sembra aver perso la memoria.
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