Collezionista. Maniaco. Quasi accumulatore seriale di: penne, sigari, sigarette, fiammiferi, banconote fuori corso, assegni, medaglie, pergamene, bacchette da direttore d’orchestra, pipe, bocchini, cravatte, bastoni, orologi, strumenti musicali…sfinita dall’immensità di questo elenco la figlia Emy Mascagni, nel suo libro su papà Pietro, racconta la sua smania di raccogliere di tutto.
E le passioni?
Intanto l’eleganza. È il punto di riferimento per i giovanotti dell’epoca. I suoi vestiti, i colletti duri, le scarpe, la pettinatura, l’essere perfettamente rasato in un’epoca di baffi e barbe abbondanti (voci maligne dicono che è perché a lui non crescono abbastanza).
È fissato con la bicicletta e il tamburello. Gioca a scopone e a biliardo ed è il tipo che costringe amici e parenti a interminabili tornei fino a notte inoltrata. Un tormento, dal quale nessuno si permette di svicolare.
La povera Emy è fra le sue vittime “Per parte mia tremo ogni volta che il babbo mi invita a giocare con lui e faccio patti chiari: fino a che mi chiama idiota, sopporto; in casi eccezionali anche bestia, ma oltre non tollero”.
Ammiratrici a plotoni. Famiglia doppia. Moglie legittima e tre figli: questa è la situazione pubblica. Naturalmente c’è anche l’amante fissa, nascosta. Entrambe innamoratissime di lui, sanno una dell’altra, e la moglie gli fa spesso tempestose scenate, ma si tollerano (per 35 anni!) odiandosi: quello che importa è stare vicine al genio.
Papà è un panettiere a Livorno, non ricco ma conosciutissimo in città, del tutto contrario all’idea di Pietro musicista. Naturalmente l’adolescente ribelle decide di fare proprio quello che papà non vuole e si mette immediatamente a studiare pianoforte e organo, facendo progressi perché ha talento. A Livorno c’è un gruppo di artisti ragazzi: musicisti, poeti, pittori, che si riunisce alla Casetta Rossa sul molo e molti dei quali rimarranno amici per la vita. A detta di tutti Mascagni è il più rumoroso del gruppo.
Va al conservatorio di Milano. Si accampa in una stanza con Puccini, squattrinato come lui. Nasce una fervida amicizia; dividono i pasti e le ore di studio, comprano gli spartiti di Wagner e Boito e li studiano insieme. Puccini riceve dai suoi una paghetta di 125 lire, Mascagni, un po’ più povero, solo 100. Se le fanno bastare, andando spesso a mangiare in un caffè di Via Manzoni, il cui proprietario fa loro credito, di sicuro sapendo che mai lo pagheranno.
Presto si stufa del conservatorio e, dopo una furibonda discussione con il direttore, lo molla buttandosi in una improvvisata carriera di direttore d’orchestra in compagnie di operette e riviste, fatta di ingaggi miserabili in teatrini di provincia.
A un certo punto arriva il colpo di fortuna. Nel 1888 l’editore Sonzogno lancia un concorso per un’opera in un atto. Mascagni e il suo librettista Targioni-Tozzetti (uno dei ragazzi della Casetta Rossa) scelgono “Cavalleria rusticana”, da una novella di Verga. La composizione procede fra furiosi entusiasmi e depressioni devastanti e si arriva all’ultimo giorno per la consegna, con il compositore demoralizzato e indeciso. Per fortuna la moglie Lina che ha più fiducia di lui nel suo talento, gli strappa la partitura dal leggio e corre all’ufficio postale riuscendo a spedirla appena in tempo.
“Cavalleria” si piazza fra i primi tre su 73 concorrenti. La eseguono al Teatro Costanzi di Roma, ha un successo clamoroso e si guadagna il primo premio. È la gloria. Anche se compone altre opere, “Cavalleria” si salda tenacemente al suo nome, facendo entrare anche lui nella categoria dei “compositori monotitolari” (in quel periodo possiamo citare come membri del club anche Leoncavallo con “Pagliacci”, Giordano con “Andrea Chenier” e Cilea con “Adriana Lecouvreur”).
Nel frattempo Verga, non del tutto soddisfatto dell’accordo per la riduzione del suo testo, fa causa all’editore, la vince e ottiene come risarcimento il 25 per cento dei diritti di esecuzione. Forse un problema per Sonzogno, non per Mascagni.
Dopo il successo di “Cavalleria” parte una brillantissima serie di viaggi e trionfi in tutto il mondo. Illuminata o funestata, comunque marcata da episodi davvero clamorosi, come il suo arrivo in nave a Buenos Aires, che lui stesso racconta in una lettera: “Quando scesi a terra l’entusiasmo di tutta quella folla divenne feroce ed ebbi paura di essere soffocato: fui sbattuto qua e là, pestato da tutte le parti tanto che per giorni ebbi dolori alle braccia e al petto”.
Negli USA gira come un matto fra le molte Little Italy della nazione e racconta (in un’altra lettera) che ogni comunità lo accoglie con la sua banda musicale e che spesso questa banda si chiama proprio Banda Mascagni
Dal 1927 abita fisso, come forse era il suo sogno di ex artista povero, in un sontuoso appartamento dell’Hotel Plaza di Roma.
Quello stesso anno rappresenta ufficialmente l’Italia per il centenario della morte di Beethoven a Vienna, nel ‘29 viene nominato Accademico d’Italia, nel ’32 si iscrive al Partito Nazionale Fascista legandosi sempre di più al regime tanto è vero che alla sua morte, dopo la guerra, il presidente del Consiglio Ferruccio Parri gli nega i funerali di stato.
Non importa: alle sue esequie private è presente una folla sterminata e la sua convinta o, come è più probabile dati i tempi, obbligatoria adesione per rimanere nel giro non ci impedisce di considerarlo un grande. Forse discutibile come persona, ma come artista, un grande.
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