La nuova grande pietra di inciampo della sinistra
Sedici/C Clio Storia del presente
Massimo De Angelis
Scrittore e giornalista, si occupa di filosofia
Per gentile concessione dell’editore Belforte e dell’autore Massimo DeAngelis, anticipiamo l’intervento principale del volume Il nuovo rifiuto di Israele. Riflessioni su Ebraismo, Cristianesimo, Islam e l’odio di sé dell’Occidente, a cura di Massimo De Angelis, Livorno, Belforte editore, 2024, 359 p.
L’opera verrà presentata martedì 17 dicembre 2024 alle ore 17.00 a Roma, Senato della Repubblica, sala Isma – Piazza Capranica 72
Introduce
MARIA STELLA GELMINI
Coordina
ROBERTA ASCARELLI
Ne parlano
ROCCO BUTTIGLIONE, RICCARDO DI SEGNI EMMA FATTORINI, STEFANO PARISI
Saranno presenti l’autore e l’editore
I lavori del convegno saranno trasmessi in streaming al link: webtv.senato.it e sul canale youtube del Senato Italiano. Per partecipare all’evento è necessaria la registrazione indicando nome e cognome alla mail: metaphora.comunicazione@gmail.com 331.2311296 Si raccomanda abbigliamento consono. L’accesso sarà consentito sino al raggiungimento della capienza massima.
04 dicembre 2024
Mi sto convincendo che in Occidente si è sempre meno capaci di comprendere che cos’è l’ebraismo, la sua identità, il senso della sua storia, se vogliamo il suo destino.
Si apprezza allora la letteratura ebraica (specie quella della diaspora), si amano le note di Mahler e ci si entusiasma per Chagall ma tutto questo non si traduce in un’empatia per il vissuto del popolo ebraico.
Non solo. Cresce oggi, in Occidente, un’incomprensione mista a ignoranza verso il fenomeno storico del sionismo. Nel secondo dopoguerra esso venne accettato dagli europei. Anche se forse più come risarcimento per la tragedia vissuta dagli ebrei con la Shoah che come riconoscimento di un diritto a “tornare” nella propria terra. Oggi non più. Oggi il sionismo viene semmai assimilato, secondo una fake historiography, al colonialismo europeo.
È questo l’antefatto delle innumerevoli manifestazioni di solidarietà a favore dei palestinesi e di Hamas, svoltesi nelle università americane ed europee – subito dopo il 7 ottobre 2023 e paradossalmente ancor prima della risposta israeliana – e viceversa delle censure imposte ad analoghe iniziative a favore di Israele. E poi dell’odio antigiudaico che subito ha cominciato a scorrere a fiumi nei social media. Per non parlare del numero, crescente in questi mesi, di attentati e intimidazioni contro ebrei ovunque nel mondo. E ancora, è ormai sempre più frequente che si vogliano escludere da convegni o da manifestazioni artistiche persone semplicemente perché ebree. O che sia posto il veto a collaborazioni con le università israeliane.
Quel che colpisce in quest’insieme di eventi è che in essi, sempre più apertamente, non ci si limita ad attaccare Israele ma s’invoca la sua distruzione, si nega suo stesso diritto a esistere. E ciò anche da parte, oramai, di esponenti di governo europei. È questa la nuova grande pietra d’inciampo. Non di tutto l’Occidente ma di una significativa parte di esso: essenzialmente la sinistra progressista e radicale.
È in seguito a tutto ciò che in giro per il mondo, non solo in Israele, gli ebrei si sentono di nuovo vulnerabili e minacciati. Si è giunti, persino in sedi istituzionali, a rovesciare i termini della questione: a definire genocida il comportamento di difesa contro i terroristi di Hamas e non quello di Hamas stesso. Eppure, è Hamas a proclamare esplicitamente che i suoi atti hanno come scopo l’annientamento di un popolo, che è il significato proprio del termine genocidio. Annientamento di un ghénos, di una stirpe. Mentre non è questa l’intenzione, né esplicita né implicita, di Israele come dimostra il fatto che circa il venti per cento della sua popolazione è araba e per lo più palestinese.
Infine, è lecito domandarsi: perché, da parte dell’Occidente (non parliamo dell’Onu), si sono spese tante parole ma non si è detto qualcosa di chiaro e definitivo ad Hamas, responsabile del più feroce pogrom del dopoguerra? Perché non si è detta ai terroristi di Hamas quella parola chiara detta ad esempio in Italia alle Br: «deponete le armi e rilasciate gli ostaggi, arrendetevi. Senza condizioni?»
Tutto questo non significa dimenticare la sofferenza dei palestinesi che sono ridotti a scudo umano da coloro che pretendono di parlare a nome loro e dei loro diritti. Tornerò su questo punto. Ma qui occorre subito dire che, se si ha a cuore la causa dei palestinesi e il loro dolore, è un errore e un orrore farlo in modo strumentale. Occorre dirlo con chiarezza. Superare la situazione attuale, finire con la guerra, pensare la pace in Medio Oriente si può solo a una condizione: rinunciare alla volontà di distruzione dello Stato di Israele e al contrario riconoscere effettivamente e solennemente il suo diritto all’esistenza da parte dei numerosi Stati che Israele circondano – a cominciare da Iran, Siria, Turchia – e che invece armano sempre più massicciamente movimenti e gruppi terroristici tutt’intorno a Israele, a cominciare certamente da Hamas a Gaza e in Cisgiordania, Hezbollah in Libano, gli Houthi in Yemen, con lo scopo di annientare “gli ebrei”.
Torniamo al punto. L’Occidente dovrebbe nettamente opporsi alle minacce di nuovo genocidio degli ebrei e invece non lo fa. Non vede che è questo in gioco. Ricordare l’orrore della Shoah se non vuole essere una manifestazione ipocrita e persino strumentale, significa oggi innanzitutto questo. E ha valore universale per questo: ricordare che l’uomo è capace di volere l’annientamento dell’altro in quanto appartenente a un’altra razza, religione o etnìa. E che è questa volontà di annientamento totale che segnala un crimine contro l’umanità che va oltre l’orrore della guerra. E ancora che oggi, in molti Paesi islamici, tale obiettivo è anche ufficialmente all’ordine del giorno. Ricordare la Shoah ha senso solo se si sa guardare anche al presente e al fatto che Israele è quel Paese del mondo il cui sradicamento, la cui eliminazione è apertamente richiesta in molte parti del mondo.
Ma torniamo all’Occidente. Dobbiamo ora chiederci: perché questa sua incapacità di vedere tutto quanto detto e comprendere le ragioni esistenziali di Israele? Perché la freddezza e diffusa ostilità, soprattutto tra gli intellettuali, ma ormai anche da parte di numerosi esponenti politici e di governo?
Per provare a spiegarlo procedo per cerchi concentrici. In primo luogo, si allontana l’epoca della Shoah; la memoria di quegli eventi si fa più labile. L’oblìo è una componente fisiologica della storia umana. Una certa dose di oblìo è indispensabile nella vita e nella storia. Oggi avviene però qualcosa di sottilmente diverso. Oggi l’oblìo diviene quasi un valore: contrapposto e superiore a quello della memoria. Una sorta di “insostenibile leggerezza dell’essere”. Qualche decennio fa si parlò in Europa di fine delle filosofie della storia. Oggi la nostra epoca, votata unilateralmente al culto dell’innovazione, pretende – illusoriamente ma lo pretende – di archiviare la storia stessa. È la presunta e conclamata “fine della storia”.
Anche qui vi sono, a monte, poderose tendenze culturali. Si è partiti dal decostruttivismo e dalle “guerre culturali” negli anni Sessanta, negli Stati Uniti d’America ma anche in Francia, per giungere oggi al wokismo e al cancel culture che vuole connotare negativamente e gettare alle ortiche l’intera storia dell’Occidente.
È in questo quadro che si giunge, assurdamente, a comparare la nascita di Israele con le conquiste coloniali europee, oscurando il fatto che gli ebrei non giunsero-tornarono nella loro terra per sete di conquista ma in cerca di salvezza, che Israele non è una terra distaccata dalla madrepatria ma la loro sola terra nella quale si sono costituiti come popolo con una religione, una cultura, una lingua diverse migliaia di anni fa e dalla quale furono più volte cacciati e dispersi. Ma wokismo e cancel culture non sono mode naive bensì un modo di pensare radicale che si salda al terzomondismo e in Europa anche alla crescente presenza demografica ed economica islamica. È ancora un modo di pensare legato ad ampi settori del mondo intellettuale occidentale, grandi industrie culturali come la Walt Disney, al pensiero unico del politically correct che impera in modo sempre più intollerante in tante università, soprattutto americane ma non solo, il quale soffoca sempre più la libertà di ricerca e di pensiero.
Ma ancora. Queste tendenze hanno un presupposto culturale più originario. La civiltà occidentale è sempre stata “autocritica”. E questo è stato un suo punto di forza e un cardine della sua stessa idea di libertà e a quella di progresso. Pensiamo solo al movimento socialista tra Otto e Novecento. Oggi però tale autocritica per un verso è stata “sciolta” nel pensiero unico e per l’altro si è tramutata in quello che Joseph Ratzinger definiva l’“odio di sé” dell’Occidente. È questo un passaggio che nasce da un mutamento di prospettiva. Quale? Il rifiuto crescente del passato, innanzitutto del proprio passato, vissuto come un inutile ingombro. Chiunque critichi il nuovismo e il pensiero unico dei diritti che sempre più vuol conformare natura (con le biotecnologie) e pensiero (algoritmi, AI) dell’uomo ai suoi princìpi è immancabilmente accusato di oscurantismo, di “ritorno al medioevo”, come si ripete di continuo. Domina il rifiuto del passato in nome del futuro. Un futuro peraltro prefigurato come illimitato incremento tecnologico ed estensione di un eterno presente.
Come definire questo pensiero dominante? In un solo modo. Come progressismo. Che non va confuso con l’idea di progresso ma ne costituisce una profonda alterazione. Si potrebbe dire una sua mistificazione. L’idea di progresso era interna a una visione storica dell’uomo e all’idea di un percorso ascendente al cui centro era l’uomo. L’idea di progresso apparteneva in altri termini all’universo delle filosofie della storia e alla convinzione che la storia avesse un senso e una direzione. L’odierno progressismo al contrario è un’ideologia che vede nella tecnologia, non nella storia fatta dagli uomini, la chiave del destino umano.
Nell’Umwelt tecnologico l’uomo non deve più emanciparsi ma lasciarsi guidare. La sua libertà – abbandonata ogni spinta “umanistica” e “spirituale”, si restringe sempre più alla sfera dei desideri e pulsioni individuali e al loro indefinito soddisfacimento, allargamento e potenziamento attraverso competizione e contrattazione.
In tale prospettiva c’è sempre meno spazio per la politica o per soggetti collettivi; non ha senso l’identità nazionale perché si è ovunque “cittadini del mondo”, e la stessa democrazia vede impoveriti i suoi contenuti sostanziali, riducendosi sempre più alla liturgia del voto e assumendo i tratti di una democrazia “cosmopolitica” fondata sempre più, solo ed esclusivamente, sulla giurisdizione interna e il diritto internazionale e sui diritti dell’individuo che a questo punto esprimono in realtà la sua volontà di potenza.
Una democrazia nella quale i mass media non svolgono più la funzione di formare un’opinione pubblica critica ma quella di diffondere l’opinione “illuminata”. Una democrazia infine fondata oltreché sulla tecnologia, e innanzitutto sulle piattaforme, sulla fiducia nei mercati, capaci di diffondere benessere crescente per tutti. Potremmo in conclusione definire quello attualmente trionfante in Occidente come un progressismo tecnocratico-borghese.
E allora: come connotare tutto ciò se non come una nuova, inquietante ideologia futurista? Un’ideologia che, come quella di un secolo fa, viene ultimamente mostrando sempre più, col passare dei mesi e degli anni, una sua inquietante propensione al confronto bellico, alla guerra.
Ma tutto ciò, ecco il punto, comporta un’erosione radicale delle basi stesse della cultura occidentale. Comporta in realtà la presa di distanza da ogni cultura. Dalla cultura in sé. Lasciamo stare qui le nostre scuole o università. Basta vedere come sono ridotte per lo più le pagine culturali dei nostri quotidiani. Un po’ di marketing dell’industria editoriale. E poi divi, spettacoli.
Gli influencer come nuovi maîtres-à-penser. Ma la cultura, non solo l’alta cultura, è altro. Essa è innanzitutto memoria. Memoria che produce identità. Identità che consente di conoscere e riconoscere l’altrui cultura e l’altrui identità attraverso una comunicazione discorsiva. Memoria e identità sono il presupposto di ogni relazione discorsiva dell’individuo con gli altri. Altri passati, presenti e venturi. In una parola a una storia e al suo dipanarsi. Ma oggi l’individuo esaltato è precisamente l’individuo a prescindere da ogni sua relazione vissuta come vincolo.
Qui si intravvede un nuovo cerchio di quel che sta accadendo in Occidente. Ogni comunità, a cominciare da quella fondamentale della famiglia, cessa di essere un Umwelt, un universo soggettivo e intersoggettivo con cui costruire identità e senso ma la sede di un utile e tutt’al più di una protezione. Lo stesso accade con le comunità più grandi, dalle scuole sino al popolo. L’appartenenza a un popolo alle sue tradizioni e cultura, a una memoria e a un passato è tutto ciò che, se qualche volta viene accettato come folklore, è tuttavia essenzialmente considerato come fonte di oppressione dell’individuo stesso.
E però, come sosteneva Rousseau, l’appartenere a una comunità di valori, di cultura, a una storia di cui si è consapevoli e anche orgogliosi, rafforza l’individuo. Mentre oggi assistiamo al progressivo deculturalizzarsi tecnicistico dell’individuo occidentale. L’individuo, che è il frutto più alto della nostra civiltà, se però isolato da tutto, cessa di essere una persona, si deculturalizza e regredisce, diventa un atomo disperso in qualche nuvola digitale senza alcuna possibile educazione. E al posto del popolo c’è la moltitudine e, daccapo, la stessa democrazia perde il suo fondamento. Diventa fragile e “volatile” quanto le Borse.
Vi è un ultimo cerchio da percorrere. È quello che riguarda la dimensione spirituale, la fede, la religione.
L’ideologia progressista, nella sua lotta contro ogni retaggio del passato, considera anche ogni religione in definitiva come un impaccio. L’ebraismo quanto il cristianesimo. Già il razionalismo dell’ultimo mezzo secolo aveva inteso relegare la fede nello spazio privato considerando ogni dimensione metafisica e trascendente come forme in definitiva di superstizione, di tradizionalismo di antimodernità e comunque come ciò che non può essere ospitato nel discorso pubblico. Oggi, essendo la tecnoscienza il vero “motore mobile” del divenire di uomini e cose, ogni discorso su Dio sembra perdere qualsivoglia rapporto con la verità in quanto tale. Esso può essere al più una manifestazione di soggettivismo, sentimentalismo, desiderio. Ma il discorso su Dio perde ogni rilevanza in rapporto alla realtà e alla storia.
A questo punto possiamo infine tornare al tema dell’ebraismo.
Quanto detto sinora mi pare renda chiaro perché l’ebraismo, e ancor più il sionismo, sono oggi poco compresi e amati in Occidente. E sostanzialmente osteggiati dal progressismo.
Qui occorre esser chiari e andare dritti al cuore del problema. L’ebraismo è l’esperienza teologica e storica di un popolo, del popolo ebraico. Del popolo di Abramo. L’ebraismo è legame col passato e perciò con un futuro carico di senso, è memoria, popolo, teologia. E il sionismo è la tappa più recente di quella storia.
Ebbene – sulla base di quanto detto prima – sono proprio tali elementi fondamentali dell’ebraismo a non essere più compresi e accettati in Occidente. Quel che fa scandalo è precisamente che l’ebraismo si concepisca come popolo con identità, legami familiari forti, memoria, storia e con un peculiare rapporto con la Promessa.
In Occidente oggi, a causa dell’ideologia progressista e globalitaria, ogni costituzione identitaria desta sospetto. Se l’uomo è in realtà un “particolare” che si apre all’”universale”, producendo perciò vita umana e storia, per il progressismo odierno della fine della storia è valore solo l’universale contro il particolare e quindi la verità è un’omogeneità uniformante, un eterno presente, contro, heideggerianamente, ogni Dasein, ogni Esser-ci.
Diciamo anche contro ogni vita. L’irreversibile crollo demografico ne è l’espressione. Mentre non a caso Israele è demograficamente forte.
Perciò l’ostilità antiebraica occidentale oggi ha un sottofondo filosofico assai diverso da quello del Novecento. Allora esso si manifestò, specie in Europa, come esito di nazionalismi aggressivi ed escludenti che rifiutavano ogni spazio a identità diverse e che, nel nazionalsocialismo, manifestarono un odio contro il “popolo della trascendenza”. Oggi l’antiebraismo è motivato in modo opposto. Oggi fa problema l’identità nazionale e teologica del popolo ebraico per un’ideologia che considera ogni identità nazionale o religiosa come un ingombro. Oggi il sentirsi tedeschi o cattolici appare a molti come un impaccio sulla via del sogno cosmopolita. E tanto più il sentirsi ebrei e israeliani. Perché l’ebraismo è sì espressione alta di universalismo e di trascendenza ma del pari è particolare, è radici, storia. È l’unione delle due cose. Paradossalmente tutto ciò può essere probabilmente meglio compreso nel mondo islamico, il quale però, in settori importanti e minacciosi, semplicemente ancora rifiuta e vuole distruggere l’identità ebraica. E tuttavia, è difficile immaginare un percorso di pacificazione duratura in Medio Oriente se non si muove in direzione di un riconoscimento reciproco, sul terreno, innanzitutto, teologico e religioso. Un processo che comprenda le tre religioni monoteiste nelle loro molteplici diramazioni.
Qui si colloca il tema ineludibile delle genti palestinesi. Il prezzo che esse pagano è molto, troppo alto. Ma chi ne porta la responsabilità? La responsabilità, la colpa – è giusto usare questa espressione – è di quei regimi politici aggressivi e del loro sottofondo fondamentalista che non ha mai accettato l’esistenza di Israele e non ha mai cessato di perseguire l’obiettivo dell’annientamento d’Israele e del popolo ebraico. Cessi tutto ciò, si riconosca e poi si dichiari universalmente il diritto e il valore dell’esistenza del popolo ebraico come di ogni altro popolo. E allora anche i palestinesi potranno e dovranno avere giustizia e pace.
Ma torniamo e chiudiamo sull’Occidente. La minaccia esistenziale che sta vivendo Israele oggi continuerà probabilmente a essere accolta con crescente incomprensione e ostilità. E tuttavia. Israele, l’ebraismo sono pur sempre elemento essenziale dell’Occidente e della sua storia. E allora, prima o poi, potrebbe avvenire anche che essi richiamassero l’Occidente a riscoprire l’importanza della sua storia e a guardare a quelle che sono le sue radici e la sua identità. A ritrovare il sentiero del Giorno, oltre l’incantamento tecnocratico progressista. A ritrovare il filo e il significato stesso dell’identità di noi popoli occidentali, e innanzitutto europei, che è in larga parte ebraico-cristiana oltre che greca e romana: il grande “poligono” che ha consentito il fiorire della nostra civiltà.
Nei fatti drammatici di oggi in varie parti del mondo, all’improvviso, l’Occidente si trova dinanzi tanti altri da sé che pensava di aver ricondotto alle sue regole grazie alla superiorità tecnologica ed economica. Ma dinanzi alla sfida delle altre culture l’Occidente, e in primis l’Europa, debbono porsi innanzitutto un interrogativo: qual è la nostra identità più profonda? Sono sufficienti i diritti dell’individuo? È sufficiente la libertà donata dalla tecnologia? Ma quale identità se non, innanzitutto, quella ebraico-cristiana? Reggeremo altrimenti come comunità e civiltà in un contesto dove il Ramadan sarà sempre più rispettato insieme al Gay Pride – la grande festa di tutti i diritti individuali – e la Quaresima o la Pasqua saranno sempre più oblìate e nel loro effettivo significato?
La critica antioccidentale non ha nulla di rassicurante. Quelle stesse moltitudini che scendono in piazza per la Palestina e Hamas sono pronte a scatenarsi contro le nostre istituzioni. Ma quella critica una cosa afferma che l’Occidente trascura nei fatti: la relazionalità e l’interdipendenza degli individui umani nelle comunità e quindi la loro identità storica, mentre l’Occidente sempre più proclama il valore di un sovranismo individuale senza tempo e senza luogo.
Il grande poligono di culture sopra ricordato ha prodotto alfine l’individualismo come la massima e del tutto eccezionale fioritura della civiltà occidentale, figura secolarizzata della concezione cristiana del valore assoluto della persona. In tutte le altre culture una collettività ha la preponderanza incondizionata, che si tratti dell’etnìa, del popolo o della comunità religiosa. Oggi però quella secolarizzazione sta superando una soglia decisiva: un sempre maggior numero d’individui giunge all’idea che quel che importa sia soltanto “la realizzazione del Sé individuale”. Con ciò la contraddittorietà della civiltà occidentale raggiungerebbe probabilmente il suo ultimo stadio e allora le altre civiltà, modernizzate dal contatto con l’Occidente ma restate fedeli ai loro collettivismi “primitivi”, potrebbero avere il sopravvento. Ebbene. Forse allora l’ebraismo che è alla radice dell’Occidente e dello stesso cristianesimo, col suo equilibrio tra particolare e universale e col suo intreccio tra storia e teologia, potrebbe, se compreso, aiutarci a non commettere questo errore davvero fatale. A non dissolvere identità e bene comune nel frullatore della volontà di potenza individuale. Ecco. Al fondo della crescente tensione tra ebrei e Occidente c’è tutto questo. C’è soprattutto questo. E forse il messaggio più profondo, prezioso e direi esemplare che l’ebraismo può trasmetterci oggi con la sua resistenza, contro il fondamentalismo islamista ma anche contro il nichilismo dei valori occidentali, sta proprio in tale resistenza stessa.
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